Questo pomeriggio alle 16 Barbara Bernardini sarà ospite in diretta a Fahrenheit su radio 3.

di Danilo Soscia

Per me tutto è iniziato con la vigna di Renzo Tramaglino. O meglio con lo spettro di quella vigna. Quando nel XXXIII capitolo il filatore si riaffaccia sul suo giardino, vive l’esperienza che tocca a ogni uomo cui è concesso il privilegio (o il trauma, a seconda dei punti di vista) di osservare da vicino le proprie rovine. Da lì sono passate forze che hanno agito a prescindere dalla sua volontà. Radici involute, rovi, terra divelta sono il loro lascito. La Natura è anche, e soprattutto, questo: fagocitazione immemore delle pretese umane. E così sul disegno paradisiaco di quello che, prima della peste e delle sue rivoluzioni, era stato l’orto ben coltivato di Renzo, con la grafia sghemba del loglio e della gramigna si è impressa un’altra storia. A compensare la sconsolatezza dell’hortulanus Renzo interviene tuttavia la finissima retorica compositiva della pagina cui lui stesso appartiene, fatta di assonanze, rimandi botanici colti e allegorici, geometrie così ben trattenute nella parola da apparire a loro volta un fatto naturale. Una laica santificazione <<di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle>> che, pur svolgendo il ruolo di attributi del caos nella percezione di Renzo e del lettore, sono anche il frutto di un processo estetico – e quindi culturale – salvifico.

Per me tutto è iniziato con la vigna di Renzo, dicevo. Ma forse sarebbe meglio scrivere che tutto inizia con il racconto di una rovina, e con l’improvviso desiderio di sanarla, di riportarla a vita. Cosa è davvero un orto? Un orto è uno spazio di critica, e molto spesso di disillusione. L’orto è espressione di una visione della vita, addirittura del suo intimo funzionamento, di un desiderio, di un’utopia. Anche per questo le regole che ne riguardano la coltivazione mostrano spesso un carattere contingente, relativo, poiché l’orto è il frutto tangibile di una costellazione interiore dove luci e fantasmi si giustappongono e intervengono. Osservare la forma di un giardino (termine che condivide una discendenza semantica con ‘orto’) è come osservare la vita interiore di chi lo ha edificato, di chi se ne prende cura. Anche quando, appunto, va in rovina, perché è nella distruzione che talvolta le tracce di vita si esaltano, gridano più forte. Così, a ogni inizio di primavera, mi affaccio su quanto resta del mio ricettacolo di terra, sul mio disastro, e provo il desiderio di insistere, di nuovo, di dare spazio a quei lampi di verde minuto che si ripresentano, come una memoria sepolta che vuole riemergere al sole e brillare. Anche io, come milioni in questa parte di mondo, torno a scrivere per altri mezzi, per altra tavolozza, la storia nostalgica e feroce della mia illusione. Dura circa sei mesi, il tempo che sul mio balcone il coriandolo vietnamita si spogli di nuovo, il gelsomino diventi quasi nero nelle sue foglie appuntite, e del frutto raccolto dalle fragole, dal limone, dai minuscoli pomodori, resti solo un’impronta nella torba e nei vasi.

Non è difficile immaginare che il motivo in questione – l’orto, il giardino, il suo ciclo, la sua funzione – abbia una storia editoriale, a vari livelli, a dir poco sterminata. Opera monumentale sarebbe catalogare anche solo quella relativa all’ultimo secolo. Da dove cominciare? Dai Flowers di Vita Sackville-West, oppure da The Dry Garden di Beth Chatto? Dal momento che non ho questa aspirazione, parto dall’ultimo volume in tema capitato sul mio tavolo: Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica di Barbara Bernardini, uscito da pochi giorni per le edizioni Nottetempo. Dopo poche pagine sono letteralmente inciampato, come negli orti spesso capita, in queste parole <<Io da qualche tempo […] quando vedo una crepa aperta, semino. Mi sembra il modo più concreto per rimanere ancorata a terra, per non farmi trascinare via dal crollo. Mettere radici, riallacciare legami, trovare aperture che siano di fuga, sì, ma immobile. Direi, appunto, che se ho davvero fortuna e quei semi germogliano, vederli spuntare mi riporta in me>>. Da questo primo varco ha preso il via un viaggio diverso, inatteso. Ho scoperto un delicatissimo diario di semina e raccolta, scandito da amorevole accoglienza verso ciò che nasce e da consapevoli arrivederci verso ciò che lascia. La frequentazione della vita per altri versi (la coltivazione è senza dubbio una di questi), attraverso il contatto diretto con il ciclo più puro di ascesa, caduta e di nuovo ascesa della materia vivente, è qualcosa che avvicina a una nozione diversa del morire. Il libro di Bernardini lo spiega bene, con la semplicità di un lunario, anzi vorrei dire che è intriso da questa sapienza. Qualcuno ha detto che la morte rafforza la vita. È un punto di vista vertiginoso, ma che pure si adegua – interamente – alla bellezza che insiste in un nuovo germoglio.

Mi viene da pensare che l’iconografia della Morte mostri spesso alcuni strumenti destinati alla coltivazione come attributi costanti. La vanga, il sarchiatore, la falce. Quest’ultima, poi, parrebbe rappresentare proprio una fusione tra i primi due. Allegoria della forza livellatrice, la falce è allo stesso tempo lama affilata capace di penetrare il terreno e di rovesciarlo, smuovendo la vita che ancora sonnecchia sotto forma di lombrichi, funghi, semi, materia sfibrata e ricca (L’Arcano senza nome dei Trionfi Marsigliesi ne è una puntuale rappresentazione). Le regole dell’agricoltura – anche nella breve estensione di un orto – sono la declinazione di questo ineffabile principio, e allo stesso tempo un adeguamento armonico allo scorrere di un ciclo immutabile. I cambiamenti repentini, gli atti violenti, il saccheggio e la ‘peste’ di Renzo, entità che rovesciano il disegno ordinato e la misura acquisita delle cose, sono sempre in agguato. Anche di questo ci parla Dall’orto al mondo. Oggi tali rivoluzioni mostrano il volto della crisi ambientale e climatica che rischia di mutare il corso stesso della vita, concentrandolo sempre più nel punto assoluto dell’estinzione globale.

Barbara Bernardini ci ricorda che la terra è lo spazio assoluto della verifica di sé. La sua prossimità, il ritorno a essa, ci insegnerebbe molte più cose sul nostro vissuto, trascorso e presente, di qualsiasi previsione di mercato o teorema sociale. Per questo l’orto è un punto di arrivo, non necessariamente un punto di partenza. Un progetto che parla la lingua del futuro benché nel giardino il tempo sia uno: quello presente, colto nel suo inarrestabile sviluppo. E in esso la speranza, il dolore e di nuovo la speranza ruotano, perseguendo un moto che ci appartiene e ci esclude, talvolta, nella stessa misura. Perché l’orto è il mondo.

 

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Autore

danilososcia@mininmaetmoralia.it

Danilo Soscia (1979) scrive per quotidiani, siti e riviste letterarie. Ha pubblicato Atlante delle meraviglie (2018) e Gli dei notturni (2020) entrambi per l'editore minimum fax.

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