È la ragione a rendere folli, non l’immaginazione, sostenne Gilbert Keith Chesterton che ammonì sul vero pericolo insito nella logica. Gli risponde idealmente Laura Pugno, che nell’interrogarsi sulla scrittura come luogo di conforto o forma di conoscenza rileva in quest’ultima anche un altro tipo di abbandono, “nel senso dell’affidamento di sé stessi a un qualcosa destinato a trasformarci, e di rapimento, di sottrazione a ciò che credevamo, che eravamo prima”.
Il solco tracciato dall’opera di Francesco Permunian sembra lambire tale confine, nel costante paradosso costruito nell’allestimento di una follia che si rivela sovente come una esasperazione del reale. Elegge il frammento come misura del tempo, necessario per aderire alla voce narrante. La natura anarchica della scrittura e del pensiero di Permunian si rivelano anzitutto nella poesia, intesa come linguaggio altro per tratteggiare al contempo un’umanità fatua e un personale e inestinguibile vuoto, la solitudine senza rimedio di chi vaga tra le macerie di una stagione perduta e non replicabile. Basterebbe tornare sulle pagine de Il principio della malinconia per riconoscere tra i latrati dei cani e i sospiri dei corpi che riemergono dalle paludi le origini di un delirio privato, le immagini di un quotidiano devastato, il trionfo del marcio e del putrido dove prima fiorivano i mandorli. L’intera produzione letteraria e poetica di Permunian rivela nell’amalgama di reperti del passato e ossessioni il continuo rimaneggiamento dei propri scritti per rimpastare la parola, estenuarla, e concepire a partire dal suo smembramento nuove immagini e storie.
In Giorni di collera e di annientamento il poeta di Cavarzere segue le rocambolesche vicende del dottor Lunfardo, un crooner alla Bing Crosby incappato nella scrittura e disgraziatamente insignito dello Strega, per tratteggiare scenari dominati da eccessi e perversioni brulicanti. Se la prima parte descrive il significato di una collera radicata attraverso le traversie professionali e sentimentali di un uomo fallito, è la parte centrale a evocare il ricordo agghiacciato di un’infanzia incistata in una tetra educazione famigliare che richiama la dimensione asfittica di Arlecchino notturno. L’ultima sezione definisce l’annientamento dell’umano nella condizione condivisa dall’emergenza pandemica, in un dolente elogio del margine.
Ancora una volta il Garda e le sue sponde pettegole accolgono disfatte e miserie, rivelano l’ambiguità del noto come spazio del conforto e dell’angustia. Da quelle acque riemergono ancora le immagini mostruose che accompagnarono i precoci deliri infantili e che continuano a ingarbugliare rimembranze e tormenti. Ogni cosa – il potere, la borghesia, una vana idea di salvezza – subisce una trasfigurazione farsesca perché investita da un conformismo infettato. Lo stato di contagio primario si rivela la solitudine: la sua matrice corporea è concepita come una condizione inesorabile. Permunian esplora il campionario umano attraverso svariate raffigurazioni del beffardo, del caricaturale, del ridicolo, all’interno di una personale visione del mondo soggetta a continui restauri. Si arrovella sul significato di un vuoto assoluto, esito della necessità dell’essere umano di soggiacere a un’illusione per sentirsi vivo. Che si tratti di giostrai ambulanti, imprenditori in rovina, ipocondriaci, prostitute nostalgiche del fascismo, dentisti col trapano a pedale e bambole meccaniche come assistenti alla poltrona o frivoli dandy di provincia, ogni personaggio di questo strambo universo popolare cela l’estraneità al presente, perché preda di manie e assilli.
Anche se immagino già la risposta, spesso mi domando e chiedo se esista un modo oppure un mezzo – lecito o illecito, ormai poco importa – per tenere a bada quel febbrile tramestio di santi, puttane e istrioni che si inseguono frenetici tra le pagine di questo zibaldone.
Sono le visioni, gli abbagli, le voci udite nel silenzio, le ripetizioni maniacali, l’indistinguibilità di vero e falso, a fornire una versione inafferrabile della realtà grazie al margine riservato all’immaginazione come ultimo approdo per dominare l’irrazionale. La tensione al dissacrante, ancor prima che una denuncia di stampo sociopolitico, rivela l’intento di usare la scrittura per fratturare l’assuefazione all’ordinario attraverso un assurdo e macabro gioco al contrasto. Permunian parte dal dato reale per renderlo ineffabile, raffinarlo nell’allucinazione, annullare il confine tra incubo e veglia, e accordarsi così al passo visionario di Witold Gombrowicz, Thomas Bernhard, Juan Rulfo, Bruno Schulz, Antonio Lobo Antunes, Eugène Ionesco, Emil Cioran, Tommaso Landolfi.
In Giorni di collera e di annientamento sono anzitutto i volti devastati a identificare il decadimento, riflettono il contraffatto che rincorre vanamente il mito della giovinezza eterna, traducono una trasfigurazione resa nel succedersi delle stagioni, acuita dall’inganno generato dalla memoria. Pagine infuocate, stonate, nevrotiche, dove l’ironia grottesca, riconosciuta anche nei travestimenti erotici, annuncia il predominio dell’artificio sul reale. Gli accenti di evasione non distraggono, tuttavia, dal racconto di una drammatica sospensione, nell’immersione finale in un presente segnato dall’alienazione e dalla percezione di pericolo perenne, tra uomini maturi che scelgono di vivere alle spalle dei genitori anziani, bottegai barricati in casa per paura del contagio, prostitute depresse per l’inattività e ridotte all’indigenza, sagrestani che approfittano del clima di paura collettiva per smerciare boccette di liquido scuro spacciandole per la rugiada di Sant’Andrea tanto amata da Torquato Tasso.
Una prosa dominata da un furore distruttivo che raggiunge sulla pagina un sottile equilibrio nelle intermittenze del comico e del patetico con un crescendo lirico raggiunto quando le vicende narrate cedono il passo all’io inquieto, incapace di dormire, preda delle morbose ossessioni notturne, “dentro l’orrida cavità del buio, quando l’aria incolore sembra popolarsi di fantasmi e di fuochi fatui”. Quella voce, che deve l’origine e l’ispirazione del proprio veleno agli affanni altrui, ricorda quanto sostenuto da Giorgio Manganelli a proposito della funzione della letteratura come estranea alla morale: nutrendosi delle innumerevoli espressioni del dolore, essa in tal modo finisce per alimentarle. Sedotta dal paradosso, la prosa di Permunian indugia sulle immagini icastiche del deterioramento fisico.
La costante ripetizione di elementi e motivi legati al degrado del corpo diventano al contempo metafora dello stato della letteratura italiana contemporanea, una materia purulenta che nessuno intende risanare, assediata da un’epidemia di “bulimia scribacchina”. In tale rovina, nella generale incapacità di cogliere la natura insulsa e vana della fama letteraria, si intuisce la sagoma del solitario – del disertore manganelliano insofferente e ostile – muoversi verso l’ignoto, nel luogo delle proprie allucinazioni oniriche, dove “tutto sa di amaro novembre e anche la primavera sembra a stento trattenere le lacrime”.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.
