di Fosca Navarra
“Salento”. Il primo mattone di un castello narrativo chiamato Vuoto, edificato dal bruciante talento di Ilaria Palomba, non si limita a dare il via, a rappresentare il principio; è esso stesso il principio. Iris comincia nella sua terra d’origine perché non ha mai reciso il legame con la campagna “brulla e sconfinata”, né con gli spettri e le presenze magiche della sua infanzia. In questi luoghi la protagonista continua a identificarsi: se in qualche modo lei riflette ancora i primi scenari del suo cammino esistenziale, anche il Salento è un ologramma della psiche della protagonista. In effetti, l’intero romanzo sviluppa i concetti di immagine e di riflesso.
Come in una galleria di specchi, l’Io si moltiplica –“ero molte vite, ciascuna delle quali intrappolata in una ripetizione” – oppure scorge sé stesso nell’altro: risultano emblematici i rapporti di Iris con Federico e con Giulio, alimentati ciascuno da un legame che potremmo definire siamese, così stretto da ridurre le parti della relazione a un intrico indissolubile. Nell’incontro e anche nello scontro violento, i personaggi con cui la protagonista entra in contratto finiscono col diventare facce di una stessa medaglia, rappresentazioni diverse di uno stesso dolore, di una stessa psiche fragile che guarda verso il precipizio.
…non riuscivi a leggere un libro era lo stesso che apriva Giulio ma era bianco come quelli dell’altra volta – vuoti e bianchi – questo vuoto che vedi riflesso in ogni cosa
Ma il vuoto che dà il titolo al romanzo, e che in questo sguardo verso l’abisso ritorna costantemente, ci appare in ogni caso pieno e denso, brulicante di ombre; è una presenza carnale come la prosa che ci guida in questo viaggio senza pretese di redenzione. Ci troviamo di fronte a una cartina geografica dell’animo, incisa sulla pelle di chi parla e di chi legge, tangibile come una cicatrice.
È interessante osservare come l’opera alterni le ferite rimarginate di una scrittura sorprendentemente compatta e definita, al di là delle frammentazioni che narra, a quelle aperte nei momenti in cui l’Io narrante si libera della punteggiatura. Questi momenti assumono maggiore intensità proprio perché, nel loro sgorgare sangue vivo, si stagliano nei resoconti ordinati del memoir.
“…e l’intimità non ha più niente a che vedere con l’amore o forse l’amore con il matrimonio o forse si è solo pieni di cicatrici…”
Vuoto è un blocco di marmo dalle venature ben visibili: pur accogliendo le crepe conserva la propria armonia, anzi, fa qualcosa di più; restituisce al lettore di altre pubblicazioni dell’autrice l’impressione di un disegno letterario complessivo. Come un fiore in un giardino, o ancora meglio come stelle di un firmamento, le opere di Ilaria Palomba vanno a creare un cosmo ampio, sconfinato.
“Il cosmo non è umano: non giudica. Non è animale: non divora. È lì, eterno. Per uscire dal dolore del mancato riconoscimento bisogna riconoscersi nel cosmo. Fuori dal presente, nell’eterno.
Ed è forse uno dei più grandi pregi della penna di questa autrice la capacità di superare i confini. Attraverso una voce che si avviluppa su di sé e insieme irretisce, in questa spirale di parole che è un inno all’impossibilità di fuggire, l’atmosfera di questo romanzo scavalca il libro stesso, perdura a pagine chiuse.
Vuoto è una notte insonne che prosegue anche all’alba del giorno dopo.
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