C’è stato un momento in cui le popstar hanno creduto di poter salvare il mondo, e questo è accaduto intorno al 1984. Lo credevano davvero: senza ironia. Hanno pensato: ci mettiamo tutti insieme e risolviamo la carestia in Etiopia.
Lo credevano genuinamente, qualcuno più di altri. A naso, un sentimento derivato da una somma matematica di circostanze culminate nella metà degli anni Ottanta, il decennio postmoderno per eccellenza. Vediamo. La quantità di denaro accumulata con i dischi, le vendite trilionarie, i numeri impressionanti. Il trionfo della pop music. Il gigantismo dei concerti, con gli scenari da adunata e le visioni onnipotenti; e quindi, la sensazione di essere divinità. L’idea di risolvere problemi immensi con tantissimi soldi. L’appannamento definitivo delle ideologie in voga negli anni Sessanta – Settanta, da sostituire con la buona volontà e la filantropia, in cambio di una consapevolezza diciamo così così.
A proposito di consapevolezza, c’è un momento in The Greatest Night in Pop, il documentario Netflix su genesi e incisione di We Are The World, che fa capire quanto quella della quarantina di artisti radunati agli studi A&M di Los Angeles fosse prevalentemente scarsina. Avviene quando loro, le popstar più giganti d’America, pronte a intonare la canzone scritta per loro dal duo Lionel Ritche & Michael Jackson, sotto la supervisione di Quincy Jones – lui, sì, un accidenti di dio – se ne stanno in silenzio al discorsetto introduttivo di Bob Geldof.
Bob è lì perché era stato lui a mettere in piedi in UK pochi mesi prima Band Aid, il progetto a cui si rifacevano adesso in America con Usa for Africa, e allora prende la parola e cerca di spiegare alla truppa con un discorso estremamente concreto qual è la situazione in Etiopia. E diversi di loro, consapevoli di essere lì perché c’erano da sconfiggere generici problemi di miseria e povertà in Africa, sembrano dei bambini stralunati all’omelia di un sacerdote.
In un altro momento del documentario dice Kenny Loggins, che era lì perché nel 1984 era uscita Footloose: non ero granché informato sulla situazione in Africa, «ma se mi chiama Michael».
Già, «se mi chiama Michael». Oppure, come dice Dionne Warwick, «se c’è Quincy». Tre quarti degli USA for Africa erano lì per Michael e Quincy, e forse anche per Lionel, che era all’apice della carriera. Mollati i Commodores, incisa All Night Long, Lionel avrebbe condotto la serata degli American Music Award a Los Angeles. Si decise che l’unica data utile per registrare il pezzo era proprio la serata degli Award. Finita la giostra delle premiazioni, tutti agli studi A&M per incidere. Lionel e Quincy hanno chiamato tutti: Michael (e i suoi fratelli), Stevie, Cindy, Kenny, Al Jarreau, Diana, Paul. E hanno avuto il sì di tutti; soltanto uno è in bilico, è Prince, e per convincerlo hanno assoldato Sheila E., la fichissima batterista che da tempo accompagna il genio di Minneapolis. Vedrete che verrà anche lui.
Non che tutti fossero lì soltanto per Michael o Quincy. L’idea originaria di rifare negli Stati Uniti quello che era stato fatto in UK era stata di Harry Belafonte, il leggendario artista e attivista per i diritti umani, il quale si era rivolto al manager Ken Kragen. Fu Kragen, che gestiva Lionel Ritchie e Kenny Rogers, a mettere in piedi il baraccone.
E poi c’erano Bruce Springsteen e Bob Dylan. «I pesci grossi», li chiama Quincy Jones. Springsteen, anche lui come tanti quella notte, era all’apice della carriera, in tour con Born in the U.S.A, è presente anche nelle interviste inedite per il documentario e da qui sembra spiegare di essere entrato nel progetto perché gli sembrava una cosa giusta da fare; né più, né meno. Dylan, be’, Dylan proprio non si capisce come sia capitato agli studi A&M quella notte.
Tornerò su Dylan più avanti. Intanto, è evidente che tenere a bada tutti quei galli nel pollaio sarà difficile. Il carisma di Quincy Jones – che ha fatto appendere sulla porta il cartello “Check your ego at the door” – è fondamentale, così come le doti da paciere esibite da un ecumenico Lionel Ritchie. Sopire, troncare. Sopire: quando Stevie Wonder, nel bel mezzo delle registrazioni per il coro, immagina di inserire alcuni versi in lingua swahili («ma in Etiopia nessuno parla swahili», gli dicono). Troncare: quando si tratta di eliminare dal ritornello una parte che faceva tipo «sha-lum sha-lin-gay», una cosa senza senso ma che a Michael Jackson doveva essere parsa esotica e quindi in qualche modo “africana”, tanto da inserirla nella versione originale.
A un certo punto la produzione fa arrivare pollo e waffle per tutti. Nel corso della notte si alternano momenti di relax, di gioia e di tensione. Prince fa sapere che ci sarebbe andato, forse, in studio, ma in una stanza separata a incidere un solo di chitarra. La produzione non si mostra interessata. Cindy Lauper ha talmente tanti bracciali e ninnoli alle collane che la registrazione è disturbata: se li toglie, uno a uno. Scopro per la prima volta che anche Kim Carnes è nella truppa USA for Africa.
Vedrai Ray che strimpella Wa are the World al piano, o Bruce Springsteen che sfumazza parlottando con Belafonte. Al Jarreau è ormai completamente ubriaco quando gli tocca di cantare la sua parte solista. Qualcuno fa una battuta sui Ghostbusters, grande successo dell’anno appena concluso: Dan Aykroyd, assoldato anche lui, se la ride ma avrebbe tanta voglia di andare a dormire. Della limousine di Prince ancora neanche l’ombra: Sheila E., capita l’antifona – è stata invitata perché speravano portasse Prince – se ne va, delusa e arrabbiata.
Quindi, Dylan, dicevamo. Ci sono diverse cose interessanti dentro The Greatest Night in Pop, e una di queste è seguire Dylan non appena entra in scena, seppure di sfuggita. Ha sempre la stessa faccia spaesata di chi si chiede dove diavolo sia finito, tra il perplesso e il completamente assente. Di certo gli Ottanta sono il decennio meno dylaniano che si possa immaginare. Forse la faccia di Bob quella notte è la faccia che ha tenuto per tutti gli anni Ottanta.
Del resto, sono anni che l’espressione di Dylan nel video di We Are The World è un meme. A un certo punto nel documentario, Bob si lascia sfuggire: «Sembra di essere in un sogno». O forse voleva dire un incubo. Ray Charles è nel coro sotto di lui, si dimena, si sbraccia e ride: lui è impassibile. Cindy Lauper strilla: lui guarda un punto misterioso nella stanza. C’è da intonare il ritornello: lo fa sottovoce; forse non ci arriva con la voce? È la tonalità che lo mette a disagio? Oppure è per lo stato di visibile ubriachezza di Al Jarreau? Si sta chiedendo anche lui quando arriverà Prince?
Infine arriva il momento in cui deve incidere la sua parte solista, quando ormai l’alba livida di gennaio è sorta sul Pacifico. Ed ecco Bob Dylan, il leggendario Bob, con le cuffie sul capo, che balbetta i versi «There’s a choice we’re making / We’re saving our own lives / It’s true we’ll make a better day, just you and me». Non riesce proprio a cantarli. Li sussurra, li sibila, sovrastato dalla base. Forse pensa a quanto sono brutti. Quincy Jones subodora l’aria di frittata e si scapicolla a rassicurarlo (che pazienza, quest’uomo; e del resto tra le virtù divine vi è senz’altro la pazienza). E poi la scena più bella del documentario: sono le sette del mattino e Dylan chiede a Stevie Wonder di suonargli al piano la sua parte, e Stevie lo fa, imitandolo per giunta, e Dylan ride, si scioglie, e può finalmente incidere quei versi di merda.
Una volta uscita, il 7 marzo 1985, programmata simultaneamente da migliaia di stazioni in tutto il mondo, We Are The World ebbe il successo che si sapeva avrebbe avuto. Qualcuno, nella fattispecie il critico rock Greil Marcus, accusò Lionel Ritchie e Michael Jackson di aver modellato il ritornello della canzone sul jingle della Pepsi; la stessa Pepsi che impegnata nell’eterna battaglia contro la Coca Cola aveva arruolato da tempo proprio Michael e Lionel.
Nel tempo, ad ogni modo, We Are The World è diventata un classico. Una sorta di inno alle buone intenzioni, goffe e disordinate, di un Occidente in preda a occasionali sensi di colpa. E anche se non avrà risolto “i problemi dell’Africa”, è difficile immaginare che il Piano Mattei farà meglio.
Liborio Conca è nato in provincia di Bari nell’agosto del 1983. Vive a Roma. Collabora con diverse riviste; ha curato per anni la rubrica Re: Books per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2018 è uscito il suo primo libro, Rock Lit. Redattore di minima&moralia.
