
Nuovo appuntamento con la rubrica a cura di Anna Toscano. Dieci domande a poetesse e a poeti per cercare di conoscere i loro primi avvicinamenti alla poesia, per conoscere i loro albori nella poesia, quali siano stati i primi versi e i primi autori che li hanno colpiti, in quale occasione e per quali vie, e quali i primi che hanno scritto. Le altre puntate sono qui. foto copertina © Anna Toscano
Qual è la poesia che hai incontrato, e quando, che ti ha fatto pensare, per la prima volta, che fosse qualcosa di fondamentale?
Direi “L’infinito” di Leopardi, studiato per la prima volta alle scuole medie e portato all’esame di terza. Il nitore del linguaggio di un testo compatto e ritmicamente perfetto per dire il potere dell’immaginazione, lo stupore per la capacità di evocazione di una dimensione di mistero a partire dal qui ed ora di un suono (quello delle fronde attraversate dal vento) e una suggestione visiva (quella della siepe che preclude l’orizzonte). Un piccolo uomo al cospetto della vastità del tempo e dello spazio in cui naufragare dolcemente, arrendendosi a una suggestione spirituale che non è propriamente una trascendenza religiosa ma somiglia piuttosto all’estinzione in un Nirvana buddista, senza dolore e con un altissimo grado di consapevolezza filosofico-esistenziale.
Qual è il primo autore o autrice che ti è rimasto/a in mente come poeta?
Facendo mente locale agli anni dell’infanzia, il primo che mi viene in mente è Carducci per la sua S. Martino, che ancora so a memoria. Ricordo bene la maestra che ce la spiegava, termini come “irti” o “esuli” erano per quell’età piuttosto ostici, ma ne colsi immediatamente la musicalità, il ritmo e la misura, e intuitivamente gli strumenti retorici (sinestesia, anastrofe, similitudine), oltre a “vedere” subito il contesto descritto a me così familiare, quello dei borghi collinari della Toscana da cui proviene parte della mia famiglia. Pittoricamente efficacissimo nel rendere il contrasto fra l’esterno umido e freddo e il calore dell’interno (della casa e del borgo), cui fa da cerniera la figura del cacciatore “sull’uscio”, col pensiero che s’invola malinconicamente al seguito degli uccelli che si perdono nel tramonto.
C’è stata una persona o un evento nella tua infanzia, o giovinezza, che ti ha avvicinato alla poesia? Chi era? Come è accaduto?
Per un breve periodo c’è stata un’amicizia, all’incirca all’epoca dei primi due anni di scuola media, con un ragazzino che abitava nella casa dietro la nostra, a Nervi, il quartiere del levante genovese dove sono cresciuta. Era un ragazzino prodigio, molto dotato in matematica ma cresciuto in un milieu familiare colto (sua mamma era la giornalista e scrittrice per ragazzi Angela Dossena) e stimolante, quindi curioso e aggiornato in ogni campo, dall’arte al cinema al teatro alla letteratura. Si chiamava Antonio Galli, “il bambino dal cuore elettrico” perché aveva un pace maker. Fu lui a regalarmi, in prima media dopo un’operazione di appendicite, il mio primo libro personale di poesie, Cinque lire di stelle, una raccoltina di Federico Garcia Lorca edita da Bompiani. Morì due anni dopo per arresto cardiaco; è sepolto nel cimitero di S. Ilario nella tomba di famiglia disegnata da Carlo Scarpa. Ha lasciato un notevolissimo diario dei suoi ultimi due anni di vita, I diari di Antonio, uscito a Genova da Pirella editore, che sarebbe molto bello ripubblicare.
Fondamentale è stata poi mia mamma, i libri dei grandi autori italiani del ‘900 (Montale in primis) comprati da lei erano nella libreria di casa. Negli anni universitari veneziani devo all’amicizia con Tiziano Scarpa, conosciuto da transfuga di lingue e letterature orientali ai corsi di Alfonso Berardinelli, la scoperta dei contemporanei: fu lui a regalarmi Millimetri di Milo De Angelis e Ora serrata retinae di Valerio Magrelli.
Quali sono i primi libri di poesia che hai cercato in una biblioteca o in una libreria?
Al liceo mi ero appassionata della poesia francese, soprattutto il simbolismo, quindi avevo cercato ed acquistato in libreria Rimbaud, Verlaine, Mallarmé. Più tardi mi sono avvicinata alla complessità di Valéry. Ma ero comunque molto onnivora e discontinua nelle letture, avevo anche un debole per il vitalismo di certa poesia anglosassone, mi ero comprata Dylan Thomas…
Il primo verso, o la prima poesia, che hai scritto e che hai riconosciuto come tale: quando è stato e in quale circostanza?
Giovanissima adolescente, fui presa da uno spleen di fronte alla magnificenza di un tramonto sul mare, visto dall’affaccio di quella che è stata la finestra della mia camera di bambina e ragazza, nella grande casa che allora abitavamo, in collina a Nervi. Dal balcone di camera mia la vista spaziava dal promontorio di Portofino a levante fino a tutto il Golfo di Genova a ponente; in mezzo, l’ampia distesa del mare. Tradussi l’emozione del momento, legata al paesaggio e allo stato d’animo che comunicava, in versi, inaugurando un quaderno che mia mamma ha conservato per anni, e oggi è andato, credo, perso. Ricordo l’urgenza che mi prese, e, dopo, la soddisfazione di aver fermato e reso su carta il sentimento provato, una sorta di richiamo, di anelito, di nostalgia profonda per qualcosa di indefinibile, eppure tangibile e vivo. Solo molti anni dopo, mi resi conto di aver scritto una strofa eptastica di ottonari a rime alternate.
Quando poi i versi sono arrivati copiosi, quali sono stati i tuoi pensieri?
Verso la fine degli anni Novanta ero la giovane madre di due bambini piccoli, e lavoravo come redattore e junior editor all’Einaudi. Facevo la pendolare fra Milano, dove abitavo con marito e figli, e Torino dove lavoravo. Nonostante fosse difficilissimo trovare il tempo per la scrittura, non riuscendo più ad eluderne l’urgenza cominciai a mettere insieme un corpus che sarebbe diventato la mia prima raccolta, Il sistema limbico. Di quel periodo ricordo il dissidio interiore che vivevo, divisa fra la quantità degli impellenti doveri quotidiani e quel fanalino di coda che era la scrittura, un lusso che non solo facevo fatica a permettermi ma che ancora non mi ero legittimata, praticandolo di nascosto nel timore di confrontarmi e uscire allo scoperto. Ma qualcosa premeva sempre più insistentemente per venire fuori, una necessità primaria e istintiva (da cui il titolo del libro) che aveva a che fare con una ragion d’essere. Per legittimarmi questa componente ineludibile della mia identità mi ci sono voluti due anni di analisi junghiana con una formidabile terapeuta nei primi anni duemila, mentre il tempo per scrivere sarebbe arrivato solo a seguito dell’incidente che mi ha cambiato la vita nel 2005.
Quando hai avuto tra le mani le tue prime poesie pubblicate, cosa è accaduto?
Mi sono sentita nuda, esposta. È una sensazione che col tempo si è stemperata ma dura tuttora, soprattutto quando leggo in pubblico.
La mia prima pubblicazione è stata oltretutto una piccola silloge che sarebbe in seguito diventata la prima sezione di Unità di risveglio, un mannello di quartine intitolato Sintomi in cui si manifesta (peraltro misteriosamente e inspiegabilmente) una premonizione, quella relativa a quanto mi sarei trovata a vivere dopo l’incidente del 2005. Un corpo precipitato nell’ingovernabilità, una slogatura dell’anima, una mente opacizzata dal trauma. Sarò sempre grata ad Atelier e all’amico Marco Merlin che la dirigeva allora per aver accolto i miei versi.
La poesia per te è più di una fede o quasi una fede?
Non ho mai pensato alla poesia in questi termini, a dire il vero.
Sarei più con Milo De Angelis, per me la poesia è una chiamata, un destino. Una vocazione e un talento. Un modo di essere. Un modo di stare al mondo. Un modo di partecipare del mondo, che poi è quello di creare una visione personale e condividerla con tutti, sincronicamente e diacronicamente. La poesia è un’esperienza del mondo che nasce per osmosi con la vita.
Diverso dal termine fede, che mi sembra implichi una sorta di cieco affidamento, in un’accezione assolutistica che non mi corrisponde.
La poesia inizia?
La poesia nasce con l’uomo come canto, shir in ebraico, con valore di preghiera e celebrazione della bellezza. Da un punto di vista individuale, di chi la poesia la scrive, credo che sia in qualche modo una disposizione innata, che rimane latente finché qualcosa o qualcuno non la innesca. E qui mi riferisco alla poesia propriamente intesa, quella che ha a che fare col linguaggio, una particolare disciplina del linguaggio. Ma come dice Christian Bobin si può fare poesia in molti modi, fondamentalmente la poesia è una forma di adesione alla vita che si esprime mettendo a frutto le proprie competenze: anche il panettiere che fa un buon pane è in un certo senso un poeta.
La poesia finisce?
Penso che ci sarà sempre posto per la poesia, nel mondo, perché è un bene necessario. Dà voce e forma (cioè consistenza) ai sentimenti e alle emozioni di tutti.
Se poi possa finire per il poeta, e mi riferisco alle sempre possibili crisi di ispirazione, la sindrome della pagina bianca, è una possibilità concreta, ma credo temporanea.
Personalmente ho avuto molta paura che non ritornasse dopo l’incidente e relativo coma avuti nel 2005: dopo il risveglio, ero una tabula rasa per quanto riguardava quasi tutte le mie competenze, quelle innate e quelle acquisite. Poi, prima che fossi in grado di tenere la penna in mano, è miracolosamente tornata, versi arrivati come sotto dettatura da una regione misteriosa del cosmo, o di me stessa.
Anna Toscano vive a Venezia, insegna presso l’Università Ca’ Foscari e collabora con altre università. Un’ampia parte del suo lavoro è dedicato allo studio di autrici donne, da cui nascono articoli, libri, incontri, spettacoli, corsi, conferenze, curatele, tra cui Il calendario non mi segue. Goliarda Sapienza e Con amore e con amicizia, Lisetta Carmi, Electa 2023 e le antologie Chiamami col mio nome. Antologia poetica di donne vol. I e vol. II. Molto l’impegno per la sua città, sia partecipando a trasmissioni radio e tv, sia attraverso la scrittura e la fotografia, ultimi: 111 luoghi di Venezia che devi proprio scoprire, con G. Montieri, 2023 e in The Passenger Venezia, 2023. Fa parte del direttivo della Società Italiana delle Letterate e del direttivo scientifico di Balthazar Journal; molte collaborazioni con testate e riviste, tra le altre minima&moralia, Doppiozero, Leggendaria, Artribune, Il Sole24 Ore. La sua sesta e ultima raccolta di poesie è Al buffet con la morte, 2018; liriche, racconti e saggi sono rintracciabili in riviste e antologie. Suoi scatti fotografici sono apparsi in guide, giornali, manifesti, copertine di libri, mostre personali e collettive. Varie le esperienze radiofoniche e teatrali.