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Nuovo appuntamento per la rubrica a cura di Anna Toscano. Dieci domande a poetesse e a poeti per cercare di conoscere i loro primi avvicinamenti alla poesia, per conoscere i loro albori nella poesia, quali siano stati i primi versi e i primi autori che li hanno colpiti, in quale occasione e per quali vie, e quali i primi che hanno scritto. Le altre puntate sono qui.

Qual è la poesia che hai incontrato, e quando, che ti ha fatto pensare, per la prima volta, che fosse qualcosa di fondamentale?

Il mio cammino verso la poesia è stato lento ma come fatale: ho cominciato a percepirne la bellezza e la vitalità nei testi che leggevamo a scuola, quando la scuola ancora promuoveva la poesia. Eravamo alle medie, e la lettura dei testi omerici, di liriche meravigliose come i sonetti foscoliani o di lunghi passi della Commedia dantesca, accendeva il nostro amore per la parola poetica. Ma è stato solo nell’estate in cui passammo dalle medie al ginnasio che ne colsi, impetuosamente, la necessità. Il momento decisivo fu la lettura dell’Antigone di Sofocle, nella traduzione, austera e classicistica, di Eugenio della Valle, che avevo scovato su una bancarella di mercato: ma il testo era così straordinario, da supplire all’obsolescenza della lingua. Mi colpiva la forza poderosa del dibattito, l’insanabile antinomia tra i pensieri di Antigone e di Creonte, la tensione emotiva e concettuale con cui il poeta sapeva aderire alle loro scelte. E, sullo sfondo, il grande tema della colpa, il conflitto fra le ragioni invocate dagli uomini e il mistero che avvolge le azioni divine. Ancora oggi, sento che questa è la funzione della grande poesia, la stessa che riconosco leggendo le grandi ballate del Cavalcanti, la Bufera di Montale o i Quattro quartetti di Eliot: spalancare dibattiti, far sentire il peso del mistero che è nelle cose, la complessità di ciò che chiamiamo vita. Poi, certo, c’è anche una poesia più addomesticata, cantabile, che ha i suoi pregi: ma se non ci fossero i tragici greci, Virgilio, Dante, l’esperienza vertiginosa della grande lirica provenzale e stilnovista, l’empito dissacratorio e ribelle di Villon o di Rimbaud, la poesia perderebbe il suo significato più profondo.

Qual è il primo autore o autrice che ti è rimasto/a in mente come poeta?

Sempre al ginnasio mi capitò di leggere, più o meno negli stessi giorni, il Canzoniere del Petrarca e le Fleurs du mal di Baudelaire. Due libri, come ho già avuto modo di scrivere, che hanno molto in comune, a cominciare dalla rigorosa architettura che li impronta, e che conferisce a ogni singola poesia un’urgenza nuova, animandola per via di corrispondenze più o meno esplicite, a volte segrete, misteriose, appena intuibili. Nel Canzoniere petrarchesco sentivo l’inquietudine di un’anima che sembrava ogni volta sbordare dallo spazio metrico e concettuale di un sonetto o di una canzone, che pure era così necessario. Nelle Fleurs, mi colpiva la capacità di entrare nei meandri della sofferenza psichica con la stessa chiaroveggenza di un tragico greco: non è di Baudelaire che si sta parlando, in quei versi così feriti, così lanciati verso la rovina, ma dell’uomo e del suo destino. Entrambi mi insegnavano il rigore e la necessità della forma, la precisione di ogni vocabolo, che deve rifuggire da ogni vaghezza, anche se la vaghezza – come nel caso del Petrarca – fa parte della poetica dell’autore. Intuivo, leggendo quelle pagine memorabili, come la questione della poesia, al di là dei contenuti, stesse nella disciplina della parola e del verso cui il poeta si costringe, e nel respiro della visione che li detta. Se l’anima dei tempi moderni è la sciatteria, la facilità, il pressappochismo, il fastidio verso ciò che implica un’altezza di pensiero, l’anima della poesia sta tutta nell’esattezza e nella proprietà della sua lingua, nella grandezza tragica della sua visione, nel connubio – ferreo, intransigente – fra ispirazione e filologia, necessità e disciplina.

C’è stata una persona o un evento nella tua infanzia, o giovinezza, che ti ha avvicinato alla poesia? Chi era? Come è accaduto?

Fino ai dieci anni ero stato un lettore modesto e annoiato. In prima media, la mia insegnante di Lettere iniziò a leggere, senza troppi preamboli, l’Odissea di Omero, utilizzando volta per volta traduzioni diverse. Fui subito rapito da quel racconto, e dai ritmi così diversi – ora dolci, ora solenni – che lo sostenevano. A casa, scopersi una vecchia edizione del poema tradotto dal Pindemonte, e cominciai a leggermela in segreto: la Telemachia mi parve un racconto dettato come in sogno. Gli episodi femminili dell’Odissea mi facevano fantasticare, così come i luoghi dove si svolgevano: Ogigia, Eea, Scheria. Così come quel modo naturale con il quale le dee si mescolavano agli uomini. Ogni giorno, in classe, aspettavo con ardore le ore di epica. Più passavano i giorni, più mi pareva di entrare nella dimensione del poetico. Devo a quella voce la mia iniziazione alla grande letteratura.

Quali sono i primi libri di poesia che hai cercato in una biblioteca o in una libreria?

I primi libri che ho letto mi erano caduti per le mani quasi per caso. Gli scaffali dei miei genitori erano assai sforniti, e la provincia dove vivevo non possedeva librerie. Compravo quel che trovavo, su bancarelle fortuite e saltuarie. Al ginnasio mi trovai a ricopiare a mano, su dei quadernetti scolastici, l’Agricola di Tacito e i Ricordi di Marco Aurelio, scovati in improbabili traduzioni nella piccola biblioteca comunale del paese dove vivevo: la prosa degli storiografi e dei moralisti antichi ha spesso la forza della poesia, e come tale continuo a sentirla. Fu verso i quindici anni che scopersi le prime librerie di città, dove cominciai a recarmi in treno, ma anche in bici. Ricordo i miei primi acquisti poetici, appena a ridosso del Petrarca e delle Fleurs baudelairiane: Villon curato da De Nardis, Rimbaud curato da Margoni, Mallarmé curato dalla Frezza, Eliot curato da Sanesi, L’Allegria di Ungaretti. Ma ai contemporanei arrivai tardi, ed ero già in terza liceo, quando lessi nel giro di poche settimane – era la primavera del 1971 – Satura di Montale, Su fondamenti invisibili di Luzi e Viaggio d’inverno di Bertolucci.

Il primo verso, o la prima poesia, che hai scritto e che hai riconosciuto come tale: quando è stato e in quale circostanza?

Ho esordito presto in riviste e antologie, partecipando anche a piccole imprese, come «Niebo», sul quale uscirono (era il 1977) le mie prime cose. Ma non ci volle molto per rendermi conto che quelle poesie, scritte negli anni Settanta, non mi appartenevano: appartenevano a quell’epoca, alla mia generazione, non a me. Non ne ero soddisfatto: le rifiutai tutte. Gli anni Ottanta furono anni di silenzio: non sapevo neanche se avrei mai ricominciato a scrivere. Il mio primo libro, Con parole remote, comparve solo nel 1998. Non dò mai giudizi di valore sul mio lavoro: ma quelle furono le prime poesie che sentii necessarie e fondate. C’è una sequenza, tra le più antiche del libro, di cui ho un ricordo folgorante e felice: «Vi chiedo, spiriti del luogo, / di serbare segreto ogni nome. / Non c’è, vi dico, / luce più lunga del giorno / che si consuma semplice / nella sua ara chiara, / in un rogo devoto». Ero seduto a un tavolo della Sormani, e quando riscoprii questi versi, che avevo composto diversi mesi prima in margine a un’edizione della poesia elegiaca latina, sentii che quella era la poesia che volevo. Come ci fossi arrivato, è un’altra storia, che avrebbe bisogno di tempo per essere raccontata.

Quando poi i versi sono arrivati copiosi, quali sono stati i tuoi pensieri?

I miei versi non sono mai stati copiosi, parola che non posso pronunciare – se riferita a me – senza una certa dose di ironia. Forse perché non li ho mai cercati. Credo di non essermi mai seduto a un tavolo con l’idea di scrivere una poesia. Del secondo libro, Bosco del tempo, mi colpiva però la facilità con cui le poesie nascevano, sostanzialmente già compiute. È stata un’esperienza pressoché unica: Con parole remote è nato come in uno stato di sospensione onirica, in cui non sapevi chi era a dettare, e chi a trascrivere; Il moto delle cose, poi, è stato un libro sofferto e tormentato; e ancor più lo è quello cui mi sto dedicando da qualche tempo. La mia sensazione, ad ogni raccolta che giunge al suo compimento, è quella dello stupore: non avrei mai immaginato di farcela. Non perché non confidi nelle mie forze, ma perché la poesia alla quale aspiro non dipende solo da me, ma si forma – quando si forma – lungo traiettorie in cui molto si deve alla casualità degli eventi: un incontro, uno sguardo, una lettura, un pensiero che poteva non nascere, e ci illumina all’improvviso, la luce di un pomeriggio, lo scroscio di una pioggia inattesa, lo spumeggiare dell’onda su una battigia, insomma l’intero ventaglio di quegli accadimenti che chiamiamo vita. Poteva non succedere: e invece è successo.

Quando hai avuto tra le mani le tue prime poesie pubblicate, cosa è accaduto?

Fino all’altezza di Con parole remote, ero preso – leggendomi – da un sentimento di dispersione, come se quel che vedevo davanti a me non avesse un centro, un fuoco di cui alimentarsi. Potevano anche essere, se prese singolarmente, delle buone poesie: ma non ne sentivo la necessità, e cioè una ragione più potente del mio semplice bisogno di scrivere. La poesia non è uno sfogo, un’emozione a buon mercato, ma un esercizio di complessità, che va ben oltre il dato biografico e personale. Il Canto di evocazione e il dittico degli Auguria su cui il libro si apriva, letti in bozze, mi emozionarono e anche mi inorgoglirono: dentro quei versi non c’ero solo io, c’era una vicenda lunga e tormentata, contraddittoria e gloriosa, che veniva dagli antichi carmina latini, dalle origini del poetico.

La poesia per te è più di una fede o quasi una fede?

più, né quasi. In generale provo una grande diffidenza per la parola «fede», quando venga utilizzata al di fuori del contesto religioso. E tanto più in un’epoca dominata da fenomeni di irrazionalismo e da una sensibilità apocalittica com’è quella che abbiamo vissuto nell’ultimo secolo. Era una fede il nazismo. Era una fede il comunismo. E ne patiamo ancora oggi le conseguenze. E peggio di una fede sono le derive populiste e peroniste degli ultimi anni, cui dobbiamo, fra le altre cose, l’insofferenza verso ogni forma di cultura alta e la conseguente abolizione tra prodotti di consumo e prodotti culturali. Il poeta è un ascoltatore del mondo, quasi un umile scriba che va intrecciando i frammenti del suo sentire con la disciplina di uno stile e il rigore di un pensiero strutturato. Agisce in lui una forza che lo trascende, ma che deve assumere una forma, essere modellata, proprio come un vasaio imprime una forma alla materia – sorda, inerte – che si trova per le mani.

La poesia inizia?

Esiste un’età della poesia, in cui tutto rigorosamente ha inizio, e non può essere né prima né dopo. Questa età è quella dell’adolescenza, quando all’improvviso, in te, come fuori di te, senti che due visioni del mondo si urtano, confliggono, e non possono trovare conciliazione. In quell’istante comprendi ciò che è poesia: uno spazio in cui le forze nuove – brutali e inconfutabili – del pensiero si conficcano dentro le potenze immaginative dell’infanzia, generando una parola in cui la dimensione fantastica e quella argomentativa si saldano in un’unica visione.

La poesia finisce?

Finisce, immagino, quando non ne senti più l’urgenza, la necessità profonda, che è data dal confluire di uno scatto immaginativo – solitario e inappellabile – in una grande storia di forme e di pensieri che ci precede. La fine, d’altronde, è nell’ordine delle cose, e non risparmia nessuno: eadem sunt omnia semper.

 

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a.toscano@minima.it

Anna Toscano vive a Venezia, insegna presso l’Università Ca’ Foscari e collabora con altre università. Un’ampia parte del suo lavoro è dedicato allo studio di autrici donne, da cui nascono articoli, libri, incontri, spettacoli, corsi, conferenze, curatele, tra cui Il calendario non mi segue. Goliarda Sapienza e Con amore e con amicizia, Lisetta Carmi, Electa 2023 e le antologie Chiamami col mio nome. Antologia poetica di donne vol. I e vol. II. Molto l’impegno per la sua città, sia partecipando a trasmissioni radio e tv, sia attraverso la scrittura e la fotografia, ultimi: 111 luoghi di Venezia che devi proprio scoprire, con G. Montieri, 2023 e in The Passenger Venezia, 2023. Fa parte del direttivo della Società Italiana delle Letterate e del direttivo scientifico di Balthazar Journal; molte collaborazioni con testate e riviste, tra le altre minima&moralia, Doppiozero, Leggendaria, Artribune, Il Sole24 Ore. La sua sesta e ultima raccolta di poesie è Al buffet con la morte, 2018; liriche, racconti e saggi sono rintracciabili in riviste e antologie. Suoi scatti fotografici sono apparsi in guide, giornali, manifesti, copertine di libri, mostre personali e collettive. Varie le esperienze radiofoniche e teatrali. www.annatoscano.eu

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