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Le domeniche pomeriggio si assomigliano dappertutto, non importa quanto si sia lontani da casa o cosa si faccia. Neppure a cambiare paese e costumi, forse. Un’eco tenue e persistente d’angoscia infruttuosa. Fuori dalla finestra al primo piano della pensione lui guarda gli alberi appena oltre la discesa a gradoni irregolari dove gli avevano detto che prima si trovavano due sambuchi e un’amaca che però erano venuti giù durante l’alluvione del novembre passato. Su castagni non diversi da quelli Edgar di Bath aveva fatto impiccare trenta e più razziatori del mare, Danesi su cui i suoi conti e baroni avevano messo le mani. Lui si annoda il plastron marrone a strisce bianche. La stoffa ha una estensione di centosettanta centimetri, fascia i segni giallastri sotto il mento e due graffi come di unghie o rasoio.

I gesti parevano spiegare e ripiegare anche il cuore, un panno a strati e grinze sul velluto, si accompagnavano al respiro che si allungava o accorciava coi movimenti. Il colletto è piccolo e rigido, si serra un poco. Indossa la giacca chiara e il cappello di paglia. Nello specchio piccolo al muro gli occhi grigi colgono un riflesso bluastro. L’ombrello col manico di bambù gli faceva anche da bastone. Esce di camera. Scende le scale di pietra. Ha gli occhi un po’ arrossati per la veglia senza lingua, e il dolore. Al pianterreno la moglie del padrone, magra, sempre un poco scarmigliata, gli ricorda che i suoi amici sono partiti senza pagare. Tornano presto. Non si premura di specificare che sono colleghi. Qui si lavora poco, ripete lei per l’ennesima volta. Questi mesi qua e basta, si lavora poco. Lui annuisce. Buon pomeriggio, gli dice lei come sempre, uno strascico di tensione nella voce. Buon pomeriggio, risponde lui, ed esce a camminare nell’estate del 1875 con le sue foglie che già cadono.

Cledmontison è piuttosto orribile, aveva scritto prima di cena alla sorella. Già a fine agosto i temporali dopo pranzo erano pressoché una costante, rovesciandosi sulla costa dai bassi rilievi alle spalle, nuvoloni neri striati di verde a mezzogiorno, e poi la pioggia alle due che obbligava a rientrare e velava tutto senza aggiungere niente o poco. Le strade sconnesse, le carrozze a disposizione poche e costose. Tutto andava negoziato con saliscendi di prezzi che lui non riusciva a gestire, si attestava alla prima richiesta e basta, che lo imbrogliassero pure. In camera la caffettiera funziona a sgoccioli. La prima nobile verità è che aveva ventiquattro anni, che era già abbastanza in un tempo che chiedeva agli uomini di invecchiare presto, coltivava pensieri diversi, aveva i baffi già un po’ grigi, viso lungo e occhi pesanti, labbra piene sul mento affusolato. Spalle larghe per il canottaggio più o meno obbligatorio al college sul torace magro, il cui ventre pallido nonostante tutto si gonfiava sempre quando sedeva a bordo letto per spogliarsi o allacciarsi le scarpe. Scosta spesso gli occhi, come abbagliati. Forse è possibile soffermarsi un attimo su quest’ultimo aggettivo, che comprende in sé la pressione insostenibile sulla retina e la strada comunque sbagliata, la deviazione intrapresa per motivi eccelsi o infimi, poco importa, da cui per forza ricredersi, abolire e consumare in tutta fretta. Chi non ha testa abbia gambe. Come se la fuga da qualsivoglia eccesso sia comunque un errore, da pagarsi alla fine di un interludio altrettanto insopportabile di giorni e notti. Comunque.

La sorella lo prendeva in giro, gli ricordava che in quelle stesse settimane a Yourmoth c’era sempre il sole, e che i bambini s’erano belli che abbronzati tutti senza eccezione o mezzo raffreddore. Gli mandava i loro disegni. Case dai tetti triangolari, alberi dritti come lampioni sormontati da una nuvola per chioma, soldati della Guardia probabilmente ricopiati da un libro, visi di profilo coi lunghi nasi comunque porcini. In un caso una testa che pareva di donna o giovane, sempre di profilo, i capelli ricci e il viso più delicato, sormontava un lungo corpo oblungo come un’aringa, sebbene disseminato di bottoni rotondi, chiuso sul fondo da una linea più o meno orizzontale, che non avrebbe del tutto sfigurato in un qualche frontespizio del Libro di Kells o magari a stiracchiarla un po’ su una coppa d’argento stile Jelling, ma questo forse ce lo vedeva solo lui sebbene non dubitasse che lei glielo avesse mandato apposta. Al che lui ringraziava e rispondeva che lassù Deningham aveva già messo zampe ed etichette su tutto, che a lui un paio di manoscritti in più e qualche paravento e ostensorio dei tempi d’Alfredo non importavano, che erano comunque troppo avanti, e che invece lì a giugno erano venute fuori alcune monete che risalivano a Swæfheard e Wihtred, persino prima rispetto a quanto gli interessasse davvero. Un bollitore in bronzo, probabilmente renano.

Il sito lasciava sperare bene, un centro commerciale di medie dimensioni. Tombe di mercanti e piccoli proprietari, una vedova o divorziata più ricca degli altri. Poche cose, per il momento, collane, bracciali, coppe e monete appunto, ma quel vuoto restava promettente, niente affatto ottuso e fin troppo eccitabile per lui, soprattutto perché il parroco, piccolo, grigio e con due occhi dolci, infantili, condivideva i suoi entusiasmi – aveva pure sottoposto un paio di recensioni su Lexicon, mai accettate ma si sa come va – e gli aveva mostrato una lancia conservata nel piccolo archivio della canonica e che aveva tutta l’aria di aver fatto la sua parte a Tettenhall. Vai un po’ a capire come fosse finita laggiù, ma non sarebbe stata la prima volta che armi e spoglie avessero fatto tutta quella strada per poi riposare col padrone altrettanto scheggiato e smussato. Certo è che poteva trattarsi di tutto, doni, furti e spoliazioni s’intrecciavano in un reticolato di combinazioni impossibili da districare, fitto a imitazione d’una superfice levigata, un motore immoto e pressoché impossibile a scomporre, come le pareti gibbose della casa dei nonni giù a Dawlish, tutte bernoccoli e rientranze che però, a guardarle fissamente senza sbattere le palpebre nei pomeriggi afosi si facevano d’un bianco uniforme.

Probabilmente è la metafora sbagliata, aggiungeva. Altri avrebbero parlato di alberi e rami e sentieri nel bosco. Cercava di non farsi troppe speranze, le scriveva, mantenere un atteggiamento equanime come raccomandava sempre Kerr a lezione, ma difficile non spingersi avanti e riempire il futuro con quello che non si è ancora visto eppure già ricordato, scoperte altrove e altrui che ne fanno immaginare altre ancora, mai viste eppure già note a modo loro. Ci avevano lavorato in pochi, il che era bene e male. Adesso per almeno tre settimane restava solo lui, perché Engelmann era rientrato a Bonn per gli esami, e Lyttey aveva l’ordinazione del fratello e poi la tesi. Lo sai che sono bigamo, gli aveva detto alle panche esterne del pub la sera prima di partire, con le orecchie rosse per l’umido. Trigamo, l’aveva corretto Engelmann. Quei tuoi arcieriucci uraloaltaici coi lor saltelli e l’Amu-daria e compagnia cantante son solo l’amante di cui ti ricordi con qualche mazzo di fiori senza che ti costi nulla. Sono anni che cerchi di tenere sotto il tappeto l’astronomia, ma è lì che ti brillano gli occhi, poco ma sicuro. Duabus sedere sedis. Le stelle mi accontento di guardarle da lì. Littey aveva abbandonato Liegi per stare più vicino alla madre vedova. Potior est qui prior est. Engelmann aveva i capelli biondi che all’aria aperta si schiarivano quasi subito sul viso a chiazze sanguigne, sbarbato, e pure al buio parevano conservare un alone di quanto assorbito nel giorno. Con la birra si faceva rosso subito e quelli spiccavano ancor di più. Tu che predichi tanto, costì, tu per primo non sceglierai mai, Littey agitava il bocchino della pipa come per infilzare a distanza Egelmann. La Germania è il nostro oriente formato continentale. Siete Indiani pure voi, buttate tutto dentro il calderone, annullate le distinzioni a forza di definizioni e sotto definizioni. Alit ex alio reficit natura, facile sì. Engelman piegava i polsi con le mani aperte, sorridendo. Scegli tutti gli dei.

Littey inclinò la testa all’indietro e storse mezza bocca. Non mi tirar fuori Swinburne pure tu ti prego. In tutto questo lui sorrideva a sua volta, gli occhi rivolti alla birra, al tavolo o chissà cos’altro. In realtà lui non porta mai il Chatto seconda edizione quando ci sono altre persone, persino nello zaino, ma si sa, l’occhio dello studioso penetra i sacchi di tela, e legge le copertine rovesciate per nascondere il titolo, il lupo riconosce il lupo e il cacciatore di lupi. I più, forse persino sua sorella, probabilmente credevano che al netto delle vibrazioni malsane, ad attirarlo fossero le maniche dorate delle figlie dei re, e Ginevra che si difende e pure i fiumi ruggenti e il mare in affanno e il passo di Atalanta che muove invidia al vento, il metro sapiente dei cori in Calidonia che soddisfa la lingua che batte sul palato, perché pure lui ha avuto il suo bernoccolo classico. Così credono, così vogliono credere, perché altro resta difficile da ignorare, e comunque non l’avevano letto tutto, e certo non come lui. Difficile sapere qualcosa, difficile fingere di non saperla. Come che sia, lui si è trovato gli occhi umidi come per il fumo quando ha letto per la prima volta di sguardi chiari che scuriscono all’aurora e la polvere bianca e le colonne che arrossiscono al tocco delle mani cineree. Anche i cervi azzannati dai rovi che rovesciano il muso nell’acqua fredda, anche le labbra liete e umide e i segni viola sopra e sotto le palpebre, ma questi son giochini di prestigio, verità dette troppo limpide per confondere e accontentare chi vuole scandalizzarsi, confessioni esplicite e quindi non valide. Non è così che ci si intende tra una parola e l’altra, stranieri e ospiti in sala d’aspetto tra i treni.

Aveva già iniziato certe cose, ma quand’è che si inizia davvero qualcosa, ci si può chiedere, non è tutto sempre e comunque ricordato. Gli inizi son difficili. I magazzinieri e fattorini e figli minori dei pescatori adesso venivano una volta a settimana e in numero ridotto, solo per ripulire quanto si accumulava con le piogge e ricontrollare teli e impalcature. Uno di loro aveva tentato pure economia, gli aveva raccontato fumando con mezzo sorriso come di scuse. Sono già una specie di custode di museo a cielo aperto, vedi, le scriveva. Abbiamo già detto che aveva ventiquattro anni, quello che non abbiamo detto ed è la seconda nobile verità è che ama Mandelshon e i suoi sogni paiono non realizzarsi quasi mai. Alla sera gli fanno male le ginocchia, non per sforzo eccessivo ma come per energia che non trovi sfogo. Spegneva le sigarette sul piccolo davanzale di pietra, mentre fuori a intervalli regolari baluginava qualche lucciola e la nebbia cancellava già il secondo susseguirsi dei pendii. Aiuto aiuto, si sentiva gridare con finto spavento da una voce adulta d’uomo, dal salotto illuminato di un casolare più in alto, seguito dai pigolii e strilli di qualche bambino divertito. Al di là del profilo scuro della casa, alla sua sinistra, tra gli alberi appena oltre la strada della piazzetta mal illuminata sul retro, si sentiva bubbolare un allocco. Allo studioso si addice più il sigaro, gli aveva detto Kerr che pure non fumava affatto. Più ponderato, riflessivo. Le sigarette son troppo nervose, ma è pur vero che operatori sul campo come voi non possono esimersi forse da una certa eccitabilità, per quanto non ci sia disciplina che non debba arginare umore instabile e incoerenza. Certa viriliter, substine patienter. Pensare il pensiero. Eynfeldig gut.

Qualcuno andava, qualcuno veniva, a intervalli scanditi, lungo il sentiero ancora bagnato per la notte, affiancato da pianticelle di melissa o menta, non sa bene, sotto castagni e noci ancora verdi senza cedimenti. Lui passeggia a testa bassa, le spalle incavate, il colletto che sfrega sulla pelle sottile e illividita per la sera prima, un’ultima vibrazione tenue di semitoni premuti sulla carne. Al pari di qualsiasi altro strumento, anche qui la vibrazione delle corde perdura in un lasso tra un secondo e addirittura cinquanta sulle gravi, secondo certe misurazioni contraddette comunque da altre. A parlare di pianoforti buoni, beninteso. Questo non impedisce a un fantasma di suono di indugiare ben oltre applausi, risate e lacrime. Così le palpitazioni e il fastidio al torace. L’ordito del respiro reggeva forte, ispirava ed espirava con dolcezza, come un velluto sottile dal bordo frastagliato, irregolare. Nascondeva le abrasioni sotto il mento con un fazzoletto chiaro. Ha ancora la voce un po’ chioccia, ma forse perché dal mattino non ha quasi parlato con nessuno. La luce del primo pomeriggio è incerta, come per un mero ritrarsi del buio. La pressione della pioggia in arrivo pare schiacciare tutto giù. Poco più avanti un gambecchio, piuttosto raro da quelle parti, zampettava sul sentiero. Lui tossisce e quello freme all’unisono e saltella un poco indietro, e via così anche al secondo colpo. Lui allora si mette a farlo di proposito, sorridendo appena. Faceva sempre mezz’ora piena dopo pranzo, prima del the al pianterreno dell’affittacamere e di tornare alle tombe. Il sito è coperto con le incerate, eccetto il tumulo su cui sta lavorando e che lui stesso spazza se e quanto occorre. Non si può chiamare collina e neppure avvallamento, perché il terreno prima risale un poco rispetto alla strada e agli alberi di farnie e poi sprofonda tra i ranuncoli. Lì il suo sguardo si accende di luce propria.

E così arriviamo alla terza nobile verità. Il campo è disseminato di massi grigi nell’erba verde e gialla, in mezzo ai quali spuntano i tumuli maggiori. All’ingresso del suo – il possessivo in questi casi fa sorridere – è stato necessario scavare una piccola trincea per abbassarsi e oltre la soglia. Un vestibolo di pietra stretta e liscia, a lastroni umidi, di sette otto metri, e poi la camera vera e propria che a rimuovere tutta la sabbia e il terriccio sarà sui tredici, forse quindici. Il soffitto si abbassa ancora. Fuori alte in cielo vanno le nuvole, ma lui ovviamente non le vede né ode più nulla, neppure il fischio del treno eccetto forse un tenue sibilo che è ancora quello del vento là fuori. Alle spalle la soglia è un rettangolo azzurro. C’è odore di umido. Le incisioni sulla parete di fondo e quella di destra sono rosse e non troppo sbiadite, un continuum di volute percorse da linee che disegnano dei bozzi regolari e smussati. In qualche punto alle estremità spunta un ricciolo che probabilmente rappresenta un rostro o un muso di qualche animale. Il centro delle incisioni è una mandorla vuota, larga come un torace e posta più o meno alla stessa altezza, un’innovazione più recente rispetto ad altre soluzioni geometrizzanti. In mezzo al pavimento quattro lunghe pietre piatte delimitano la sepoltura vera e propria. Scheletro e gioielli sono stati trafugati da tempo, sempre che la salma non fosse stata cremata. Hanno comunque identificato la vedova dai reperti nella seconda camera, più piccola e rimasta sepolta, poco più profonda di un armadio a due ante e così bassa da potercisi infilare solo carponi. Lì restavano ancora due calderoni verdastri di rame con fibbie, bracciali, anelli matronali. Engelman li aveva portati via per catalogazione e raffronti.

Littey s’era entusiasmato per il quinto sito, più discosto dagli altri, quasi al margine degli alberi sul versante ovest, un semplice bernoccolo di terra che ricopriva una fossa poco profonda, larga appena per contenere le ossa non cremate di un qualche paria o criminale indegno del fuoco, le ossa di braccia e gambe fracassate post-mortem e i pertugi del cranio riempiti con rivetti di ferro e quello che restava di ramoscelli ormai in briciole. Occhi, orecchie e mascella, come a impedirgli di guardare ascoltare proferire alcunché. Aghi sotto le dita dei piedi, dove probabilmente erano stati conficcati. Un paio di forbici adagiate sullo sterno. Testimonianza netta che non lo volevano fuor di qui se mai ne ho vista una, Littey muoveva le braccia come a percorrere le linee della tomba. Puoi star giù, amico bello. Si spazzolò i calzoni sporchi sulle ginocchia.  Disgraziato, Engelman si era ficcato il berretto sotto il braccio e rigirava le forbici in mano, cercava di leggere l’iscrizione singola. Meteora, aggiunse dopo qualche secondo, O non ci capisco niente, anche se il significato secondario resta sempre portento o giù di lì. Erano circa le dieci del mattino. Lui invece preferiva questo spazio come abolito, sprovvisto persino della sua occupante. Abbiamo detto che laggiù i suoi occhi si accendono. Quello che sarebbe più giusto dire è che lavorando sogna. La spatola percorre le linee, i fili rossi, i secoli e i giorni e le ore spariscono, non c’è più niente, solo la vuota geometria intervallata dalle brusche interruzioni di parole dimenticate e che non significano niente, perché niente significa davvero qualcosa. Fibbie e scudi e pentole e coperchi sono meno espliciti, ma pure in essi una spirale che si dirama in una serie di ellissi come altrettanti anelli di catena o ganci con al centro una gemma verde o gialla o rossa riduce il mondo fuori ai suoi elementi essenziali e lui li percorre con lo sguardo finalmente riposato e per questo attento senza sforzo alcuno, perché non c’è niente da scartare.

Respira piano, a fondo. Una gallina bruna e bianca raspa sulla soglia. Si è troppo nell’entroterra perché qui si seppelliscano le navi, e lui non vorrebbe scoprirne una per la gloria del ritrovamento e neppure per sapere qualcosa in più su come e dove soggiornassero i razziatori che incendiarono l’abbazia di Jarrow e che pure costituisce un elemento prominente della sua tesi, ma solo per nettare via la terra scura e i detriti dal bordo liscio della chiglia di quercia a rivetti. Le assi disseminate di bozzi sopra le decorazioni zoomorfe in ferro si sarebbero fatte quasi bianche alla luce, le scanalature di un nero ulteriore, come il proprio nome a caratteri incendiari e consumati. Lui avrebbe percorso il parapetto con la mano. Una fibbia per l’elsa a foggia approssimativa di cavallo, due grandi sfere per occhi sbarrati e una più grande ancora per il muso nel morso, unite da una rete dorata su sfondo rosso acceso e sormontate da un semicerchio d’oro aperto verso l’alto, è anche una mappa del sistema venoso sotto la pelle della sua mano, una cianografia più accurata delle nostre soste e migrazioni, a imitazione della perenne saggezza nelle nervature delle foglie, più precisa perché inalterabile, netta nel raccogliere tutti i caldi odori e le variazioni dei gesti delle specie e fissarli nella forma immutabile. Non c’è speranza nella storia, solo nella geometria violenta che talvolta imita. La ragazza dai fianchi grossi intravista quella mattina in strada, per esempio, capelli scuri sotto il cappellino a veletta, viso pieno, gli incavi sotto gli zigomi che lasciano leggere il triangolo con la punta verso il basso, occhi luminosi, umidi.

Il vestito grigio pervinca a macchiette rosa sullo sfondo verde acceso degli alberi e il grigio a sua volta delle case in pietra. Amelia, l’ha sentita chiamare dal padre o lo zio, seduto alla panca fuori del pub, e il proprietario del locale che ripeteva Amelia e annuiva, è un bel nome. Lei sorrideva. Reggeva dei pacchetti in mano, il torso si stringeva come uno stelo per poi allargarsi sui fianchi, sulle guance il sole accendeva due bucce di luce. Avanzava per la via e dietro l’aria polverosa apriva come due ali. La ragazza, tutto questo di lei lo racconta meno l’imprevedibilità articolata e vegetale della foglia al sole che la lunga sagoma scura dello scafo che lui non ha mai dissepolto, eppure lo vede. Anche qui, le volute a spirali son come alveari appesi alle linee flessuose, come le orecchie di lei messe in bella fila e più ancora il mento che si condensa come un ricciolo di carne sporgente sotto il labbro inferiore piccolo, come ritratto. Un male-bene nato con tutti i denti gli si rigira nello sterno, una ruota gemella di quelle alla parete e che potrebbe schiudersi facilmente solleva le costole fuori della pelle, a schiudersi della stessa estensione della mandorla maggiore, gli organi esposti a pulsare piano e quella ruota dentata lì nel mezzo che gira e rigira dorata e rossa pure lei. Lui sospira a intervalli scanditi, uno stacco netto tra un’ispirazione e l’altra. Anche qui, sarebbe più corretto dire che testa e tutto il collo illividito sono più leggeri, come se niente o poco appena li distinguesse nella vibrazione dello spazio dai segni sul muro, mentre il resto del corpo pesa due volte di più sulle ginocchia e il pavimento. La vista gli si appanna. Ha la bocca secca. Esce e scaccia la gallina con un calcio nel vuoto. Fuma.

Il mare non è troppo distante, a un’ora, un’ora e mezza di calesse. Il cielo grigio si specchia nei flutti agitati e spumosi che si abbattono sui ciottoli e si ritirano con un risucchio affannoso. Tempo ideale per chi ama versi come Salvami e nascondimi con tutte le tue onde e Palpebre chiare levate verso il nord e il sud. Per avanzare a occhi socchiusi sul bagnasciuga, affannati pure noi, il vestito gonfio di vento, i capelli arruffati, lo sterile appetito dell’acqua nel suo seno indiviso a succhiare e risputare le nostre passioni appassite, e quelle in boccio. Ma la sua canzone amara è per qualcun altro, forse. Tutto questo non è la quarta nobile verità ma le si avvicina. Il più della giornata è finito. Rientra alla pensione. Dabbasso c’è confusione. Gli avventori ridono, schiamazzano, bevono. È venerdì. Un vecchio è in piedi sulla panca e agita le braccia nelle maniche troppo larghe verso le travi del soffitto, racconta una storia e di punto in bianco imita il chicchirichì di un gallo. Si piega in avanti e scorreggia forte. Due uomini arrivati nel pomeriggio, in abiti da agenti di viaggio, gli tirano contro palline cavate da molliche di pane e lui cerca di afferrarle con la bocca. Un setter abbaia, diverto, spaventato, tutte e due le cose. Una vecchia dai capelli bianchi raccolti a crocchia, il viso rugoso, batte le mani due-tre volte e ride sdentata. Ogni posto ha i suoi prediletti dalla luna. Lui mangia il suo, a testa bassa, con un sorriso tenue agli angoli della bocca, a eventuale beneficio altrui, un paravento. Patate e petto di pollo freddo, un bicchiere di birra tiepida. Risponde con un cenno timido a chi lo saluta. La mano sinistra ha un tremito nello stringere la forchetta. Sospira. Alza di scatto la testa, come per qualcosa che avesse dimenticato, e la riabbassa subito. La parete alle sue spalle ha una grossa macchia scura, come un’ustione.

Alle luci opache, giallastre, nell’aria umida le cornici e curve son troppo forti, gli vengono addosso con violenza equa e spassionata, lo obbligano a seguirle, si allargano a occupare tutto il campo visivo. Fuori la sera è limpida, un blu intenso come di rado, le stelle chiare, persino una coppia binaria dall’alone azzurrino, puntuto. Una a una, guardiamo le stelle, una a una, come a inalare aria di neve, chicchi, stigmate sul corpo di giada scuro, a riposo, della notte. La distanza tra loro è essa stessa un reticolato obliquo e perpendicolare che si inclina e abbraccia i gesti là sotto, le mani tese a indicare e i cerchi sbozzati delle teste e la massa squadrata dei busti tra le linee del camino grande e dei tavoli. Persino le voci scomposte che fanno avanti e indietro e rimbalzano, son come spettri di città dai merli aguzzi, scintillanti. Si slargano ed esplodono come bolle, lasciano un’eco che gli freme tra le tempie e le orecchie. Per un attimo gli pare che sia mattina e allunga la mano dove crede di trovare il caffè. Scuote il capo, si alza, sale la scala che porta al primo piano. Dal banco all’ingresso la padrona di casa gli fa un cenno con la testa che vuol dire ancora I suoi amici. Lui annuisce, si volta, prosegue, entra in camera, si chiude la porta alle spalle E così veniamo alla quarta e ultima nobile verità. La prima forse. Tutto il chiasso è molto lontano da lui adesso. Stende la giacca sulle spalle della sedia davanti al tavolino alla finestra. Apre il vetro, ispira l’aria fresca. Niente nebbia stasera, niente sigarette per ora.

Centoventi anni a partire da quel momento, il minuscolo punto di luce di quella che è la sua camera sarà comunque illuminato, nei sobborghi d’una città appena più grande e passandovi sopra a circa quattrocento metri in ascesa progressiva, una donna al finestrino del suo aereo penserà Ecco un posto che mi piacerebbe per la pensione. Lui forse intercetta già quello sguardo, o forse no, affacciato con la fronte rivolta al cielo. Non pensa ai castagni e ai danesi appesi, e neppure a Odino impiccato per la conoscenza di un futuro che non potrà cambiare comunque. Per un attimo semmai ripensa alla ragazza della mattina, e un’altra un poco più adulta, la veletta a ricami viola a tagliarle il viso a metà, incrociata alla stazione a braccetto del fratello o fidanzato due settimane prima quando era andato a ritirare la posta, la linea euclidea sotto la curva del braccio piegato. Ma pure loro non contano più. Sono linee di colore, macchie e più ancora angoli che sbocciano e si allargano oltre i confini della vista interiore, sovrapposta agli occhi. Richiude la finestra, si sbottona il colletto, sfila la cravatta blu, più sottile e cala i calzoni che vanno giù appena sulle cosce bianche. Dalla sedia accanto al letto prende anche l’altra cravatta, marrone, più larga e le sovrappone. Se le passa sul collo, quella piccola a contatto con la pelle, e stringe un nodo sotto l’orecchio destro. Tira con la sinistra, in piedi nel mezzo della stanza.

La stoffa preme su laringe e trachea e lui prende a massaggiarsi il pene non eretto con la destra, lentamente. Ogni tanto con quella si appoggia alla trave che sporge dal soffitto basso. Eccoci. Se si guardasse allo specchio, di cui comunque avverte la puntura alla nuca, vedrebbe il viso sbiancato, i baffi che spiccano più scuri. I polmoni si aprono e chiudono a ventosa, i rumori si confondono nelle orecchie. Tira e con uno strattone frustrato del capo chiude anche le narici. I colori si fanno indistinti. Tira più forte e contrae i glutei. La ragazza del mattino o quell’altra e persino la nave non contano più, si è detto. La nave stessa che lui non ha mai trovato corre come tutto il resto a gettarsi fra le mascelle di due grandi rette parallele che si levano e distanziano ai confini dell’acqua scura. Il pene si è drizzato. Gli sguardi stracciati e i gesti si allungano come rivoli, inclinati come tinta che coli in orizzontale sulla tela. Passa la mano sotto i testicoli e si gratta, sporgendo il bacino. Sotto il nodo un tamburello batte regolare nelle vene. Qualcosa in lui si spaventa. Annaspa. Deve aprire le narici e questo lo ricaccia un po’ indietro come tutta la sapienza in briciole con un brivido dei capelli alla radice e allora lui tira più forte e fa su e giù con la mano in basso. Dal piano di sotto viene un qualche tonfo e ciò gli fa allentare la presa e dalla bocca tossisce un rigurgito di saliva. Dondola in avanti, si raddrizza e riprende. No, neppure questo costa abbastanza per superare morte matrimonio prole. Le sbarre scure sono due groppe in movimento. Fremono e inghiottono diagrammi e rombi. Non c’è bisogno di frugare tra i vestiti o le sottane. La grande bocca lieta del respiro adesso è un piccolo cerchio che si contrae. Il cuore batte forte a contrasto. Inala quanto basta a tenerlo buono e stringe il pene sulla punta, senza scostare la pelle sul glande.

Basterebbe che la ragazza del mattino o quella del treno, nome e viso si annullano, alzasse un braccio alto sopra la testa, così, come a indicare il cielo, e lui sentirebbe quel tratto farsi avanti nell’aria e affondargli nella faccia, tagliarlo in due metà parimenti coscienti. Zoccoli umidi, denti rosati non sono che preamboli. Andrebbe giù spaccato a incontrare solo l’azzurro sopra di sé. Adesso sì. Non sente più il pavimento. Continua a tirare. Una porta si apre e in fondo al corridoio buio del tumulo del pomeriggio la ragazza che è tutte e due e nessuna, ridotta a bianco e nero dalla luce si agita a velocità impossibile con strilli senza suono, agita la testa su e giù a bocca aperta, come sprizzando un luccichio e ogni gesto che incontra la cornice lascia indietro qualcosa e qualcosa forse prende. Si torce e sbraccia più veloce ancora, quasi a colpirsi su testa e busto. Quel silenzio agitato gli cannoneggia i timpani e come un ultimo spicciolo buttato nel cappello teso rintocca un singolo tasto di pianoforte premuto a ripetizione. Pensa con vergogna Per tanto tempo resisto, mi basterebbe così poco e ciò lo fa tirare più forte ancora. La donna che sbatte su sé stessa e la porta retrocedono al pari di un treno in corsa e una profonda malinconia lo investe.

Ecco che su quel movimento, sovrapposto al pensiero vede il proprio nome scritto a caratteri neri che succhiano tutta la luce e la vomitano fuori. Allora lui schizza tremando tutto sul pavimento, sollevandosi sulle punte dei piedi, gocce come lacrime di resina, faticose, piene e l’urina a seguire, dolceamara pure lei come il fiato che entra ed esce perché ha allentato la presa e adesso la mano alla cravatta e sollevata come a dire Addio o Pace Pace. La stanza gli torna addosso, anche se per qualche secondo agli angoli della visuale ci sono due ditate scure. E il fedele segugio del lampo, il tuono fragoroso scoppia a ripetizione due tre quattro volte nelle orecchie. Gesù, dice. Gesù. Si inginocchia piano. Sputa. Ridacchia con la voce querula di una ragazzina mentre pulisce per terra con uno strofinaccio che poi butta nel cestino della carta. Sfiora con le dita i secchi segni rossi sul collo. Rabbrividisce. Giù la serata continua. Un cane, forse lo stesso, abbaia, stavolta fuori dell’ingresso. Zitto, fa una voce maschile. Colori e suoni vanno alla deriva, l’imponenza recede sullo sfondo. Si spoglia e si stende sul letto senza lavarsi i denti.

La mattina dopo sotto l’occhio destro noterà delle sottili ramificazioni rosa che spariranno nel pomeriggio. L’abatjour pulsa piano come una passeggiata ad andatura regolare. Sul comodino lo Swinburne della Chaddo è sotto l’Ecclesiastica di Beda in copertina rigida, e le Institutis di Cassiano che Engelman aveva scordato nel soggiorno. L’ossigeno a distesa lo lava come un ospite maltrattato eppure paziente. Fa ressa sulle narici. Lo sterno si alza e abbassa. Sbatte gli occhi e vede meglio. Il cuore batte forte. Tiene sulla fronte la mano destra che odora di tabacco. Decide per l’ennesima volta di smettere di fumare. Legge l’ultima lettera della sorella. Ieri abbiamo avuto Rayner e Jinny a cena. Paiono fratello e sorella. Irritabili loro rendono irritabile me. Son ricchi, giovani, hanno tutto e di tutto si lamentano. Vestono interamente di nero. Lei però ci ha parlato d’una amica sua che pare carina. Quantomeno a posto. Dice che a carte è imbattibile, e questo genera gentilezza, consolida la società etc. Lo so già che mi dirai. Lasciami fare. Seguiranno aggiornamenti. Tre mesi dopo la conoscerà, e ne verranno fuori due anni di fidanzamento, passeggiate nell’aria sgombra di nubi, lungo i covoni ammassati. Va così, così deve. La parola lacrime gli farà sempre ricordare certe cose, custodite inascoltate, come schegge di brace. Sarebbe stato un buon marito.

 

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rialti@minima.it

Edoardo Rialti scrive per “L’Indiscreto” e “Il Foglio”. È traduttore per Mondadori delle opere di R. K. Morgan, G. R. R. Martin, J. Abercrombie. Ha curato opere di Shakespeare, Wilde, C. S. Lewis. È autore delle biografie letterarie di C. Hitchens e J. R. R. Tolkien.

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