
di Luca Tosi
Certe volte, al narratore di questa storia vien da chiedersi come mai al mondo esistano ancora tali soggetti inqualificabili, uomini per così dire molesti, spesso di statura bassa, tarchiati nonché puzzoni, lanciatori di sguardi languidi con cui ogni tot capita a tutti, per sfiga, per lavoro o per puro caso di entrare in contatto e doverseli subire. Anche nell’attuale anno duemilaventiquattro, dove i progressi della tecnologia e della specie continuano, in un contesto in cui ogni individuo punta a migliorarsi attraverso videocorsi o banali sedute psicologiche, i miseri esemplari di cui sopra, gli storti, insomma, gli zoppi di gamba e di spirito imperversano e non si capisce perché. Vien anche da chiedersi, al sottoscritto, dato l’ormai alto numero di laureati della popolazione italiana, quanti ne esistevano in passato di storti, a partire ad esempio da cinquant’anni fa e proseguendo indietro; con tutta probabilità una masnada di questa gentaglia inquinava e distruggeva le vite altrui più che oggi, però era normale così.
Se si risale alla biografia dei singoli, spesso si scopre che l’incidente scatenante che li ha portati a ridursi in bestie riguarda, nel novanta percento dei casi, il rapporto coi genitori o comunque con la sfera familiare: padri che li pestavano ora con cinghie ora con mani nude, madri bipolari, preti strusciatori, insomma adulti che riversavano su di loro i propri traumi così da sporcarli, renderseli simili. È questo il caso di Tiziano Morandi, nato a Bologna e allevato da una famiglia di cristiani avventisti così composta: padre manesco in quanto figlio di donna suicida e madre succube del marito, dedicata in toto a preparargli pranzi e cene, a sfilargli le scarpe rincasato dal lavoro o dal bordello e a dargli sempre ragione sul prender a botte Tiziano; tale condotta regalò al bambino, già dal quarto anno di vita, le prime significative turbe. Non approfondiremo l’infanzia, però, che già si è capita, bensì la vita adulta.
Tiziano Morandi, giunto sia malato sia ipocondriaco all’età di cinquantasei anni, una mattina aveva cercato su internet chi fosse il miglior ghostwriter d’Italia ed era finito, non si sa bene come, per telefonare a un certo Flavio Castello di Taranto; già la settimana dopo, Flavio si era presentato munito di cappellino nero e zaino anch’esso nero all’appartamento al piano rialzato di Tiziano in Via Carracci 96, quartiere Bolognina, accompagnato da una ragazza che aveva indicato al Morandi come “collega” ma che era palesemente la sua fidanzata disoccupata, od occupabile come si dice oggi. Il Morandi li aveva fatti accomodare al tavolo della cucina, impestato di briciole e blister di medicine; erano uno più in pentito dell’altra di essere saliti dalla Puglia, in piena estate, alla tana di un omuncolo che pareva esistere contronatura. Si guardavano intorno, notando prima un’enorme bandiera americana appesa a una parete, poi la custodia di un disco di Grignani buttata sul divano. Per non dire dell’odore: albergava, in quel tugurio di bilocale, una puzza di merda mista sperma, e non erano tanto sicuri che provenisse dall’ambiente, bensì sembrava dal Tiziano stesso, che per l’occasione indossava una maglietta della Puma pezzata sotto le ascelle e schizzata di non si sa che sugo. In compenso, sulla faccia non gli sfumava mai il sorriso, mentre sia Flavio che la ragazza erano serissimi. Pareva, Tiziano, ben conscio d’incutere nel prossimo uno spiccato senso di schifo, infatti aveva detto ai due, in primis: «Descrivetemi con tre aggettivi, prima di cominciare».
Flavio e l’altra si erano specchiati nel reciproco terrore con un solo, sparuto sguardo. Era toccato a Flavio, per forza di cose, assumersi la miseria necessaria per rispondergli: «Ospitale, simpatico e amichevole».
«Non sono anche gasato?» aveva chiesto Tiziano.
«Anche, sì».
«Troppo?».
«Il giusto».
«Un gasato che però sa il fatto suo, no?».
«Esatto».
Altro non faceva che confermare e annuire a ogni parola di Tiziano, il povero Flavio, dandogli sempre ragione e cercando appena possibile di passare al sodo: il compenso pattuito per la scrittura dell’autobiografia del Morandi era di cinquemila virgola zero zero euro, suddivisi in tre rate di pari importo da corrispondere una alla firma del contratto, una a metà dell’opera e una alla conclusione, ipotizzando fra i tre e i quattro mesi la durata della stesura e un totale di tre incontri dal vivo. Purtroppo per Flavio, però, Tiziano non reggeva la concentrazione per più di cinque secondi netti, e nonostante venisse incalzato con domande e richiami all’ordine cronologico degli eventi della sua vita, lui si alzava, chiedeva se volevano dell’acqua, delle noccioline, rispondeva al telefono e così via. Flavio s’era già pentito non solo di essere lì, ma anche di aver scelto la professione del ghostwriter al posto di una comoda poltrona pubblica; fare il ghostwriter lo costringeva alla partita IVA, a sovvenzionare un commercialista e a immedesimarsi in deviati e disturbati egotici del genere, tutti convinti, questo era il comune denominatore della sua clientela, di aver vissuto storie incredibili, perciò meritevoli di esser stampate e rifilate a un pubblico. Si trattava, al contrario, di biografie del tutto insulse, sfigurate da gesta inqualificabili e vuote di ogni etica, compiute da analfabeti emotivi che però erano gli assoluti beniamini di loro stessi, disposti quindi a sborsare cinquemila euro per farsi riempire da uno squattrinato duecento pagine di parole, poi sponsorizzare il libro su Amazon e vendere in media diciassette copie fra parenti e amici creduti tali.
In sette anni di libera professione Flavio s’era ingolfato con così tanta bile che da un annetto soffriva di ulcera e sporadica cagarella, sintomatici disturbi a cui il corpo ricorre quando raggiunge il limite dell’inumanità, allorché deve spurgarsi. Oltre ai fermenti lattici Flavio assumeva, come anche adesso in presenza di Tiziano Morandi, alte dosi di preghiera: molto tempo prima aveva scoperto da un libriccino edito Bompiani, Racconti di un pellegrino russo, che esiste una sorta di tecnica per pregare ininterrottamente pure mentre si fa dell’altro, ripetendosi in testa a mo’ di mantra i versi del Padre nostro o dell’orazione che si preferisce. Farlo lo calmava un po’, in più gli dava l’illusione di poter non solo digerire le peggiori meschinità altrui ma anche di ricevere in ricompensa un bonus spirituale: allentato il respiro, abbassate le spalle, riusciva con sua sorpresa a connettersi, almeno così gli sembrava, col suo io bambino, o meglio l’io feto, percependolo gravitante sopra di lui, rannicchiato in una bolla simboleggiante il pancione materno.
Ma torniamo all’ammasso di marciume della vicenda, ovvero al Tiziano Morandi. Flavio e la ragazza scrivevano nei rispettivi computer e il registratore vocale registrava, mentre la bestia, non seguendo il minimo filo logico sviava dall’infanzia al presente, al trapassato, snocciolava aneddoti insignificanti con esagerata verve, strizzava occhiolini alla ragazza e cercava ulteriori conferme che Flavio, ringoiando reflusso gastroesofageo, gli dava annuendo sempre. La sua biografia, nell’insieme, era circa questa: nato prematuro in una famiglia avventista, il Morandi era stato spedito dal padre in collegio a Firenze e successivamente in un paesino vicino a Chicago per studiare al college; là, a detta sua, aveva fatto incetta di bionde e di more. Rinculato poi in Italia si era messo a lavorare come venditore di gioielli porta a porta, mestiere che gli assicurava ingenti guadagni e ancora donne, sempre prendendo per attendibile la sua versione. Nel mezzo di tutto ciò s’era ammalato due volte, prima per un tumore alla prostata che un chirurgo svizzero gli aveva asportato, e a cui Tiziano aveva premesso: «Se c’è da tagliare, dottore, tagli», poi si era verificata la recidiva dello stesso che l’aveva obbligato a cure radiologiche e ormonali tali da donargli tratti femminili, così andava vantandosi; tratti che né Flavio né la ragazza riscontravano. Ci aveva tenuto a ribadire per ben tre volte che, nonostante le radiazioni e le cuciture, il suo organo erettile funzionava tutt’oggi al cento percento (l’aveva detto fissando il petto della ragazza).In ogni caso, questa delle malattie era stata una parte parecchio sofferta del racconto; a occhi lucidi, Tiziano aveva preteso anche compassione da Flavio, da uomo a uomo; ma Flavio frignate del genere ne aveva assorbite così tante dai pregressi clienti che non gli faceva più pena niente, se non sé stesso. Nemmeno i soldi ivati che incassava si godeva più, anzi, si era formato l’idea che le somme fossero direttamente proporzionali alle pillole di pantoprazolo che poi gli toccava ingoiare. Annuiva meccanicamente, poneva altre domande al Morandi e non appena poteva ripassava a mente la preghiera, calmandosi nel ricordare che Racconti di un pellegrino russo ce l’aveva lì nel suo zaino nero, a ottemperare la funzione di amuleto.
L’incontro si era concluso in due ore secche, con l’impegno reciproco di fissarne un altro fra un mese e mezzo. Ma prima di andar via, Flavio e la ragazza avevano sottoposto il contratto a Tiziano, che quindi, apposta la firma con grafia gallinesca, si era traslocato alla sua scrivania con sedia ergonomica per disporre il bonifico istantaneo della prima rata. Felinamente, Flavio si era appostato dritto dietro di lui, in piedi a braccia conserte, cosicché appena Tiziano era acceduto all’home banking ne aveva potuto spiare il saldo: un milione e duecento e rotti mila euro, di cui il milione investito, c’era scritto in grassetto, e i restanti duecento mila liquidi. Allorché Flavio aveva girato lo sguardo verso la sua lei, che gli aveva restituito lo stesso sgomento seppur non si fosse accorta della somma; s’era sentito così somaro, così impedito nel non aver saputo sparare una tariffa più alta che poco dopo, non appena i mille e seicento euro gli erano stati accreditati, aveva accelerato di brutto i saluti. Tiziano c’aveva provato a trattenerli, prima chiedendo un selfie a tre, poi mostrando loro la Porche gialla parcheggiata in garage, ma Flavio era un treno in corsa, così erano evasi.
Una volta in strada, la ragazza aveva chiamato un taxi per l’hotel; nel frattempo Flavio, torto sulle ginocchia, vomitava saliva bianca nei pressi di un boschetto, al suono di conati e saracchi.
Mezz’ora più tardi, giunti nella loro camera matrimoniale al due stelle “A casa di luna”, quartiere San Vitale, Flavio si era infilato nella doccia con la massima priorità di depurare almeno la pelle; dopodiché aveva giocato a backgammon dal telefono, stravaccato sul letto con la ragazza al suo fianco, stanca, smunta e al limite del pallore. In un quarto d’ora si erano addormentati, entrambi faccia al soffitto, al che nella testa di lui era partito questo sogno: era il manager di una squadra di centometriste prossime a disputare le paraolimpiadi; ma l’handicap delle sue atlete non riguardava solo il fisico, bensì un misto: non appena percepivano un filo d’ansia, sulle loro facce comparivano dei capezzoli. Su alcune se ne contavano addirittura nove sparsi fra fronte, guance e mento. A quel punto attaccavano a disperarsi, gridare, piangere, telefonare ai genitori, nonostante poi vincessero grazie all’enorme talento che avevano sulla breve distanza. Nella parte conclusiva del sogno Flavio si rendeva conto di quanto fosse vergognoso mostrarsi vituperati in diretta mondiale, però comunque le spronava a correre e non pensare, ed essendo superiori alle avversarie facevano incetta di medaglie.
Svegliatosi di soprassalto, per sbaglio aveva svegliato anche la ragazza; dell’immediato racconto del sogno di lui non le era fregata una ceppa, si lamentava per una forte emicrania e lo incolpava, adesso, col dito puntato, d’averla inglobata senza protezione in una situazione da codice rosso con quel Tiziano; si era poi dedicata a leggere tutta immusonita la newsletter del Post, e a seguire aveva fatto yoga sul pavimento. Ancora a letto, Flavio s’era accorto di due telefonate perse dal Morandi, ovviamente non l’aveva richiamato; intanto su Bologna si scatenava un’improvvisa grandinata, e nell’insieme pareva che niente volgesse per il meglio, né nella vita di coppia né in Flavio come singolarità; gli occhi gli tendevano alla tristezza così come la bocca, piegata in giù agli angoli. Di lì a poco si era specchiato sullo schermo del suo telefono, immaginando di rifiorire, un giorno, tornare sorridente. Ma gli era più che chiaro che solo appendendo la penna e la partita IVA al chiodo le cose sarebbero potute migliorare; liberandosene, la sua attuale espressione si sarebbe autoespulsa dal repertorio delle espressioni a cui attingeva? Non ne era così sicuro. Sapeva, d’altronde, che la vita di chiunque alterna periodi e periodi: per anni non digerisci la cipolla, ad esempio, poi per altrettanti la divori a vagonate; c’è il periodo che andar al cinema ti tranquillizza e il periodo che ti agita; insomma, non si fidava nemmeno delle proprie idee e intuizioni, catalogandole presto come umori momentanei, e cos’era meglio o peggio non lo capiva fino nel fondo. Il solo barlume di speranza rimasto lo riponeva nella preghiera, unica sua sicurezza. L’aveva usata anche prima, per invocarsi fortuna nei dadi del backgammon, però senza risultato.
Negli stessi minuti e secondi, adesso che la sera scendeva con tuoni e cielo gocciolante, in Via Carracci 96 il Morandi, dal suo tugurio, discuteva su WhatsApp con l’impiegato di un concessionario per vendergli la sua Porche a un prezzo esagerato, millantando amicizia e offerte più vantaggiose dalla concorrenza. È strano come tempo e spazio riservino destini e stati d’animo così diversi a uomini che si trovano nella stessa città, sottostanti alle medesime condizioni meteorologiche; e ne stiamo considerando appena due su tutta la popolazione residente e non. C’è chi mercanteggia sempre e comunque, insomma, e chi più di tanto non ce la fa, poi si rifugia nella mistica.
Veniamo dunque al personaggio colpevolmente meno approfondito fin qui, e cioè la ragazza: nella borsetta teneva due mazzi di tarocchi, uno di Marsiglia e uno Visconti-Sforza, più il libro dell’I-Ching; dopo lo yoga, sotto la doccia era ricorsa a una tecnica rilassante del respiro che le imponeva di contare fino a quattro nell’inspirazione, poi fino a sei nel soffiar fuori, tentando così di ritagliarsi una pace mentale. Proprio questo è il fatto: per i più inquieti, aver pace è impraticabile; ogni input esterno la mette in discussione centesimo di secondo per centesimo di secondo; figuriamoci poi aver a che fare con individui molesti che, come si diceva nell’incipit, inquinano e distruggono le vite altrui. Dev’esserci una legge dell’universo che regola pesi e contrappesi; sembra non lasciare niente al caso, il nostro universo, ma allo stesso tempo interviene non secondo le nostre logiche ed etiche: tutto il mondo è infuso da un caos che rimanda al nulla, così aveva pensato la ragazza, a occhi chiusi, sotto il soffione della doccia mentre cercava di riassumere in un breve pensiero l’intera esperienza di quella giornata. Lì, shampandosi i capelli a due mani a mo’ di grattugia, aveva poi pensato all’ordine degli psicologi; come cavolo ci riescono a bersi le paturnie, le storture e le diavolerie di ogni Cristo senza inquinarsi loro stessi? Beh, a differenza del povero Flavio gli psicologi non devon scrivere le biografie dei loro assistiti, solo sorbirsele, magari non ascoltandoli davvero, divagando nella recita dell’analisi o del silenzio assoluto, come nel caso degli psicanalisti, più cari degli altri.
Anche Tiziano Morandi era stato da una psicologa, sei anni prima. Lo riceveva nel suo studio ornato di piante a foglia larga, seduta con la Moleskine aperta sulle cosce, su una poltrona gialla dell’Ikea. Già al secondo incontro Tiziano le aveva sorbottato una raffica di occhiolini, cosicché lei l’aveva scaricato con la scusa improbabile di un anno sabbatico da intraprender al volo; se lo poteva permettere, c’aveva un parco clienti così folto da consentirle di campare in un attico in Via Galliera, nel pieno centro di Bologna, a differenza di Flavio che pagava in nero l’affitto di un bilocale poco lontano dai fumi dell’Ilva.
Uscita dal bagno con addosso un accappatoio bianco e i capelli fradici, raccolti in un mollettone, la ragazza aveva trovato un Flavio già sonnecchiante; un moto di estrema tenerezza le si era scatenato nel petto, insieme a una punta di disarmo, vedendo quel ragazzo, che ambiva a far lo scrittore e invece s’era ridotto a scribacchino per monetizzare. Un tempo ormai remoto pure lei era stata appassionata di letteratura, di esordi e editoria indipendente, fino ad accorgersi che in Italia, oggi, la scrittura è praticata da chi può permettersi costosi corsi prima, poi di vivere senza doversi guadagnare il pane; si commuoveva spesso per lui, però senza farsi scoprire. Una mattina di agosto le aveva confessato che gli pareva di non esser lui a scrivere, bensì Dio che lo usava come tramite; ciò acuiva in lei le lacrime.
Insomma, in piena fretta come per sfruttar un’occasione che non ricapiterà, s’era sfilata l’accappatoio e aveva sguainato l’I-Ching, edizione Adelphi, dalla borsetta, interrogandolo subito, nuda seduta sul letto col lancio delle tre monete per sei volte. Fra linee intere e spezzate era risultato l’esagramma 53, Kui Me, “La ragazza che si sposa”.
LA SENTENZA
La ragazza che si sposa.
Imprese recano sciagura.
Nulla che sia propizio.
L’IMMAGINE
Al di sopra del lago vi è il tuono:
l’immagine della ragazza che si sposa.
Così il nobile attraverso la perpetuità della fine riconosce il caduco.
Al che aveva letto l’interpretazione di Richard Wilhelm; diceva, in sintesi, che l’uomo precede e la ragazza lo segue contenta fin nella sua casa. Vigendo in Cina la monogamia, ogni uomo ha soltanto una moglie e tale unione accoppia le rispettive famiglie ancor più dei due interessati, nella più severa osservanza delle forme. Veniva specificato, poco dopo, che l’uomo conserva il diritto di dar ascolto anche a tenere inclinazioni di natura personale, e che il più bel dovere di una buona moglie è proprio aiutarlo in tal senso. Così il rapporto diventa sincero. La fanciulla si sottomette modesta anche alla madre dell’uomo, ovviamente ci dev’essere tatto da parte di tutti e bla bla bla. Wilhelm chiudeva osservando che la condizione della donna in Cina corrisponde è quella ideale, e che rappresenta una soluzione a un problema che la civiltà europea non ha tutt’ora risolto.
S’era portata un dito sulla bocca, la ragazza, nel rifletterci su, poi si era detta che questo o quell’esagramma non le avrebbero cambiato la vita; il vantaggio dell’interrogare l’I-Ching, l’oroscopo o simili sta appunto nel chiedere, mai nel responso. Spesa questa premessa un po’ paracula il pensiero le era volato alla madre di Flavio, Concetta Gerratana in Castello, donnone dalla silhouette corpulenta ma grazioso nei modi, nella voce e nell’odore; si vedevano poco, però il loro rapporto era ottimo, più vivido di quello fra Concetta e il figlio, chiacchieravano di detergenti e sieri anti-age, vestiti capati negli outlet e via via; una papabile futura suocera.
Un minuto più tardi la ragazza aveva riletto i versi della sentenza e dell’immagine, in particolare: “Imprese recano sciagura” e “La perpetuità della fine”. Constatava, nel mentre, che al “seguire l’uomo” ci aderiva in pieno, non soltanto nella sua itineranza di ghostwriter; era stato appunto Flavio a trasmetterle certi appetiti religiosi, catalogabili forse proprio come “tenere inclinazioni di natura personale”; seguendolo si era impermeabilizzata all’attuale “paganesimo dilagante”, così lo definiva con le amiche, e anche alla psicologia spiccia, per approdare a un’oasi interiore privatissima dove era libera di tornare ogni volta che ne aveva bisogno, come rannicchiandosi nel suo cuore di bambina; ma allora qual era “l’impresa che reca sciagura”? A ciò non aveva individuato risposta, bensì ne aveva individuata un’altra molto più importante.
Saltando alla “perpetuità della fine”, infatti, le era tornato in mente di quando Flavio, una decina d’anni prima le aveva parlato di Franny e Zooey, libro dello scrittore americano J.D. Salinger, quello de Il giovane Holden; nel finale i due protagonisti si confrontano su una certa Signora Grassa, entrambi l’hanno conosciuta attraverso i racconti del loro fratello suicida, Seymour: la ragazza ricordava come fosse ieri la voce gravosa di Flavio mentre balbettava che la Signora Grassa era Dio.
Concetta era sì grassissima, però non c’aveva niente a che fare con Dio.
Da fuori la finestra era venuta una canzone della Bertè, al che la ragazza s’era decisa a vestirsi; maglietta verde, minigonna nera, Birkenstock chiuse, per poi uscire a spararsi una passeggiata notturna. I capelli non se li era asciugati.
Nel centro di Bologna dominava un odore di asfalto umido che a lei piaceva già da matti, diversissimo dall’odore dell’asfalto della Taranto post-pioggia. Aveva camminato fino in Piazza Maggiore, non c’era mai stata e voleva vedere la facciata della basilica di San Petronio nelle sue due metà, compiuta e incompiuta; nell’insieme la piazza le era apparsa gigantesca e spalancata, come se ogni dettaglio, luce e ombra così composti producessero un’atmosfera capace d’accogliere e convocarla, quasi, a trasferirsi a Bologna. Della basilica non le era fregato granché; giunta sul lato sud della piazza aveva osservato un uomo smagrito che suonava con due bacchette da batteria la sua bicicletta: ci dava dentro anche con passaggi virtuosi mirati in toto alla velocità, per nulla alla precisione, eppure era così che impressionava i presenti, sedici persone al massimo che applaudivano senza scucire offerte. L’uomo si era presentato al pubblico come Cinzio.
Rientrata tre quarti d’ora dopo nella camera d’albergo aveva guardato da in piedi, immobile, il suo Flavio che russava a fauci spalancate, e ricordandosi il responso dell’I-Ching s’era detta che l’avrebbe anche sposato, Flavio Castello, e assunto il suo cognome. S’era quindi immaginata l’eventuale scena del sì: all’altare avrebbero pregato ininterrottamente insieme, muovendo le labbra lentamente e in fretta, concentratissimi nell’atto di unire i loro nomi davanti al prete, che su loro richiesta non avrebbe letto i soliti canti dal Vangelo bensì brani scelti da Racconti di un pellegrino russo. Si era poi spogliata e stesa a letto in mutandine, con la volontà di non produrre ulteriori elucubrazioni mentali a ritmo forsennato come Cinzio con la sua bici-batteria; aveva dato abbastanza per quel giorno. L’indomani la sveglia sarebbe suonata all’alba, dovevano fiondarsi in aeroporto e volar a Taranto, dove Flavio avrebbe subito iniziato a scrivere di e per Morandi a suon di crampi allo stomaco a ogni paragrafo. Si era promessa che in alta quota, a bordo Ryanair nel suo posto striminzito lato finestrino avrebbe chiesto al sole e alle nuvole di fondere le loro energie per regalare più pace e protezione possibili al suo ragazzo. Una volta sotto il lenzuolo s’era tolta le mutandine e l’ultimo pensiero prima d’addormentarsi era stato che la Signora Grassa, sicuro come l’olio ogni tot si rifà viva, basta tendere occhi e orecchi, tenderli nella più “severa osservanza delle forme”.
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