
di Silvano Panella
Dopo pranzo tornai sulla spiaggia. Il cielo era ancora coperto di nuvole scure ma non pioveva più. Raggiunsi il relitto della barca che io e altri pescatori avevamo trovato la mattina, osservai lo scafo scheggiato sul bordo e tranciato in più punti, i suoi colori vividi, il bianco e la fascia orizzontale rosso scuro. La barca, arenata e scossa dalla risacca, poggiava su un fianco. Lungo la spiaggia non c’era nessuna delle parti mancanti del relitto. L’interno della barca era pieno di sabbia e di acqua. Solo uno dei due scalmi era rimasto al suo posto e non c’erano remi.
Risalii sul lungomare. Volevo andare a pescare nella zona del faro. La strada del lungomare era in asfalto chiaro a due corsie, ora non passava nessuno. Anche al faro non c’era nessuno, perché bisognava salire sugli scogli e il mare era pieno di alghe. Io ci andavo perché là potevo pescare indisturbato. Col tempo imparai a lanciare senza incagliare, sfruttando la corrente e gli stretti e curvi corridoi naturali tra colonie d’alghe.
Superato l’ultimo edificio del paese, non mi rimaneva che passare davanti la pompa di benzina, il distributore, la casa del signor Umberti, che abitava assieme alla figlia Camilla, ragazza simpatica e affettuosa che eccedeva con la fantasia quando raccontava storie sulla vita e il coraggio, come me. La settimana prima mi aveva raccontato del suo viaggio in Canada col padre a cacciare gli orsi e a cercare l’oro. Di vero c’era soltanto che era stata in Canada da piccola. Le storie le sapeva raccontare molto bene, ma ormai mi ero abituato e non mi facevano più troppa impressione. Solo dopo, ripensandoci, mi accorgevo che erano storie piacevoli. Ora però non avevo voglia di sentire le sue storie, né credevo che ne avesse di nuove.
Quando fui davanti la casa guardai la finestra della sua camera. Camilla era alla finestra, mi salutò con la mano. Continuai a camminare. Presto mi accorsi di lei scorgendo i suoi capelli mori lunghi sciolti al vento del mare, camminava accanto a me.
«Dove vai?», Camilla mi domandò. «Sugli scogli? Certo, vai a pescare. Vengo con te», disse. «Oltre il faro», poi indicò. «Oltre il faro c’è un capannone giallo. Sai cosa c’è in quel capannone giallo? C’è un tiro a segno. Ti ci porterò io. Che cos’hai?»
Era più appiccicosa del solito. Scendemmo in spiaggia. Poi sugli scogli. L’aiutai tenendola per mano. Mi disse che era stata nel faro, una sera. Il faro era chiuso a tutti, Camilla era entrata dalla porta lasciata aperta dal custode. Mi descrisse l’interno: la scala a elica in pietra, i lampadari di latta, le ringhiere in ferro arrugginito, le finestrelle ovali, l’odore di chiuso, la grande lampada elettrica che girava nel suo cilindro di vetro. Faceva molto caldo, in cima al faro, tra la grande lampada elettrica e la vetrata. Da lì Camilla aveva visto il mare verde, le zone increspate da macchie di sgombri, la cresta spumosa delle onde.
Sedemmo sugli scogli. Preparai la lenza per lanciare e quando fui pronto lanciai. Camilla mi osservò pescare, poi rovistò nella cassetta dell’attrezzatura.
«Cos’è questo?»
Faceva sempre la stessa domanda tenendo in mano il galleggiante rosso e bianco, sferico. Non le importava nulla di quel galleggiante, voleva soltanto provocare.
«Non ce lo hai messo», disse. «Queste cose che non utilizzi ma porti lo stesso sono interessanti»
Camilla giocherellò con i piombi a olivetta. Lanciai altre volte senza prendere nulla. Tolsi il cucchiaino dalla lenza e mi feci passare un cucchiaino più piccolo. Camilla scrutò il cielo nuvoloso.
«Potrebbe piovere di nuovo, andiamo al tiro a segno», disse. «Non vorrai mica prendere qualche pesce»
Camilla provò a incastrare l’uno nell’altro gli avvolgilenza.
«Intanto potrei sistemarti la cassetta», disse. «Mettere sotto le cose che utilizzi poco e sopra le cose che utilizzi di più»
Diedi uno strattone alla lenza credendo che qualcosa avesse abboccato.
«L’hai acchiappato?»
«Acchiappato? No»
Camilla richiuse la cassetta dell’attrezzatura e pestò coi tacchi delle scarpe lo scoglio scuro sul quale stava seduta.
«È un bel posto, questo», lei disse. «Ci si potrebbe costruire una casa di legno»
«Sarebbe difficile piazzarla»
«Piazzarla? Qui è abbastanza piatto», Camilla disse carezzando lo scoglio scuro con la mano.
«Hai già una casa davanti al mare»
«Qui non è davanti al mare, qui è sul mare»
«Io dove pescherò?»
«Sarà una casa molto piccola. L’hai acchiappato?»
«Sì, ora sì»
Mi posizionai per bene sullo scoglio e cominciai a riavvolgere il mulinello. Camilla si cinse a me come se volesse aiutarmi a prendere il pesce.
«Non è uno squalo»
«Squalo?», lei disse, e mi lasciò.
Era una spigola che si dimenava poco sotto la superficie dell’acqua, agganciata agli ami del mio cucchiaino. Feci presto a riavvolgere il filo nel mulinello, tirai fuori dall’acqua la spigola e la slamai. Doveva pesare un paio di etti. La misi nel retino che Camilla mi porse aperto.
«Si muove», lei disse.
«È viva»
Lanciai. La spigola si agitava sempre meno e a fatica. Camilla teneva il retino accanto a sé, imbambolata ad aspettare che la spigola si agitasse ancora.
«La vuoi tu?»
«No», Camilla rispose incerta come se non avesse capito la domanda. «Chissà se ci ha visto, questa spigola»
«Gli occhi ce l’ha, quindi li usa. Ma non so se ci vede bene, fuori dell’acqua»
Pensai ai tonni che avevo pescato dalla barca in estate. Quei tonni sbattevano per un po’ e morivano guardando il cielo con un occhio solo. Anche la piccola spigola stava morendo.
Piovigginava. Camilla non diceva nulla, io non prendevo altri pesci.
La pesca, i pesci, il cattivo tempo, il silenzio di Camilla dopo aver parlato di cattivo tempo, di case sugli scogli, della spigola, i tonni con un occhio al cielo, io che pescavo. Il mare, la pioggia, gli scogli, il faro, tutto quanto era qua per creare un episodio tranquillo nel quale non accadeva nulla di troppo ingombrante, nessuna balena bianca abboccava al mio amo, perché parlare di pesca, di pesci, di case sugli scogli, di cattivo tempo era solo una distrazione, come il rumore del mare, come il cattivo tempo, come la pesca, che poteva essere una qualsiasi altra cosa ma non altro che quella. I pesci dentro il mare, dentro il retino, dentro il mio ricordo, la casa sugli scogli evocata da Camilla e da me sospesa, ero stato un solerte burocrate, i due cattivi tempi, uno nelle parole di Camilla, uno intorno a noi. Camilla muterà il cattivo tempo in un bel tempo, non saprà perché ma lo farà, quando racconterà questo episodio proprio a me, che ero qua, su questi scogli, sotto il faro, insieme a lei.
Il pesce nel retino non si agitava più. La pioggia continuava a scendere piano. Sostituii ancora il cucchiaino. Lanciai.
Credei di aver preso qualcosa e tirai a vuoto. Forse mi era sfuggito. Camilla non si accorse di nulla. Sentimmo chiamarci. Mi voltai verso la spiaggia, Camilla si alzò in piedi e salutò con la mano. La nostra amica Livia era arrivata.
«Ti piace?», Camilla domandò.
«Cosa?»
«Chi, non cosa»
«Livia? E se ti dico di sì, tu che fai?»
«Ti ammazzo», lei disse seria, per scherzo. «Andiamo?»
«Ora vengo»
Camilla scese dagli scogli e si diresse da Livia. Io feci un altro lancio, mi gustai la solitudine, anche se era più l’illusione della solitudine ed era meglio della solitudine vera e propria, poi raggiunsi la passerella di legno tra la spiaggia e il lungomare dove mi aspettavano. Livia mi salutò con la sua contentezza stentata e domandò cosa stavamo facendo.
«Io pescavo, Camilla guardava il mare e il cielo»
«Camilla mi ha detto che hai preso uno squalo»
Aprii il retino e le mostrai la spigola. Livia annuì e si volse al faro.
«Mi piacerebbe andare al faro, salire sul faro, guardare il mare dall’alto», lei disse.
«Dal pontile lo vedi meglio, il mare, è molto più comodo»
Livia sorrise. Era zoppa e magra. Era anche bella, i capelli biondi e ricci, gli occhi verdi. Vestiva sempre di chiaro e impugnava un bastone in legno scuro dal manico argentato. Io e Camilla le dicevamo che nessuno era elegante come lei. In sua compagnia anche noi ci sentivamo un poco eleganti, il nostro carattere si raddolciva, riuscivamo a essere sinceri. Sentivamo il bisogno di passare del tempo con Livia.
Sedemmo sul muretto di fronte alla spiaggia e al mare. Pioveva debolmente. Livia prese un cartoccio dalla tasca del cappotto e me lo porse. Dentro il cartoccio c’erano alcuni biscotti guarniti da gocce di cioccolato. Mangiai un biscotto. Era buono.
«Hai visto? Un fulmine sul mare», Livia disse.
«Cosa succede al mare quando cade un fulmine?», Camilla domandò.
«Eccone un altro»
«Dovrebbero accendere il faro, tra poco sarà tempesta»
«Ci si vede ancora», dissi.
«Ci si vede, sì», Livia disse.
Livia stava tra me e Camilla e teneva il cartoccio dei biscotti in grembo.
Camilla prese un biscotto e disse che quel biscotto e il brutto tempo le ricordavano un’esperienza. Raccontò di aver vissuto per alcuni giorni all’interno di una mongolfiera. Era una mongolfiera ben piantata in terra, su una collina. Una mattina pioveva. I fulmini lampeggiavano al di là delle querce che circondavano la collina. Il pallone sgonfio della mongolfiera copriva il cesto nel quale lei stava riparata. Poteva osservare fuori con il binocolo attraverso le fessure tra il pallone e il cesto, poteva mangiare le provviste che si era portata, provviste che sarebbero bastate per una lunga gita in mongolfiera, poteva immaginare di viaggiare senza incontrare i pericoli che questo tipo di voli comportano. Infatti adesso ci stava raccontando proprio il suo viaggio in mongolfiera. Lo alternava con la verità, volava nel racconto, in quello che diceva, ma nella mongolfiera, e sembrava anche questo un viaggio, anzi più di uno. L’esperienza immaginaria doveva essere stata per Camilla molto meglio di un qualsiasi vero viaggio in mongolfiera.
Livia stese il braccio avanti a sé. Gocce d’acqua scivolavano dal palmo della sua mano.
«Comunque…», Camilla disse al posto di un sospiro.
Presi un altro biscotto. Un grande fulmine ramificato comparve da dietro il faro. Era caduto lontano. Sentimmo il rombo cupo ma smorzato.
«È bello il rumore del fulmine», Livia disse. «Sembra che il cielo voglia aggiustare le cose che accadono giù da noi»
«Allora fallisce sempre», Camilla disse.
«Almeno mentre tuona sembra che ci riesca»
La pioggia cominciò a cadere fitta. Aprii il piccolo ombrello che tenevo nella borsa di cuoio. Diedi l’ombrello a Camilla, lei lo tenne aperto per sé e per Livia.
«Me lo potevi dire che avevi l’ombrello», Camilla mi rimproverò.
«Prima non pioveva forte»
«Che facevate?», Livia domandò ancora, con dolcezza, una dolcezza apprensiva, con gli occhi bassi.
«Null’altro», Camilla disse tra il meravigliato e il sarcastico.
Camilla aiutò Livia a raggiungere la breve scala in pietra, io tenni l’ombrello in modo da coprirle entrambe. Salimmo sul lungomare. Il capannone giallo era avanti a noi.
«Come mai il tiro è vicino alla caserma?», domandai.
«La guardia costiera ci va spesso», Camilla disse.
«Conviene avere clienti che tirano per professione?»
«Ai militari fa pagare meno i colpi ma non dà i premi. E poi il fucile è depotenziato»
«Tu tiri molto bene», dissi a Livia.
«È vero», Camilla disse.
«Non gareggio da Carnevale. Non mi sono più allenata»
«Ma sei sempre brava»
«Non lo so»
«Andiamo. Ci ripareremo dalla pioggia», dissi.
Percorremmo la strada. Pensai alle fiere, Livia sparava col fucile, era brava. Ma a caccia non ci andava mai, non sparava agli animali, con la sua mira ne avrebbe uccisi tanti. Vinceva trofei e premi ai tiri a segno e alle gare di provincia. Avrei voluto io la sua mira, e forse è meglio che non ce l’abbia. Ma da mesi aveva smesso di sparare.
Al tiro a segno c’era solo il titolare. Ci fermammo sotto la tettoia. L’uomo stava leggendo il giornale dietro il bancone. Era un tipo borioso con dei baffetti che non gli donavano, eppure erano i suoi.
La pioggia crebbe di intensità. Faceva caldo. Era piacevole il rumore della gocce d’acqua che cadevano e si spandevano sulla tettoia. Pagai per tre cartucce. Camilla prese il fucile e mirò al bersaglio sulla parete, un disco bianco e viola. Colpendo il centro viola avevamo diritto a un premio, colpendo il cerchio bianco avevamo due cartucce, una sola colpendo il cerchio viola, il più esterno. Il resto della parete era rivestita da un lenzuolo verde sbiadito e sforacchiato. Camilla sparò sul lenzuolo. Anch’io sparai sul lenzuolo, ma non troppo lontano dal bersaglio. Il fucile era truccato, il proiettile deviava verso il basso. Tirò Livia, e prese il cerchio viola. Fissai con soddisfazione il proprietario, che mi parve antipatico. Lasciò la sedia e il giornale, ci portò la cartuccia vinta.
«Continua tu», dissi a Livia.
Livia mirò con calma, prese il cerchio viola, si volse verso di me sorridendo e agitando il fucile. Il proiettile deviava per colpa della anomala distribuzione del peso e lei sapeva come risolvere il problema. Il proprietario del tiro a segno ci consegnò la cartuccia vinta. Era già amareggiato per così poco. Io e Camilla dovevamo trattenerci dal ridergli in faccia.
«Siete fradici, dovreste andare a casa ad asciugarvi», l’uomo ci disse gentilmente.
«No, no. Non si preoccupi», risposi io con altrettanta cortesia. Ero sicuro che si stesse preoccupando di perdere uno dei suoi premi, non della nostra salute.
Livia mirò, sparò, colpì il centro.
«Fortuna», l’uomo si limitò a dire a bassa voce con un ghigno altezzoso, sfilò una scatolina dallo scaffale e la porse a Livia. Dentro la scatolina c’era un piccolo portafoto che valeva ben poco. Comprai altre due cartucce. Livia colpì prima il cerchio viola, poi quello bianco. Ora avevamo tre cartucce. L’uomo del tiro a segno sembrava rassegnato a doverci sopportare per molto.
«Aspetta», dissi a Livia poco prima che lei prendesse la mira. «Colpisci sempre il cerchio bianco», le sussurrai all’orecchio.
Livia mi guardò stupita. Poi capì e sorrise. Sparò al cerchio bianco. Lo colpì per tre volte di fila. Ora avevamo sei cartucce. Livia si stava prendendo gioco del proprietario del tiro a segno e dei suoi miseri premi. Un colpo sul cerchio viola, poi ancora il cerchio bianco per due volte: otto cartucce. Per Livia era ormai facile sparare a quel cerchio bianco. Vinta la decima cartuccia, posò il fucile sul bancone e disse che ora dovevamo sparare noi. Cinque colpi per me e cinque per Camilla. Io colpii il cerchio viola e quello bianco, Camilla soltanto il cerchio viola.
Pioveva forte ma volevamo lasciare il tiro a segno con dentro il proprietario, le cartucce, i cerchi, i premi. Attraversammo la strada del lungomare. Tenevo l’ombrello per Livia e Camilla bagnandomi io.
La mole del faro ci protesse dalla pioggia che cadeva obliqua. Camilla provò a spingere la porta ma era chiusa. Io ero già zuppo d’acqua. Solo i piedi avevo asciutti grazie agli stivali di gomma.
«Perché non ti sei coperto?», Livia mi domandò, scherzosa.
«Venite da me, vi darò vestiti asciutti», Camilla disse.
«A me non servono vestiti asciutti ma vengo con piacere»
«A me serviranno», dissi.
Le ruote lucide dell’automobile che stava passando catturarono per un momento la nostra attenzione.
«Dovresti ricominciare a fare le gare di tiro», dissi a Livia.
«Forse hai ragione», lei rispose, e cacciò dalla tasca il portafoto vinto.
«Cosa ci metterai?», Camilla domandò.
«Non so»
L’asfalto sotto di noi era scuro, umido. L’acqua del mare e l’acqua della pioggia formavano un’aria vaporizzata dal gusto ferroso.
«Se continuerà così, domani non potrò pescare», dissi piano.
«Come?», domandò Livia, ma forse era Camilla. Pensai che di spalle non era facile distinguere le loro voci.
«Il mare», mi limitai a rispondere.
«Ci buscheremo un raffreddore», Livia disse.
«Io di sicuro»
«Venite da me», Camilla disse.
Livia e Camilla mi precedevano, le coprivo col mio ombrello. Io non ero coperto, volevo sentire addosso l’acqua della pioggia, mi credevo forte.
Camilla aprì la portafinestra che dava nel giardino. Entrammo nella cucina, stretta e lunga, mobili pensili, un lavandino, il forno, la credenza, il salone buio oltre un arco.
«Mio padre è fuori per affari», Camilla disse.
«Che affari?», Livia domandò.
«Benzina, come sempre»
Feci scivolare la spigola sul gocciolatoio d’acciaio del lavandino.
«Non so se mi va», Camilla disse.
«La lascio per tuo padre. Torna per cena?»
«Sì»
«A lui piacciono i pesci»
Seguimmo Camilla al piano di sopra. Mi aprì la porta del bagno e mi diede un telo abbastanza grande, poi mi portò i vestiti di quando ero stato via con lei.
«Io e Livia ti aspettiamo in camera mia», Camilla disse.
«Hai conservato la valigia», dissi sbottonando la camicia a quadri biancorossi che odorava di naftalina.
«È nel mio armadio. Ci servirà quando scapperemo insieme», disse. Mi porse il pantalone che reggeva sul braccio e tornò da Livia.
Poggiai i vestiti bagnati sul termosifone, mi feci la doccia, sotto l’acqua pulita e calda non pensai al faro, alla pesca, al tiro a segno, pensai al salone buio sotto di me, buio a causa della pioggia e a causa dell’assenza del signor Umberti, immaginai Camilla che esplorava il salone lasciato al buio e quindi diverso, insolito, magari pericoloso, esplorare è un po’ inciampare, inciampare nei mobili del salone per scoprire dettagli mai visti tra cose già viste, la torcia elettrica nel buio mostrava un salone diverso, non c’era bisogno di credere il divano un sarcofago da aprire con cautela cuscino dopo cuscino, la gamba scalfita di un mobile un cartiglio da decifrare con falsa destrezza, il metronomo fermo la cuspide di una piramide sepolta dalla sabbia, ossia dalla polvere.
Asciugato, rivestito, raggiunsi Camilla e Livia, ricevetti complimenti scherzosi, il mio aspetto non più reale ma alterato da parole gentili per scherzo, parole affettuose.
«Di cosa avete parlato?», domandai.
«Di te e di Camilla, del petrolio»
«Di me?»
«Spiegavo a Livia della tua valigia»
Guardai attraverso la finestra la pioggia intensa e il mare mosso. Pensai che Camilla avesse fatto bene a seguirmi sugli scogli, ora sarei ancora là, solo, a rischiare.
«È stato un bel viaggio», dissi.
«Il prossimo sarà molto più lungo», Camilla disse.
Ritrovai la canna e la borsa accanto alla porta. La canna sulla borsa, la tracolla della borsa aggrovigliata alla canna. Doveva averle sistemate Camilla. Pensai che io le avrei sistemate nello stesso modo e questo mi eccitò.
«Non viaggeremo alla ricerca di un posto migliore. È un bel posto, questo», Camilla disse.
«Viaggiare senza scopo forse non porta a nulla», dissi.
«Scrivetemi tutto quello che vi accadrà. Desidero resoconti quotidiani», disse Livia, seduta e poggiata allo scrittoio.
«Allora il nostro scopo sarà vivere avventure da inserire nei resoconti a te destinati», Camilla disse carezzando la coperta ricamata del letto, una coperta che sembrava il sopra di una torta di panna decorata col cioccolato. Mentre carezzava la coperta Camilla faceva finta di essere imbronciata, era il suo modo di riposare.
La lampada del comodino illuminava debolmente la camera. I mobili erano ai lati delle due finestre, una sul mare, una sulla città. La parete bassa e la parete adiacente al bagno erano ricoperte di quadretti e mensole per libri e oggetti.
«Lo volevi tu il pesce?», domandai a Livia.
«No, non preoccuparti», lei disse.
Livia era ricca, aveva tanta roba da mangiare, viveva in una casa moderna. A me piaceva di più la casa di Camilla, che sembrava una casa di pescatori.
Sedei sullo scrocchiante pavimento di legno, vicino al letto.
«Oltre che di me avete parlato di petrolio?», domandai.
«Camilla ha detto che qui sotto c’è il petrolio»
«C’è il petrolio?»
«Si potrebbe scavare nel giardino», Camilla disse. «Sarebbe bello avere un pozzo da dove esce il petrolio, potrei vedere dalla finestra il petrolio che zampilla. Ma non conviene estrarlo, è poco e in profondità. Già lo sapevano, all’agenzia»
Un tuono rimbombò forte.
«Non hai paura a stare sotto un tetto di legno durante un temporale?», Livia domandò a Camilla.
«Sono abituata. Sapete, nella mia camera non ho mai fatto entrare nessuno, oltre voi due. Prima era di mia madre, ma da quando ci sono io è così»
Camilla si voltò verso la finestra sul mare.
«Ogni persona dovrebbe avere un luogo privato», lei disse. «Una camera, oppure un pezzo di terra da conquistare, oppure un luogo abbandonato da violare, o una scatola. Sì, una scatola, una scatola nella quale fingere di poter entrare, un luogo nel quale mettere la testa e le braccia, solo la testa e le braccia, un luogo riempito di cose, cose private, ritrovare le nostre cose private, toccarle, mischiarle, decidere quale cosa merita di essere privata e quale no, la proprietà privata, la proprietà a tempo, finché sei vivo o finché ce l’hai, non più ore, giorni, mesi, anni ma scatole, camere, castelli, territori»
«Gli scogli davanti al faro, dove pesco io», dissi. «È quello il mio luogo privato. Ci andiamo solo io e Camilla»
«E tu ce l’hai un tuo posto privato?», Camilla domandò a Livia.
Livia sorride e scosse la testa.
«No. Non come lo intendete voi», lei disse.
Camilla le carezzò i capelli biondi, le promise che le avremmo trovato un luogo privato piccolo e accogliente, poi riprese il racconto della mongolfiera, una variante del racconto in mongolfiera. La mongolfiera, nel nuovo racconto, era in camera sua. Come uno sciocco la cercai con gli occhi, come uno sciocco mi meravigliai che non ci fosse. È in cantina, disse Camilla. Nel nuovo racconto Livia era nella cesta della mongolfiera, la cesta era nella camera, la cesta era una enclave di Livia nella camera di Camilla.
Livia, un gatto in una cesta, la stavo immaginando, stavo sostituendo Livia con il suo gatto, il gatto di Livia, uscito dal mio ricordo per entrare nel racconto di Camilla.
Livia e il suo gatto si somigliavano, non è possibile ma si somigliavano.
Camilla mi guardò facendomi sentire colpevole di aver corrotto il suo racconto con il mio ricordo, colpevole di aver confuso come in un sogno Livia con il suo gatto, colpevole, ispirandomi all’antico culto egizio, perfino di idolatria.
«Il gatto», mi scappò, sussurrato.
«Cosa?»
Un lampo ci illuminò. Poi sentimmo il rombo del tuono. Camilla tornò sul letto.
Livia osservava i fiori violacei che spuntavano dal piccolo vaso sullo scrittoio. Dopo aver toccato lo stelo più lungo degli altri, uno stelo che non si mosse neppure, il tocco era stato molto leggero oppure lo stelo era ancora turgido e forte, Livia accostò il volto ai fiori.
«Li ho colti al municipio», Camilla le disse.
Sedei sul bordo del letto opposto a quello dove stava Camilla.
«Qui si avverte il rumore del mare come sulla spiaggia», dissi.
«Perché è agitato»
«Non solo ora. Quando vengo lo sento sempre»
«Io oramai me ne accorgo solo quando è agitato»
«Peccato»
Camilla si sdraiò sul letto, poggiò la testa sul cuscino.
«Mi è venuta voglia di dormire», lei disse, e chiuse gli occhi come una sorvegliante assonnata.
Livia mi sorrise. Non parlammo, lo scherzo di sparire ci tentava, avremmo anche voluto vedere come avrebbe reagito Camilla non trovandoci con lei. Questo avevamo architettato a gesti. Camilla aveva gli occhi chiusi e respirava come noi. Attesi. Respirava sempre come noi, più serena di noi, come chi dorme. Mi rivolsi a Livia, lei rispose con un gesto che non interpretai. Forse voleva dirmi qualcosa di complesso. Livia si fece seria, irritata perché non l’avevo assecondata. Io volevo soltanto provocare la reazione di Camilla, non scoprire le intenzioni segrete di Livia. Mi alzai dal letto lentamente, cauto, evitando sobbalzi, ignorando gli ultimi cenni di Livia, ma, appena fui in piedi, Camilla si destò.
«Dove vai?», Camilla mi domandò.
Non risposi.
«Pensavamo che stessi dormendo», Livia disse.
«Non dormivo. Mi sentivo stanca. Ora non lo sono più»
Camilla mi afferrò il braccio e disse: «però se uno dorme può sognare»
«È bello ricordare un sogno piacevole. Purtroppo non ne ricordo quasi mai, una volta sveglia», Livia disse.
«È un peccato. Basterebbe un bel sogno a settimana, poi li ricordi per sempre», Camilla disse.
«Hai fatto un bel sogno, ultimamente?», Livia le domandò.
«Sì»
«Raccontacelo»
«Si raccontano i sogni?», Camilla domandò.
Mugugnai affermativo.
«Va bene. Ho sognato che ero tornata in città col treno. Uscita dalla stazione, spunta un ragazzino da dietro una palma. Mi fermo a guardarlo. È così carino. Ha un volto serio, però. Mi dice di essere mio figlio. Io mi stupisco. Non sono sconvolta, sono solo stupita. Lo prendo per la mano e lo porto sulla spiaggia. Il mare è calmo. C’è il Sole, fa caldo. È un giorno d’estate. Parliamo un po’, non ricordo di cosa. Ricordo che avevo accettato con naturalezza l’idea che quel ragazzino fosse mio figlio. Abbiamo giocato sulla spiaggia. Poi mi sono svegliata»
«Bello»
«Che ha di sorprendente?», domandai.
«Non puoi capire», Livia mi disse.
«Non è solo per la vicenda. Anche per quella, ma è stato un bel sogno soprattutto per il sentimento che provavo», Camilla disse.
«Ti piacerebbe avere un figlio?»
«Non so. Ma nel sogno ero contenta»
«A me piacerebbe averne uno», si confidò Livia.
«E da chi?»
«Non c’è nessuno, in questo momento, che mi piace a tal punto»
«Non preoccuparti già ora di questo», dissi.
«Non preoccuparti? Sei matto? Deve preoccuparsi», Camilla disse.
«Tu te ne preoccupi?»
«Io sì. Vuoi sapere?»
«No»
«Tanto non te lo confidavo», Camilla mi disse con finta scontrosità. Andò alla finestra.
La raggiunsi. Tuonava sul mare. Il faro era stato acceso. Livia venne verso di noi poggiandosi al suo bastone.
«Devo pregare per i marinai che in questo momento stanno sul mare», Livia disse.
«Ci sanno stare», dissi.
«Potrebbe esserci qualche giovane marinaio ancora poco esperto, su quelle onde»
Livia si strinse a Camilla. Camilla iniziò a raccontare una storia, prima per allietare Livia, poi per allietare anche me. Raccontò di quando venne arrestata. In cella conobbe un fisico che era lì per non aver voluto collaborare alla progettazione di una centrale nucleare. Il fisico alternava frasi di cortesia a formule matematiche, confidava nella memoria di Camilla perché le sue formule potessero uscire di prigione. L’arresto di Camilla non era una novità per me ma, ogni volta che lei ne parlava, il suo compagno di cella era diverso. Mi piaceva pensare che Camilla non si accorgesse di questi scambi di persona. La cella era stata, probabilmente, solo una sala d’attesa dove Camilla si era recata per il visto, durante un suo viaggio. Ogni volta sceglieva, senza accorgersene, una delle persone in sala e le attribuiva, senza accorgersene, una certa identità. Avevo una domanda per Camilla, una domanda che non riguardava il suo racconto. Dopotutto, anche il suo racconto non riguardava il mare, il temporale, la sua camera, noi tre. Volevo domandarle che cos’era quel nuovo oggetto appeso alla parete con due fili di spago. Raggiunsi la parete e attesi la fine del suo racconto.
«Scarlatta», lessi sul legno ricurvo e scorticato. La scritta era in rosso.
«È il nome della barca», Camilla disse.
«Dove lo hai preso?», le domandai.
«Me lo hanno dato»
«Chi?»
«Uno di passaggio»
«Di passaggio?»
«Ma sì. Al distributore. Ieri sera, prima di chiudere. Gli mancava poco per saldare il conto della benzina e ci ha dato quello. Era un tizio su una vecchia Fiat con rimorchio. Sopra il rimorchio c’era una barca a pezzi, un pezzo era il nome»
«Non era mica dipinta di bianco con una striscia rossa?»
«Sì, era proprio bianca con la striscia rossa. L’hai vista?»
«Certo che l’ho vista. Dov’è andato quel tizio?»
«Che ne so?»
«In quale direzione»
«Verso sud. Perché?»
«Stamattina abbiamo trovato la barca sulla spiaggia»
«Magari era un’altra barca»
«Impossibile»
«Perché?»
«Vieni a vederla quando spiove»
«Quando spiove. Non ci sarà più se l’avete lasciata sulla spiaggia», Camilla disse.
«I pescatori hanno teso una cima dallo scalmo alla ringhiera del lungomare»
«Allora c’è qualche speranza. Comunque è un bel pezzo, per la mia collezione»
«Scarlatta», Livia ripeté.
«Bel nome. Lo metterei anche a mia figlia», Camilla disse.
«Non ha l’aspetto di una cosa rimasta troppo tempo in acqua», dissi. «Sembra che abbia impattato»
«La barca sul rimorchio era un relitto»
«Non ti ha detto niente?»
«Mi ha detto che era il nome della sua barca ed è andato via, avrà lasciato la barca in mare»
«Le correnti avranno trascinato la barca sulla spiaggia durante la notte», dissi credendo di aver capito come era andata.
«Quell’uomo si è disfatto della sua vecchia barca», Camilla disse. «Ora ce l’ho io, il nome della sua barca»
«Era di qui o forestiero?», Livia domandò.
«Non lo avevo mai visto»
Il rombo di un tuono ci scosse, era da un po’ che non facevamo più caso ai tuoni, distratti dalla barca, dal suo nome, dal suo precedente proprietario. Ci guardammo, guardai Livia e poi Camilla, ammirai il volto sereno di Livia, il suo volto reclinato sulla spalla, guardai Camilla, sorrideva, sapeva qualcosa che io ancora non sapevo, voleva parlarmi.
«Dovresti farmi una cortesia», Camilla mi disse, e prese un piccolo fagotto di carta marrone dal cassetto dello scrittoio. «Questo pacco è per mia zia, è molto delicato, deve averlo entro il fine settimana. Non potresti portarlo tu domattina?»
«Zia Amelia? È da tanto che non ci vai. Perché non vieni con me?»
«Lo sai perché»
«Gattopardo», dissi.
«Ho paura, sì. Solo mia zia ha in casa una lince»
«Se ce l’ha vuol dire che non è pericolosa», Livia disse.
«Lo so, ne abbiamo parlato spesso. Ma non ci riesco»
«Io sì. Andrò io», dissi.
«Grazie»
«Dobbiamo curare la tua paura, uno di questi giorni», Livia disse.
«Mi curerete. Ma domani mattina porta questo pacchetto», Camilla mi disse.
«Che cosa contiene?», Livia domandò.
«Un ingrediente»
«Un ingrediente?»
«Un ingrediente. È per un dolce che fa mia zia, per le amiche che la vanno a trovare»
«Che ingrediente è?», Livia domandò.
«Farina di cocco»
«Devo portare un pacchetto di farina?»
«Non è normale farina. È di cocco. Pare che conoscano soltanto i pesci, qui da noi»
Livia rise.
«Ma i pesci, da noi, li conoscono di tutti i tipi», dissi.
«Le noci di cocco sono frutti di costa. Tranne qui»
«Frutta esotica»
«Ci vengono bei dolci», Livia disse.
«È vero. Dunque, me lo fai questo piacere?»
«Te lo faccio»
«Se piove?»
«Oggi ne ho presa parecchia, di acqua»
«Non è solo la pioggia. La strada è brutta»
«Andrò piano»
«Stai attento»
«Al tuo pacco?»
«No, a te», Camilla disse, e mi baciò. «Ma non voglio rischiare con una lince. Rischia tu»
«A me piace rischiare», dissi.
Quando spiovve accompagnai Livia a casa sua.
La mattina indossai l’impermeabile, misi il pacco della farina di cocco in una busta di plastica, la legai al centro del manubrio della mia bicicletta e partii. Il padre di Camilla era alla pompa di benzina ma non mi vide. Superato il faro cominciò a piovere.
Raggiunsi il tiro a segno, poi la caserma razionalista della guardia costiera, poi il bivio. A sinistra il lungomare, a destra la pineta. La zia di Camilla abitava in una villa nella pineta.
I pini mi avrebbero riparato dalla pioggia, ma prima avrei dovuto percorrere un tratto di campagna. La strada tortuosa era infangata dalla terra scesa dagli orti, le ruote stentavano a girare e in certi punti dovetti proseguire a piedi tirandomi dietro la bicicletta. Quando la pioggia divenne un acquazzone mi fermai a riposare sotto un platano. Camminare o pedalare nel fango stanca.
Osservai l’acqua che stagnava in una lunga pozzanghera nel fango, le gocce di pioggia vibravano dentro la pozzanghera.
Portare un pacco di farina sotto il diluvio è davvero stupido, pensai. E perché sento l’umido addosso? Ieri non avevo l’impermeabile e non sentivo l’umido addosso. No, non c’entra l’impermeabile, c’entra che sono venuto senza compagnia. Con Camilla o con Livia mi sarei divertito.
Aspettai ancora, poi ripresi a pedalare. Era più sicuro procedere a piedi, ma ci avrei messo troppo tempo, a qualcuno sarebbe potuto venire in mente di cercarmi. Speravo di arrivare presto alla pineta. Sotto i pini avrei trovato una strada un po’ più asciutta. A fatica pedalavo e sterzavo il manubrio, avrei potuto scivolare in ogni momento. Alcuni fulmini caddero nelle vicinanze. Non avevo mai sentito di un ciclista colpito da un fulmine.
Chissà se il mare è riuscita a riprendersela, pensavo alla barca sulla spiaggia. Appena torno vado a controllare. Forse Camilla ci è già andata, incuriosita di vedere la barca della quale tiene il nome appeso al muro. È uno strano modo di disfarsi di un nome, quello di darlo in cambio di benzina. Il proprietario della barca doveva essere proprio disperato, perché quel nome è la prova di un reato, si è liberato di un vecchio oggetto buttandolo in mare. Ma la barca non è un oggetto. In fondo, tutte le barche dovrebbero esser lasciate morire in mare. Non era sbagliato lasciarla in mare. Ma poteva almeno affondarla. Il mare non era agitato, prima che venisse la tempesta. Il mare l’ha riportata a riva.
Le ruote della bicicletta slittarono, frenai in tempo per non sbattere contro uno dei primi pini. Mi chiesi se Camilla si fosse inventata la storia del distributore, poteva essere una delle sue fantasticherie.
Nella pineta mi colpivano meno gocce di pioggia. La strada era bagnata, non fangosa. La pineta si trovava al livello della strada, invece la campagna la prevaricava infangandola. Nella pineta c’erano meno luce e più umidità, il rumore della pioggia era sottile, variegato, l’acqua incontrava numerosi ostacoli prima di cadere a terra. Il rombo dei tuoni era attutito e non capivo se provenisse dal cielo o dalla terra o dalla vegetazione. Mi poggiai al tronco di un pino a ridosso della strada. Avevo mal di gola. Era l’aria fredda. Non sembrava aprile. Il pacco era ancora legato sul manubrio. Ripartii.
Una lince in casa, pensai. Tenere una lince in casa. Si saranno influenzate a vicenda, la signora Amelia e la lince, la convivenza avrà cambiato il loro modo di agire. Se commetteranno stranezze vorrà dire che si sono influenzate a vicenda, se commetteranno le stesse stranezze più volte vorrà dire che sono cambiate.
Cadde una pigna avanti a me, e la evitai. Era la prima pigna che vedevo cadere da quando ero entrato nella pineta. Altre pigne le avevo trovate sulla strada.
Deve essere davvero il volere del destino se ti cade una pigna in testa, pensai, ma se non ti cade in testa dubiti dell’esattezza del destino.
Un fulmine illuminò la strada. Sentii un rombo potente, vicino. I pini tremarono, ma per il vento.
La villa era là, dopo una lunga curva. Non la vedevo ancora ma era là. Riconobbi il rettilineo che terminava con quella curva e aumentai la velocità. Sentii un rumore secco, immaginai fosse un’altra pigna caduta in strada. Presi la curva, un ramo cadde avanti a me, sulla strada, sterzai per evitarlo e mi infilai tra due pini. Tornato in strada scorsi la villa della signora Amelia.
Mancavo da tre mesi dalla villa, da quando c’ero stato con Livia. Mi ci portò lei in tassì. Camilla sarebbe stata in grado di venire in bicicletta ma temeva che Gattopardo l’avrebbe potuta assalire vedendola arrivare o inseguire quando saremmo ripartiti.
Che cosa rappresentava la lince per la zia di Camilla? Suo marito Cristoforo tornò da un safari in Africa portando via con sé, chissà come, il cucciolo. Poi egli morì, credo addirittura di malaria, e Gattopardo rimase. Il marito della signora Amelia era un gran cacciatore ma aveva salvato il cucciolo di lince, perché i cacciatori uccidono gli animali adulti e qualche volta allevano i piccoli. Gattopardo doveva essere un monito. Quale monito, Cristoforo non ebbe l’occasione di dircelo.
Imboccai il sentiero in selciato che scricchiolava sotto le ruote della bicicletta, poi scesi e proseguii a piedi nella piazzola pavimentata a mattoni rossi. La villa, su due piani, in parte rosa e in parte avvolta dall’edera, si ergeva in una radura della pineta. Le persiane delle finestre erano spalancate. Alla signora Amelia piaceva la luce. Nessun recinto o cancello, lei sapeva come difendersi col fucile del marito, ma questa era una mia caricatura. E poi c’era Gattopardo. Poggiai la bicicletta al muro della casa e suonai il campanello. Mi aprì la signora Amelia. Accanto a lei, in basso, emergendo dall’interno scuro apparve la lince grigiobianca, silenziosa, elegante, gli occhi su di me, un leggero movimento della coda e rimase a fissarmi. Ricordava che ero suo amico, ma con un felino bisogna sempre dimostrarsi onesti, corretti, intuitivi, come sono loro.
«È una bella sorpresa, questa», la signora Amelia disse.
Entrai tenendo il pacco in una mano.
«Camilla non ha voluto farti compagnia?»
«Gattopardo»
«Lo so», la signora disse dispiaciuta.
«Questo è per lei», dissi, e porsi il pacco avvolto nella busta di plastica.
«Grazie»
Tolsi l’impermeabile e l’appesi all’attaccapanni.
«È piovuto molto forte. Sei bagnato», la signora Amelia disse, lisciando il pacco asciutto. La busta, patinata dall’acqua, l’aveva spinta nel portaombrelli.
Come la nipote il giorno prima, mi fece entrare nel bagno, un bagno dalle maioliche bordò antiche e svenate. Sciacquai le mani e la faccia nell’antico lavandino di marmo, l’acqua usciva dalla bocca di un drago d’ottone. Usai il vecchio asciugacapelli per il pantalone e la camicia, il rumore profondo e leggero, l’aria emessa odorava di bruciato.
Andai in cucina. Le ante della credenza spalancate, il tavolo pieno di pentole, piatti, ciotole, attrezzi, macchinari metallici.
«Sto sistemando», la signora Amelia spiegò.
Osservai incuriosito uno strumento dall’aspetto massiccio, in acciaio cromato, che serviva per spianare e tagliare la pasta. Il pacco di farina di cocco era sul mobiletto accanto al forno a gas.
«Che ci farà con la farina di cocco?»
«Un ciambellone. Sabato avrò ospiti», lei disse, e sembrava che volesse scusarsi di avermi fatto portare il pacco di farina sotto la pioggia. Non sapeva che ero laggiù soltanto per me, per sfidare la strada di campagna, la pineta, la pioggia.
«Camilla mi telefona spesso. È cara anche se teme Gattopardo»
«È un bellissimo animale», dissi mentre la lince mi controllava da sopra il cuscino blu accanto al camino.
«Ieri si è scatenato»
«Chi?»
«Il tempo»
«Sì»
«Hai visto?», la signora Amelia domandò poggiando sul tavolo un’insalatiera decorata a greche irregolari.
«Ero sulla spiaggia assieme a Camilla e Livia»
«Ah, Livia. Cara ragazza»
«Ci aveva portato dei biscotti. Li abbiamo mangiati ed è venuto a piovere»
«È venuto a scompigliare»
«Ha causato danni da voi?»
«I danni la mia casa li subisce solo dal tempo. Dall’altro tempo, non quello atmosferico»
La signora Amelia sfilò dalla credenza i due cassetti e li portò sul tavolo. Le domandai se potevo fare qualcosa, mi disse di svuotare i due cassetti, che avrebbe pulito. Li svuotai, e mi capitò tra le mani un deteriorato plico rosa che conteneva le ricette di una intera vita. Pensai che sarebbe piaciuto a Camilla. Promisi che presto le avrei portato la nipote.
«Assomiglia sempre alla mia vecchia foto?», la signora Amelia domandò. Si riferiva alla fotografia in bianco e nero in sala da pranzo che la ritraeva da giovane. Era molto bella, da giovane.
«Sempre, sì»
«La trovi adatta per te?»
«Per cosa?»
La signora Amelia sorrise.
«Mi ha chiesto di domandartelo. Non dirglielo, però»
«No»
«Ti piace?»
«È a posto», dissi senza senso, con imbarazzo.
«È fatta apposta per te», lei completò la mia frase dandole senso.
La signora Amelia pulì con un panno l’interno della credenza, i ripiani di legno, i vetri degli sportelli superiori, poi rimise tutto quello che ci stava prima. Era come vedere un film, o come vedere la costruzione di un edificio, un cantiere, che poi è la stessa cosa. Infilai i cassetti che avevo riempito.
«Mi piacerebbe avere una foto di Camilla com’è adesso», lei disse.
«Gliela porteremo»
Sedé per riposare.
«Anzi, vorrei una foto con tutti e due insieme», disse.
«La faremo prima di venire»
«La sua ultima foto ha già un anno»
«Dove la tiene?»
«Nella camera da letto. Nel salone non c’è più spazio»
«È una bella casa»
«È un miscuglio di cose. È un magazzino, più che una casa»
«A me piace»
Rise.
«Hai gli stessi gusti di mio marito», lei disse, e si fece seria pensando al marito morto. «Che idiota», disse sottovoce del marito, ma si sentiva che gli voleva bene. «Il salone è pieno dei suoi trofei di caccia, che idiota», disse ancora.
Gattopardo venne vicino a me, voleva essere carezzato. Carezzai il pelo del suo dorso, caldo e soffice, strusciò accanto alle mie gambe e tornò sul cuscino. Sembrava un gatto, ma per me era più simile a una tigre che a un gatto. Aveva baffi neri e lunghi, all’ingiù, e ciuffi sulle orecchie. Ci seguì quando la signora Amelia mi mostrò la casa, che già conoscevo ma che non mi stancavo mai di perlustrare. C’erano bei cimeli.
Il cielo era nuvoloso ma non pioveva. Montai sulla bicicletta, salutai la signora Amelia e Gattopardo, partii. Sulla strada bagnata della pineta c’erano aghi, rami e pigne. I pini gocciolavano. Sentivo l’odore vivo della resina, prima coperto dall’odore umido e pesante della pioggia. Pensavo alla signora Amelia e a Camilla, pensavo che Camilla avrebbe fatto la fine della signora Amelia.
Ma che fine è? Non è una brutta fine vivere con una bella lince in una bella villa, pensai. E il marito morto per la caccia grossa? Se Camilla diventa come sua zia, io sarò il marito morto a causa della caccia grossa e dei safari. E allora? Solo lui può morire così? Se deve succedere anche a me, succederà anche a me e basta.
Vidi uno scoiattolo traversare la strada veloce e agile. L’agilità dello scoiattolo rievocò in me l’imprevedibilità di Gattopardo, la sua coda leggera e sinuosa, il suo sguardo che seguiva lo sguardo degli ospiti.
Prenderò Camilla con la forza e la porterò da sua zia, pensai. Se Gattopardo farà del male a Camilla lo ucciderò. Ma Camilla deve venire. Magari in tassì. La addormenterò con qualche sostanza, la caricherò sul tassì, mi inventerò una scusa per l’autista, deciderò cosa fare con sua zia e con Gattopardo.
Stavo andando troppo veloce sulla strada bagnata e rallentai.
Camilla mi vuole veramente bene, pensai. Ma è esigente, mi mette alla prova. Anche io la metto alla prova, ma è diverso, lei è più astuta. Io non userò mai l’astuzia con lei.
Percorrendo la strada di campagna ritrovai il fango e le pozzanghere. Un vecchio signore in doppiopetto, i bottoni dorati, la cravatta a righe verdi e nere, raccoglieva lumache sul bordo della strada, tra l’erba. Reggeva un sacco di tela con la mano.
Camilla stava formando una torre con le latte dell’olio. Ci salutammo. Volevo chiederle molte cose, sulla zia, su di lei, su di noi. Non lo feci e tornai a casa.
Nel pomeriggio andai sulla spiaggia. Mare mosso, nuvole scure, vento freddo. Il relitto della barca in secca era ancora legato alla ringhiera del lungomare. Pescai.
Volevo sostituire il cucchiaino, mi voltai indietro, verso la cassetta dell’attrezzatura, Camilla era seduta a bordo della barca, mi sorrise. Sedei accanto a lei.
Da uno squarcio tra le nuvole cadeva obliqua la luce del Sole su una porzione di mare e la faceva brillare.
«La prossima volta verrai anche tu»
«Verrò», Camilla disse, rassegnata a un evento che non è possibile evitare. «Come sta la zia?»
«Ci hai parlato al telefono, dovresti saperlo»
«Non l’ho vista»
«Sta bene»
Pensai che anche la signora Amelia era rassegnata.
«Fa caldo da un mese. Avevo già dimenticato come fosse il freddo», Camilla mi disse.
«Succede ogni anno così, d’inverno ci si dimentica del caldo, d’estate ci si dimentica del freddo. Ogni volta vorresti che così non fosse perché è un pensiero stupido, ma è così. Questo freddo, comunque, non è il freddo dell’inverno»
«Che hai preso?», Camilla guardava il retino chiuso e aggrovigliato.
«Cefali. Ne vuoi?»
«No»
«Hai assaggiato la mia spigola?»
«Sì»
«Com’era?»
«Buona, ma preferisco il salmone. Non il salmone affumicato, sto parlando del salmone a tranci. Mangiavo tranci di salmone arrosto, quando ero in Alasca»
«Com’è il mare d’Alasca?»
«Agitato. Scurissimo. Ma anche calmo e chiaro. I gabbiani ci si tuffano dentro e ci sono le orche che spuntano dal mare e inseguono i delfini»
«Che fanno i delfini?», domandai.
«Fuggono dalle orche»
«E che altro? Che altro fanno i delfini?»
Camilla non rispose. Mi parve turbata, non sapeva cosa dire sui delfini, che non aveva mai visto, né sapeva immaginare qualcosa di interessante su di loro, né voleva citare parole di altri per rispondermi. Avevo capito tutto questo dal suo sguardo e pensai di essere stato crudele a chiederle di parlarmi dei delfini che non aveva mai visto. Le carezzai i capelli mossi dal vento del mare.
«Scarlatta», pronunciai come fosse una parola magica.
«Vorrei una figlia con quel nome»
Mi abbassai a raccogliere un sasso e cominciai a tirare in mare i sassi che stavano sulla sabbia, li prendevo attraverso uno degli squarci dello scafo e li tiravo.
«Non ci riuscirai», Camilla disse quando riacquistò la serenità. «Non ci riuscirai a riempire il mare di pietre»
Per un momento avevo creduto che Camilla volesse rimproverarmi per i sassi tirati, che allontanano i pesci. Ripresi la canna.
«Tu non sai pescare, vero?», le domandai già sapendo la risposta.
«No»
«Perché non sai pescare?»
«Ognuno ha le sue manie. Io ho la mia pompa di benzina»
«Quello è un lavoro, non una mania»
«C’è differenza?»
«Mi pare»
Camilla aprì la cassetta dell’attrezzatura e cominciò a rovistare.
«Non vuoi imparare?», le domandai dopo aver lanciato.
«Imparare?»
«A pescare»
«Non ne sarei mai capace»
«Ti insegno io»
«No»
«Perché?»
«Non credo che mi piacerà»
«Che ne sai? Se non ti piace tornerai a frugare là dentro»
Camilla posò la cassetta sulla sabbia e venne da me. Le feci vedere come doveva lanciare. Mi aveva visto tante volte, non capivo perché lanciare le risultasse così difficile. Per poco non mi infilzò con l’amo. Teneva la canna come una bandiera. Era impacciata, nella pesca serve scioltezza e bisogna sapere cosa si sta facendo. Rinunciò e mi passò la canna. Pescai io, e lei mi restò vicina.
(dal libro IL CANTIERE NARRATIVO, edito da SPedizioni)
L’immagine è Magic Lake di Gianluca di Pasquale, ha solo scopo illustrativo e citazione del lavoro artistico, minimaetmoralia non ha fini di lucro.
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