di Ludovico Cantisani
“Medea, Macbeth, il carnefice di san Matteo dipinto da Caravaggio, Don Giovanni, Nikolaj Stavrogin, Humbert Humbert, i corpi cosparsi di sangue e crocefissi nel Teatro delle Orge e dei Misteri di Nitsch, Diabolik, le scene di violenta sottomissione fotografate da Mapplethorpein X Portfolio, le lastre di vetro infrante ai piedi della Torre dei Quadri Cadenti di Kiefer, la comunità di bambini nel Nastro bianco di Haneke, l’Arthur Fleck/Joker folle e derelitto di Phillips: la storia delle arti è ricca di personaggi, figure, performance, oggetti, composizioni musicali e spazi connotati negativamente, o che evocano una violenza primaria, con cui lettori spettatori e visitatori stabiliscono un particolare tipo di relazione empatica, ambivalente e destabilizzante, fatta di attrazione e repulsione allo stesso tempo”. Da questa particolare forma di identificazione prende le mosse Empatia negativa. Il punto di vista del male, il nuovo saggio della collana Agone della Bompiani, diretta da Scurati, firmato a quattro mani da Stefano Ercolino e Massimo Fusillo, che si sono divisi equamente i capitoli.
Attingendo alle più variegate costellazioni dell’immaginario occidentale, da classici come Euripide o Shakespeare fino ad arrivare ad artisti-simbolo del contemporaneo quali Anselm Kiefer, Marina Abramović, il recentemente scomparso Hermann Nitsch e l’artista teatrale belga Milo Rau, Empatia Negativa è un testo brillantemente transdisciplinare che affronta di petto la questione del legame che si crea tra il “fruitore” – lettore, spettatore, visitatore che sia – e i contenuti di un’opera d’arte, indipendentemente dal linguaggio – che può essere di volta in volta teatrale, romanzesco, cinematografico, visivo, performativo, forse anche scultoreo. In un certo senso, Empatia Negativa si collocherebbe all’interno dello scenario regolativo di una “psicoanalisi della creatività” che Freud non volle fondare, ma di cui si trovano tracce lungo tutto il suo pensiero: e tuttora, benché nessuno psicoanalista, psichiatra o neurologo abbia preteso di aver scoperto il segreto unico alla base della creatività umana, non mancano nella cultura contemporanea segnali che sembrano andare nella direzione di una metacomprensione dell’esperienza artistica occidentale.
Ercolino e Fusillo si avviano verso questa indagine ex negativo, prendendo, come dice il sottotitolo del loro volume a due, “il punto di vista del male”. Forse è dai casi estremi, o dai casi sinistri, in cui l’empatia del pubblico non è protesa verso l’eroe, bensì verso l’antieroe, il malvagio, che si può capire di più del meccanismo psicologico e sociologico che vede, di nuovo, i “fruitori”, appassionarsi a una determinata storia, a un determinato film, a una determinata performance o immagine concettuale che pure sembra scuotere ogni convenzione prefissata del vivere civile.
L’esclamazione “beati i popoli che non hanno bisogno di eroi” è una delle frasi più citate e più abusate del Galileo brechtiano, eppure la si potrebbe applicare benissimo ai nostri tempi: in cui il modello di positività coatta e di eroismo apertamente messianico incarnato, al cinema, dai supereroi ha creato un business dell’immaginario capace di sollevare miliardi di euro ogni anno, e di coinvolgere milioni di spettatori in giro per tutto il mondo, Oriente compreso. Eppure, come dimostra il successo di fenomeni narrativi come il film Joker già citato da Ercolino e Fusillo nella prima pagina del loro libro, o anche di Parasite da un altro punto di vista, nemmeno nella nostra società virtualizzatasi e autocostrettasi al culto della positivity a tutto spiano sono mancati segnali che andavano nella direzione opposta: e un film furbo come Joker, giustamente segnalato da Slavoj Zizek con la qualifica paradossale di “film d’autore senza autore”, ha saputo coinvolgere masse di spettatori in uno dei fenomeni più perturbanti dell’immaginario contemporaneo, arrivando a soglie di coinvolgimento che le storie più consolatorie della macchina hollywoodiana neanche si sognano, e finendo per essere adottato, anche, ai più variegati scopi politici, proprio in un momento in cui, si dice, sono venute a mancare le grandi narrazioni.
Lo aveva detto bene, a suo tempo, Roberto Calasso: il “traffico degli archetipi” non si arresterà mai; le ninfe non sono fuggite via, come temeva Eliot, ma si sono reincarnate, in forme a volte grottesche, altre volte paradossali, in mannequins, starlette e ammiccanti pubblicità che promettono il Valhalla al fortunato o alla fortunata che acquisteranno un determinato prodotto. Lady Macbeth, sulla quale Ercolino e Fusillo spendono alcune delle loro pagine migliori, ha appena avuto l’ennesima ipostasi nella macchinosa moglie di un piccolo criminale della mafia pugliese, in un film insolitamente archetipico come Il maledetto di Giulio Base.
Se gli archetipi continuano a riproporsi, a interagire con noi, la forma di empatia negativa che già i Greci avevano provato non può far altro che perpetuarsi, anche adesso che il rituale della narrazione si è banalizzato dalle grandiose scene ateniesi ai piccoli schermi dei nostri laptop e apparecchi tv. I primi capitoli di Empatia Negativa, firmati da Ercolino, si concentrano dapprima su una vera e propria dossografia del concetto stesso di “empatia”, poi su considerazioni di vario tipo, sospese tra il canone della teoria letteraria più classica e dibattiti ancora in corso della neurologia contemporanea, relative a quel curioso fenomeno per cui, sia pure nello spazio istituzionalizzato e “carnevalizzato” della narrativa o dell’arte in genere, si empatizza con chi fa il male, noncuranti di ogni idea di Bene.
La parola poi passa a Fusillo che applica la categoria di empatia negativa a una ridda di nomi che, Euripide, Shakespeare e Macbeth di Verdi a parte, riassumono quanto di meglio il teatro, il cinema, la fotografia e l’arte del Novecento abbiano saputo produrre. Non per nulla, alcune delle pagine più interessanti di Empatia Negativa sono quelle in cui si evidenzia lo stretto legame che sussiste tra le opere di “maestri del negativo” come Anselm Kiefer o Hermann Nitsch, e l’eredità anzitutto psicologica del regime nazista, le macerie visive delle devastazioni provocate dalla seconda, grande guerra – ma notevole è anche l’analisi compiuta da Fusillo su Il nastro bianco, film Palma d’Oro a Cannes diretto peraltro da un regista come Michael Haneke, che nelle sue scelte sulla rappresentabilità della violenza e del male si è sempre rifatto al grande insegnamento dei tragici greci.
Alla fine è sempre quella la scena originaria di ogni riflessione sull’arte, sulla narrazione, sulla rappresentazione della violenza e sulla “psicoanalisi dello spettatore”, per non dire sulla psicoanalisi tout court: l’Atene del V secolo, i suoi palchi all’aperto, la sua commistione, ancora ineludibile, tra teatro e religione, in tragedie che echeggiano di sacrificio. Campionessa di empatia negativa, agli occhi di Fusillo e di Ercolino, non può essere che la Medea di Euripide, evidentemente. “C’è un primo livello quasi meccanico di empatia, che deriva dalla scelta narratologica della prospettiva da cui svolgere il racconto”, rimarca il terzo capitolo del volume, “se racconto una storia dal punto di vista di un criminale, potrebbe prodursi un’adesione anche immediata alle sue azioni, che poi può essere contenuta o repressa. Euripide però fa molto di più: dà uno spazio inedito e molto corposo alla vita interiore di Medea, ai suoi conflitti e alle sue scelte tragiche. E lo fa attraverso una forma che sarà sempre più associata all’empatia, anche negativa: il monologo”.
È attraverso i monologhi che Medea spiega il senso delle sue azioni brutali, è attraverso i monologhi, il potere di un logos mai veramente contraddetto da un interlocutore alla pari, che Medea avvince il suo pubblico e rimane paradossale eroina, vittima che diventa carnefice col benestare del pubblico, caso raro. La conclusione dell’analisi di Fusillo è tanto chiara quanto paradossale: “già nel mito, Medea è una performer”.
Un grande e a suo modo sottovalutato antropologo della letteratura del calibro di René Girard – al quale non per nulla Empatia Negativa fa a volte riferimento – aveva argomentato, nel suo libro d’esordio Menzogna romantica e verità romanzesca, che i grandi romanzi del canone occidentale, e, si potrebbe dire, tutte le grandi opere di narrazione comprendendo così anche teatro e cinema, tracciano l’architettura di una conversione, di un’epifania, dell’emersione di una verità quotidianamente ignorata: Girard si concentrava sulla scoperta di triangolazioni di reciproche influenze mimetiche in materia di desiderio, quest’intuizione si potrebbe estendere al carattere originariamente brutale e sopraffattorio della vita in comune. Empatia Negativa di Ercolino & Fusillo non si limita ad indagare un interessante numero di opere che questa consapevolezza e questa indagine sul male la portano al parossismo; ma, nell’indagare sul legame che noi stessi, in quanto fruitori, avvertiamo nei confronti di chi, sullo schermo, sulla carta, dentro la tela, fa il male, è a sua volta un’epifania di un’oscurità che i lettori-spettatori-ascoltatori stessi, in maniera recondita, portano con sé.
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