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Stendhal racconta una storia di teatro rimasta proverbiale. È il 1822 e a Baltimora, negli Stati Uniti, va in scena una rappresentazione dell’Otello. In sala c’è anche un soldato. Non si trova lì per assistere alla rappresentazione ma per svolgere un servizio di guardia. Ciononostante segue il dramma shakespeariano con partecipazione se è vero che, da quanto ci racconta lo scrittore francese, quando vede il moro stringere il collo della bianca Desdemona il giovane soldato in sala non ci pensa due volte, prende la mira e fa fuoco. Una pallottola vera interrompe la finzione del dramma e l’attore, per fortuna soltanto ferito, non può continuare a recitare. «Non sia mai che in mia presenza un maledetto n*gr* abbia ucciso una donna bianca!», sembra abbia esclamato il giovane (gli asterischi sono miei). Ora, questa storia così paradossale, ma proverbiale per la capacità di affrescare il cortocircuito tra realtà e finzione che è in grado di innescare l’arte teatrale, sembra essersi replicata – pur con le dovute differenze – anche da noi in Italia, nel 2022. Lo spettacolo “Catarina e a beleza de matar fascistas” del regista e drammaturgo portoghese Tiago Rodrigues, programmato prima a Roma e poi a Modena, è stato accolto in entrambe le città da una serie di proteste da parte di esponenti del partito di destra Fratelli d’Italia (anche da parte di esponenti nazionali). L’oggetto del contendere sembrerebbe essere la locuzione “la bellezza di uccidere fascisti” che campeggia nel titolo dell’opera; dico il “titolo” perché è evidente che chi ha ritenuto che lo spettacolo fosse un apologo a favore della violenza ha, con tutta probabilità, tralasciato di vedere lo spettacolo. A ben guardare, infatti, l’oggetto del dramma sta nell’esatto contrario: l’incapacità di giungere a un atto violento, benché compiuto ai danni di una persona che propugna la violenza.

Questo è stato il clima in cui l’opera di Tiago Rodrigues – prossimo direttore del festival di Avignone e tra le firme più interessanti del teatro europeo contemporaneo – è stato accolto in Italia. E e se da un lato può risultare sconfortante per la superficialità (o la strumentalità) con cui vengono accolte opere teatrali di autori di grande caratura internazionale, dall’altro questa reazione fa ben sperare: il teatro è ancora in grado di smuovere le acque – e gli acquitrini – del dibattito politico.

La drammaturgia di Tiago Rodrigues racconta di una famiglia portoghese che, per tradizione, uccide i fascisti. Ogni anno si ritrova in un paese del sud del Portogallo per compiere questa mattanza che assume connotati rituali, pur essendo di fatto un gesto di carattere politico. A scatenare l’avversione verso i fascisti è la violenza subita negli anni Cinquanta da una loro antenata, Catarina Eufémia, durante l’epoca salazarista. A tutti gli effetti, dunque, si tratta di una vendetta che finisce per trasfigurare le persone che la compiono, giacché ogni persona della famiglia, che sia femmina o maschio, si chiama indistintamente Catarina e veste con un’ampia gonna di fattura tradizionale. Somos todas Catarina, si potrebbe dire, perché l’uccisione di un fascista scelto tra i più insidiosi tra gli esponenti politici di estrema destra è un’estensione indefinita della reazione alla violenza subita, che non dovrà ripetersi mai più. Una tradizione che però si interrompe con la più giovane Catarina, che nel presente del dramma deve compiere il suo primo omicidio, ma si rifiuta di farlo. Anche se il fine è giusto, la violenza contro una persona inerme ai suoi occhi non è giustificabile.

Tiago Rodrigues è un autore raffinato e in “Catarina” non mette soltanto in scena un dramma sul dilemma della violenza politica (con un cast di attori portoghesi davvero straordinari – in particolare Isabel Abreu, la madre della giovane Catarina, e Romeu Costa, nei panni del politico fascista – e una scenografia di grande impatto, evocativa e minimale). Ma trasforma quel dramma in un’allegoria dove si incrociano questioni della contemporaneità e si rigetta qualunque semplificazione. Catarina si rifiuta di uccidere un uomo perché, anche se le idee propugnate da quella persona sono riprovevoli, ritiene che la violenza sia ingiusta. Forse a operare questo scollamento dalla tradizione familiare è il tempo intercorso tra la violenza originaria che trasfigura tutti i membri della famiglia – tutti Catarina, tutti in gonna – e il tempo odierno.

Forse la generazione che, anche in Italia, intonava alle manifestazioni slogan come “l’unico fascista buono è il fascista morto” sta lasciando spazio a una radicalità che, per essere tale, non sacrifica i principi della convivenza democratica. Ma anche questa lettura trova la sua contraddizione (e la sua complessità) nella figura della sorella, vegana e convinta difenditrice dei diritti degli animali, che tuttavia non ha remore nello sparare ai fascisti. Allora la questione non è quella di un’attitudine non violenta che ha preso il posto della lotta senza sconti, o non soltanto: Catarina è anche colei che riesce a vedere oltre la rabbia, pur giusta, della propria famiglia, che si traduce in azioni ingiuste. E, per questo, incappa nelle ire della madre. La complessità messa in scena da Rodrigues prende corpo nel finale, quando le conseguenze della scelta di non uccidere l’uomo politico, rimasto in silenzio per tutto il dramma, si traduce in un profluvio di parole di quest’ultimo, oramai non più in pericolo, pronto ad aizzare le folle con parole d’odio e una retorica sovranista, maschilista, xenofoba, omofoba, intransigente. Il monito sembrerebbe dunque indirizzarsi tanto alla violenza come orizzonte politico quanto alla scelta di non agire di fronte alle persone che istigano alla violenza. Se non è giusto uccidere un uomo per le sue idee, non è nemmeno giusto che quelle idee circolino impunemente.

È il paradosso della tolleranza di Popper: non si può essere tollerante con gli intolleranti, altrimenti il cardine della tolleranza su cui poggiano le società democratiche finisce per sgretolarsi sotto i colpi degli intolleranti. E se ciò non si può tradurre in atti di violenza, deve però tradursi in uno sguardo vigile e in una forma di intransigenza democratica che faccia da argine contro le derive autoritarie, omofobe e antidemocratiche.

(Questa storia, per altro, va letta nella cornice di un Paese come il Portogallo, il cui riscatto dalla dittatura è ancora recente – 1974 –; un Paese dove l’estrema destra non ha avuto rappresentati in parlamento fino al 2019, anno in cui venne eletto un solo parlamentare del partito “Chega!” – “Basta!” – ma che nel giro di due anni ha visto salire, e di molto, i consensi verso quel partito; un Paese dove di recente è infuriata per alcuni casi di violenza sulle donne, vittime stigmatizzate dai giudici attraverso richiami a una concezione retrograda dell’onore e senza alcuna valenza giuridica – questione indirettamente evocata nel testo).

Tiago Rodrigues non fa sconti ai propri personaggi, ma non li presenta nemmeno come degli invasati in preda all’odio. Sono piuttosto racchiusi in un paradigma dal quale non sanno o non vogliono uscire. La loro passione antifascista è autentica e, per raccontarla, il regista portoghese si affida alla traduzione di una canzone italiana, “Fischia il vento”. La famiglia di Catarina la canta a piena voce e quando arriva alla strofa dove si dice che “ogni contrada è patria del ribelle”, Rodrigues, per risolvere il fatto che non esiste una parola portoghese che faccia rima con il termine “rebelde”, afferma che proprio questa singolarità della parola è una cosa affascinante, unica, che la rende ancora più speciale (Gad Lerner, in conversazione con lui a Modena, si è sentito però di affermare che la rima italiana con la parola “stelle” – “nella notte lo guidano le stelle” – è altrettanto affascinante).

Quella singolarità dell’essere ribelli è forse il portato più profondo di questo testo: anche criticando la violenza politica, non si può smettere di essere ribelli, intransigenti contro chi è violento e antidemocratico, perché le conseguenze le pagherebbero tutti (come accade anche nello spettacolo). Ripudiare la violenza non è un gesto di disimpegno, ma di impegno doppio: occorre una raddoppiata forma di attenzione, farsi carico del paradosso di Popper: perché la democrazia non è un’acquisizione data per sempre, ma uno spazio di conflitto le cui garanzie, per quanto imperfette, vanno difese ogni giorno.

 

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Autore

grazianograziani@minimaetmoralia.it

Graziano Graziani (Roma, 1978) è scrittore e critico teatrale. Collabora con Radio 3 Rai (Fahrenheit, Tre Soldi) e Rai 5 (Memo). Caporedattore del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha collaborato con Paese Sera, Frigidaire, Il Nuovo Male, Carta e ha scritto per diverse altre testate (Opera Mundi, Lo Straniero, Diario). Ha pubblicato vari saggi di teatro e curato volumi per Editoria&Spettacolo e Titivillus. Ha pubblicato l'opera narrativa Esperia (Gaffi, 2008); una prosa teatralizzata sugli ultimi giorni di vita di Van Gogh dal titolo Il ritratto del dottor Gachet (La Camera Verde, 2009); I sonetti der Corvaccio (La Camera Verde, 2011), una Spoon River in 108 sonetti romaneschi; i reportage narrativi sulla micronazioni Stati d'eccezione. Cosa sono le micronazioni? (Edizioni dell'Asino, Roma, 2012). Cura un blog intitolato anch'esso Stati d'Eccezione.

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