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Pubblichiamo la nota di Lola Larra all’edizione italiana del suo libro “Sprinters”, pubblicato da Edicola Edizioni (che ringraziamo).

di Lola Larra

Ci sono storie che ci perseguitano. Molto prima di averle scritte e persino dopo averle pubblicate. Con questo libro è andata così. Non che sia una cosa strana: è nella natura di Colonia Dignidad intrappolare coloro che vi si avvicinano. Perché Colonia Dignidad è un caso aperto che si rifiuta di essere chiuso, un groviglio che compare e ricompare, di continuo.

Ho cominciato a interessarmi al caso di Colonia Dignidad circa vent’anni fa. Mi sono messa a racimolare informazioni quando ancora abitavo in Spagna, e ho continuato al mio rientro in Cile, senza sapere se avrei scritto una cronaca, un libro di non-fiction, una sceneggiatura per il cinema oppure un romanzo. Alla fine, Sprinters ha un po’ di tutto questo.

Tra i numerosi documenti letti durante le ricerche, ce ne fu uno che mi colpì più degli altri. Il processo a Paul Schäfer, l’oscuro leader della colonia, è un fascicolo di oltre 500 pagine in carattere Courier grandezza 10, interlinea singola. È un susseguirsi di interrogatori e dichiarazioni di vittime, carnefici, testimoni e complici. Pagine che svelano una miriade di storie terrificanti (qualcuna era già comparsa sulla stampa o mi era stata raccontata dai suoi protagonisti, ma la maggior parte mi era sconosciuta), ognuna delle quali potrebbe diventare materiale per un libro, un romanzo, un film.

La lettura di quel processo risvegliò in me una sensazione contraddittoria. Perché volevo scrivere un libro, se quel freddo documento legale era già di per sé un grande romanzo? Quella processione interminabile di dichiarazioni di coloni ed ex coloni, bambini ed ex bambini, contadini, infermiere, dottori, amici ed ex amici di Colonia Dignidad rivelava le storie mai narrate di ciò che era accaduto all’interno e nei dintorni della colonia per più di quattro decenni. Tutte quelle trascrizioni si potevano leggere come un romanzo d’amore e odio, di paura e fervore; o come un romanzo d’avventura, di spionaggio, un giallo, un horror, un’elegia straripante di raptus mistici; ma anche come un racconto epico zeppo di episodi di follia e della più profonda crudeltà. Nell’insieme di tutte quelle voci risiedeva, probabilmente, l’impenetrabile verità di quel villaggio di coloni tedeschi e anche di una buona fetta della storia del Cile. E allora, perché mai raccontare qualcosa in più?

Tuttavia, e per questo dico che fu una sensazione contraddittoria, tra quell’immenso ventaglio di sentieri percorribili, a rapirmi fu un episodio di cui non riuscivo a smettere di seguire le tracce all’interno della matassa giudiziaria: il caso di Hartmut Münch, un bambino morto in circostanze misteriose a metà degli anni Ottanta. Nel parlare della sua morte, nessuno riusciva a mettersi d’accordo: le infermiere che l’avevano assistito in ospedale e i gerarchi spiegavano che era stato un incidente, che era caduto da un pick-up e si era spaccato la testa. I genitori dicevano di non saperne nulla, di non aver nemmeno visto il cadavere. I bambini presenti il giorno della sua morte, gli sprinters di Schäfer, quella corte di adolescenti che il leader utilizzava come fattorini di giorno e che di notte violentava, assicuravano che qualcuno aveva sparato ad Hartmut durante una battuta di caccia. Ma anche le loro versioni erano discordanti. Alcuni giuravano che a sparare fosse stato Schäfer. Altri erano convinti che il colpevole fosse un militare in visita, un uomo chiamato Contreras. Chi di loro mentiva? Chi diceva la verità? Un solo fatto e così tante versioni. La morte di Hartmut Münch era l’emblema dell’impossibilità di raccontare Colonia Dignidad. Ma sembrava anche, paradossalmente, l’unico modo per raccontarla: solo abbracciando questa contraddizione era davvero possibile farlo, forse.

Alla fine del 2007 diedi per concluse le mie ricerche. E a quel punto, mi scoprii incapace di scrivere una sola parola. Dopo tutte le interviste, i viaggi nel sud del Cile, le visite alla colonia stessa, al carcere, i processi seguiti, i documenti letti e classificati; dopo aver disturbato tante persone per ottenere informazioni e averne turbato altrettante, obbligandole a rivivere i brutti ricordi di quel periodo, non ero in grado di mettere nero su bianco niente del materiale che avevo raccolto. Nonostante i tentativi con formati diversi, vari generi e snodi narrativi, strutture, indici e approssimazioni, e nonostante fossi certa che era proprio quella contraddizione a dovermi guidare, ero incapace di affrontare la scrittura di una storia che si trasformava sempre più in qualcosa di inafferrabile e monumentale.

Ma la morte di Hartmut Münch e le sue numerose versioni continuavano ad assillarmi. Quale tra tutte era quella vera? Dove stava la verità? E, soprattutto: si può raccontare, la verità?

Anni dopo, quando ormai avevo accantonato le ricerche, cominciò lentamente a delinearsi una voce. La voce di quella che poi è diventata la protagonista di Sprinters: Lutgarda, una colona che non se n’è mai andata dall’enclave tedesca. Nel 2010, l’anno in cui si svolgono le vicende del romanzo, Lutgarda comincia una strana indagine: vuole chiarire le circostanze della morte di un bambino della colonia che ha perso la vita nel bosco in maniera misteriosa. Il romanzo è, in parte, il racconto di quella ricerca e dei motivi per cui Lutgarda vuole portarla a termine.

Per me era importante che la protagonista fosse una donna, perché mi permetteva di situarmi nel punto di vista degli esseri più invisibili della comunità tedesca. Quando si racconta la Colonia, la narrazione ruota sempre intorno agli uomini, che siano i cattivi (Schäfer e i gerarchi) o le vittime (i bambini abusati, i desaparecidos della dittatura, i coloni fuggiti). Le donne sono sempre state messe in terzo o quarto piano, lasciate in un angolo, trattate “peggio delle galline, perché non fanno nemmeno le uova”, come si diceva nella colonia. E poi, era imprescindibile che fosse qualcuno che abitasse ancora lì. Che parlasse dall’interno. Che avesse deciso di rimanerci pur conoscendo gli orrori che avvenivano lì dentro. E che fosse riuscito a mantenere, nonostante tutto, una luminosità e una ragionevolezza molto speciali.

Grazie alla comparsa di Lutgarda ho capito che, forse, soltanto attraverso il potere che ci dona l’immaginazione avrei potuto empatizzare con persone la cui esperienza di vita, segnata dalla tragedia, era tanto diversa dalla mia. E soltanto tramite un personaggio inventato potevo scrivere la storia che davvero volevo raccontare su Colonia Dignidad. Che non è la storia del “caso” di Colonia Dignidad, delle centinaia di crimini che la circondano, ma una storia più piccola e più intima, che cerca soprattutto di comprendere e raccontare come vedevano il mondo i coloni (e come vedevano noi, quelli che vivevano “fuori”). E anche come queste persone hanno affrontato il processo di ritorno a una società “normale”; come si sono sentite quando hanno visto il mondo quasi per la prima volta e come sopportano (ancora oggi) la vita senza la “sicurezza” e l’“ordine” garantiti dalla colonia. In breve, quali conseguenze porta con sé il fatto di credere in un paradiso in terra, come quello che avevano sognato i primi coloni che sbarcarono in Cile.

All’inizio Lutgarda narrava in prima persona, poi mi sono resa conto di quanto fosse complesso prendere il suo posto, far parlare sempre lei, per tutto il libro. Avevo bisogno di qualcuno che facesse da ponte tra Lutgarda e il lettore, qualcuno in grado di ascoltare e trasmettere la sua voce, il suo sguardo sul mondo. Ho scelto una narratrice che condivide con me diversi episodi biografici, anche se non sono io; una donna disincantata, che l’accompagna nel suo viaggio di malavoglia; una donna molto diversa da lei, ma che al contempo le somiglia.

Questi strumenti della narrativa mi hanno permesso di raccontare una “storia vera” e anche di mettermi davvero nei panni altrui, di capire le motivazioni di un altro così lontano da me come lo erano i coloni. Se il libro dovesse funzionare, anche il lettore forse potrà capire le motivazioni di Lutgarda. E sentire il suo sguardo su di noi, vedere riflessi nei suoi occhi i nostri errori come società, gli orrori che accadono qui fuori, anche quando continuiamo a negarli sistematicamente.

La storia di Sprinters è una storia vera, una terribile e tristissima storia vera, e nel libro non c’è nulla che tradisca i fatti: in questo sono stata estremamente meticolosa. Ma per riuscire a comprenderla e a raccontarla, ho dovuto lasciare che l’espediente giornalistico venisse attraversato dalla fantasia.

Tunquén, 25 gennaio 2021

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