Passeggio tra le particelle dei miei atomi
Nuclei pulsari, neutroni e quasari
Il mondo è piccolo, il mondo è grande
[Franco Battiato – Clamori]
Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il mondo della letteratura sudamericana avrà sicuramente sentito nominare Piglia e Onetti, i due protagonisti del primo volume della collana Ostranenie (per un’erotica pronuncia vi consiglio di ascoltare il podcast targato Wojtek). Ostranenie #1, Teoria della prosa, è la trascrizione delle nove lezioni tenute nel 1995 da Piglia sul lavoro di Onetti. O meglio quella che è un’indagine sulla forma della nouvelle – o romanzo breve o racconto lungo – a partire dalle opere di Onetti. O ancora una riflessione tra segreto e narrazione sviluppato grazie alle opere di Onetti. O si potrebbe dire la speculazione di un grande autore, Piglia, su cosa sia stato scrivere per un altro grande autore, Onetti. Probabilmente questo volume è tutte queste cose insieme, e anche altre. L’effetto che ho provato durante la lettura è stato un senso di gratitudine verso chi ha lavorato al libro – dai curatori F. A. e A. Z., al traduttore L. T., passando per l’editore –, un senso di ammirazione nei confronti di Piglia e affetto per Onetti, autore sempre sfuggente nelle sue opere e qui così illuminato da apparire chiaro, persino afferrabile, inesorabile. Ed è un effetto per niente scontato, si consideri che fino a qualche anno fa avevo una seria difficoltà a digerire testi di questo genere – penso alle lezioni di Calvino, a quelle di Nabokov, per dire – e sopratutto alla mia diffidenza nei confronti dei sudamericani. Ora provo quello che potremmo definire amore, senza il rischio di apparire inutilmente sentimentale.
Questo libro è un regalo a tutti i seguaci di Onetti, agli appassionati di letteratura sudamericana oppure agli amanti dei meccanismi della prosa, scriventi, lettori o editori che siano. Al di là della lucidità di alcune osservazioni, alla capacità di Piglia di condurci nei meandri più complessi della narrazione di Onetti infarcendo ogni lezione con decine di collegamenti, riferimenti, citazioni, la caratteristica a mio avviso più importante di questo testo è la percezione di una sorta di teorizzazione in fieri. Se nel titolo avessimo trovato la parola pratica, non mi sarei stupito. Teoria pratica della prosa. La voce di Piglia è sibillina, mi ha fatto invidiare gli alunni che hanno avuto la possibilità di ascoltarlo dal vivo. Si percepisce un carisma e una capacità non indifferente nel guidare l’ascoltatore – in questo caso il lettore. Piglia non oltrepassa mai il velo di Maya della narrazione onettiana bensì ne rende più evidenti i contorni, rende luminoso il bersaglio. È come un reagente che lasciato disperdersi nel corso di un fiume colora in modo inequivocabile le traiettorie di alcune particelle. Spetta poi al lettore seguirle, riflettere, interrogarsi. Perché questo è già un esercizio di critica, Piglia lo sa e stimola i suoi allievi. La recensione di questo volume era stata programmata per i mesi a venire, ma dopo averlo letto mi sono reso conto che aveva inclinato il mio approccio alla lettura in generale: ha aggiunto un livello, una prospettiva. Sono sicuro che lo citerò molto a lungo, tanto vale parlarne diffusamente prima. Diffusamente, poi. Un parolone. La prefazione è un mini saggio, un compendio delle lezioni, per cui non saprei cos’altro aggiungere. Il volume va letto, le lezioni vanno seguite dedicandoci del tempo, prendendo appunti, quasi come se si fosse davvero in classe. L’unica operazione che mi sento di proporvi è quella di sintetizzare per ogni lezione una frase, un concetto, una riflessione di Piglia e da lì strabordare. Perché se come scrive l’autore capire è raccontare di nuovo, per farvi capire cosa si prova in questa lettura non posso far altro che provare a raccontarla di nuovo. Inoltre cercherò di estrapolare concetti essenziali, che vadano al di là della poetica onettiana, perché queste nove lezioni forniscono gli strumenti per tracciare il lavoro di un autore qualsiasi, ancora di più se questi appare ripetitivo, ossessivo, vagamente caotico nelle sue opere.
Lez. 1 Il romanzo breve si chiede cosa è accaduto, il racconto cosa accadrà.
Una riflessione molto interessante sulle varie forme narrative, alla ricerca di una definizione esaustiva della nouvelle. Piglia ne fa una questione di lunghezza, sposando una posizione diffusa, ma anche di tematiche, oltre che di fuoco della storia – come si evince dalla citazione. Un fuoco sul passato, uno sul futuro. Ma più interessante è la questione delle tematiche: secondo l’autore vi sono argomenti adatti ai romanzi, storie per i racconti e aneddoti per le nouvelle. Implicitamente si racchiude un’estensione, in termini di spazio e tempo narrativo, di personaggi, di situazioni, e mi pare una posizione non troppo distante da quella di chi parlava di idee forti per i racconti, idee deboli per i romanzi o ancora di Cortázar, secondo il quale il romanzo vince ai punti mentre il racconto deve farlo per KO. Probabilmente non giungeremo mai a una definizione che soddisfi tutti però è vero che esistono storie adatte a diverse forme, perché ogni forma ha delle caratteristiche. Tra forma della narrazione e oggetto della narrazione si instaura un rapporto di stato della materia: nel senso che le storie non sono gassose che riempiono senza problemi ogni volume disponibile, ma neanche liquide capaci di adattarsi a ogni contenitore, bensì solide, dotate di una loro forma intrinseca, compatibile soltanto con una forma identica. Perché scegliere una forma non è mai innocente ripete l’autore poco più avanti, nella scelta dei materiali narrativi non c’è niente di casuale.
Lez. 2 La narrazione è una ricostruzione di un capitolo anteriore o perduto di una storia che il soggetto non ricorda.
Rubando lo spunto a Freud e alla psicanalisi, Piglia s’interroga sul ruolo della soggettività nelle narrazioni. Dalla sua analisi pare evidente che la letteratura, in ogni forma, gioca in qualche modo con delle omissioni – con qualcosa che manca. Questa mancanza è il centro della narrazione e le diverse forme la declinano, e si rapportano a essa, in modo diverso. Diverso è anche il rapporto soggettivo del narratore e dei protagonisti i quali, spesso e soprattutto nella nouvelle, conoscono ciò che viene celato al lettore per tutto il tempo della narrazione – e spesso anche dopo, nel senso che il finale non è né risolutivo né chiarificatore. Si crea quindi un problema tra chi scrive, chi vive la storia e chi la legge. Spesso è proprio in questa complicazione che sta l’apporto dello scrittore, creando ambiguità, imbarazzo, dinamismo. Anche quando si parte da dati reali, lo scrittore può costruire una finzione che non è accessibile a tutti. In casi estremi tale finzione inaccessibile persino all’autore stesso.
Lez. 3 È difficile trovare un testo puramente fantastico o un testo puramente realista.
Su questo tema si sono espressi in molti, tra cui Borges citato nella lezione. La posizione di Piglia è meno intransigente, meno definitiva di quella Jorge Luis, non pone una distinzione netta tra ciò che è reale e ciò che è finzione. L’elemento fantastico è spesso presente in storie dall’impianto realista, l’elemento realista è sempre evidente nelle storie fantastiche – perché non c’è storia che non abbia contatti con la realtà, perché non c’è storia che non sia immaginata e quindi fantastica. Questa posizione sembra essere più moderna, sposarsi meglio con una certa produzione recente, appassionata a elementi weird, strani, metafisici, fantastici anche nelle narrazioni più tradizionali, di impianto più realista. Mi sembra una risposta netta all’ossessione, spesso editoriale, per le storie vere e sulla quale sarebbe il caso di interrogarsi, cercando di comprendere cosa sia la verità in letteratura e soprattutto che legame abbia con il realismo. Considerando la data delle lezioni, venticinque anni fa, quello di Piglia è un suggerimento che arriva dal passato.
Lez. 4 Se dovessimo immaginare una narrazione in cui tutto è chiaro allora usciremo dai confini della letteratura.
Legandosi alla lezione precedente e anticipando concetti che affronterà nella successiva, Piglia si sofferma tra le altre cose sui limiti della letteratura. Cosa è, in fin dei conti, la letteratura? Ciò che è ambiguo, storie fatte di relazioni e di reti tra personaggi. Il segreto, differente dall’enigma e dal mistero per una diversa natura e una diversa predisposizione allo svelamento, non necessita di una risoluzione affinché la narrazione funzioni. O meglio questo è quasi necessario nel romanzo, dove spesso si chiede al narratore di chiarire, mentre nel racconto e nella nouvelle è necessario il contrario: è necessario che il segreto resti segreto. Che la realtà si mischi alla fantasia. Che la fantasia rimandi costantemente al reale. Se penso ad alcuni romanzi letti recentemente – il prossimo di Palomba e l’ultimo di Leone, per citarne alcuni, non è un caso che assumano la forma di novelle, non raggiungendo le 200 pagine il primo e superando appena le 100 il secondo – ritrovo perfettamente questa minaccia al segreto, quel livello di sospensione dove è sempre la posizione di chi legge a dare una risposta. Una risposta, non la risposta.
Lez. 5 Un enigma può avere un finale, anche un mistero può avere una spiegazione […] ma un segreto è una storia che non ha fine.
Come accennavo, andando a pescare in alcune novelle di Onetti, Piglia evidenza come i vari piani di lettura presentino dei punti ciechi, degli elementi mancanti, degli intoppi logici che rendono impossibile l’univoca determinazione di ciò che è accaduto. Ciò che è accaduto resta un segreto. Ciò che accadrà quindi è una scommessa del lettore. Nelle parole di Piglia è evidente l’affetto incondizionato per chi legge, per chi dovrà sopperire con la propria voce alle mancanze della storia. Il segreto, sempre secondo l’autore argentino, è un problema legato solo a chi legge: chi racconta, e di conseguenza i protagonisti, conoscono ciò che manca e proprio perché lo conoscono non ritengono importante discuterne, metterne il lettore al corrente. In questa omissione si sviluppa la storia.
Lez. 6 [Un’esperienza] l’avrà avuta, in guerra o giocando a carte con il cugino, solo se è stato in grado di estrarre un senso di conoscenza dalla catena degli avvenimenti.
Non posso nascondermi. Questa è stata probabilmente la lezione più soddisfacente perché, tra le righe e la citazione è voluta, ci ho letto qualcosa in relazione all’ossessione per gli eventi significativi. Nelle storie deve accadere sempre qualcosa di importante affinché i personaggi ne facciano esperienza, possano evolvere. A questa massima non ho mai dato credito, anzi. La posizione di Piglia mi sembra molto più precisa: noi non impariamo dai fatti in sé, ma da come li viviamo. Lo stesso dovrebbe valere per i personaggi. In più, l’autore si sofferma sul ruolo dell’esperienza anche per il lettore: solo un lettore che ha vissuto quell’esperienza è in grado di riconoscere, con buona approssimazione, l’emozione che l’autore ha inserito nel testo. O almeno può avvicinarsi allo stimolo primo che ha portato alla storia. Forse è questa l’unica sensata definizione di target, di lettore tipo e altre determinazioni simili.
Lez. 7 Se io credo che un discorso è vero, allora sarà vero. Ma non è perché sia vero che io ci credo.
Non appena ho letto queste due righe mi è tornato in mente uno dei più importanti teoremi di sociologia: il teorema di Thomas. L’enunciato è molto semplice e l’affermazione di Piglia pare essere soltanto una variazione sul tema. Thomas sosteneva che se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze e la portata di tale intuizione è evidente: non tanto le cause, quanto le conseguenze. Non è importante quello che è stato, ma quello che sarà. La stessa differenza che Piglia aveva espresso tra romanzo e novella, l’interesse per la causa da svelare e la conseguenza da osservare. Inoltre il teorema di Thomas, in ambito letterario, mi sembra un ennesimo punto nella riflessione su ciò che è verosimile, reale, fantastico, falso. Tutto dipende dal lettore, dalla sua volontà di crederci – e dalla capacità dello scrittore di essere credibile. Qualunque cosa scriva.
Lez. 8 Io mi interesso soltanto ai romanzi in cui i personaggi fanno questo tipo di cose.
Nella questione di gusto soggettivo, la posizione di Piglia sembra offrire una lettura efficace e condivisibile: quello che può colpirci in un testo è lo stile dell’autore, quello che l’argentino definisce simbolo de la letteratura, ma anche e sopratutto il tipo di storie. Ma cosa sono questi tipi se non le azioni dei personaggi? Ciò che essi fanno nello scorrere delle pagine? Tale azione porta con sé ambientazioni, contesti, dinamiche, situazioni, dialoghi, linguaggio. E questo, tutto insieme, fa esattamente un tipo di storia oppure un altro.
Lez. 9 C’è sempre un elemento che si aggiunge.
(Forse) Roth diceva che ogni scrittore scrive sempre la stessa storia, con piccole variazioni. Dall’analisi di Piglia sul lavoro di Onetti si può affermare che, almeno per l’autore argentino, questo sia vero: ci sono degli elementi che si ripetono, dei personaggi che diventano calchi dai quali far generare copie, situazioni che si duplicano, ma spuntano anche degli elementi che si aggiungono e che arrivano, di volta in volta, dall’esperienza personale dell’autore. In quest’ottica, volendo o meno accettare come vera la definizione di (forse) Roth, ritroviamo l’importanza del biografismo: conoscere l’autore ci permette delle valutazioni della sua opera, delle riflessioni meno speculative e più immediate, forse meno letterarie ma più plausibili, quanto meno come punto di partenza. Conoscere alcuni aspetti importanti della vita di un autore ci fornisce indicazioni su quelle che potrebbero essere le sue ossessioni, i nuclei della sua scrittura, gli elementi che si ripetono e che poi, in concomitanza con eventi nuovi, si potrebbero aggiungono alle storie.
La quantità di aneddoti, riferimenti, citazioni presenti trasformano Teoria della prosa in un racconto, materiale perfetto per un podcast: lo stile e una certa ironia presente in Piglia potrebbero guidarci nella foresta vergine della letteratura senza annoiare, senza spaventare. Mi ha ricordato, per la scarsa pedanteria, le Lezioni di letteratura di Cortázar, Berkeley 1980. Seguendo i ragionamenti di Piglia si è obbligati a riflettere, a riportare i ragionamenti alle proprie opere se si è scrittori oppure ad adattarli ai libri sul comodino se si è lettori. C’è una fuga dalla routine in questo continuo riflettersi addosso. Un aiuto concreto a una lettura/scrittura più consapevole. Un racconto dei meccanismi che fanno l’impalcatura delle storie, quella che deve esserci ma apparire invisibile, esserci senza essere evidente. Lettura/scrittura non è un errore di battitura, un refuso che andava sistemato: i due termini sono davvero interscambiabili. Anche leggere equivale a prendere decisioni, […] la sensazione costante di trovarsi a un metro dall’errore dice Piglia proprio in conclusione del suo seminario gettando un ponte, forse il più solido, tra lettura e scrittura, tra la solitudine di chi legge e la solitudine di chi scrive.
A tal proposito, per sottolineare il rapporto tra lettura e scrittura, evidenzio uno tra gli esercizi proposti da Piglia ai suoi studenti: riscrivere, e non riassumere, in una pagina intere novelle di Onetti. Questo esercizio spinge a una focalizzazione su alcuni aspetti, quelli che secondo il lettore caratterizzano in modo principale la narrazione, la rendono unica, tale e non un’altra. In questa riscrittura, secondo Piglia, non soltanto si fa una lettura attenta e personalissima, ma si riscrive, e riscrivendo si capisce la storia di partenza ma se ne crea automaticamente un’altra, diversa e unica a sua volta. Questo è un esercizio che potremmo fare tutti, per tutti i libri che abbiamo amato, magari confrontando le nostre versioni per poi accorgersi che non esiste quel libro o quell’altro libro, ma soltanto i nostri personalissimi libri. Le nostre personalissime storie. Così come non esistono due ricordi perfettamente identici della stessa situazione, così quando una storia viene raccontata per la prima volta non esiste più quella storia, ma infinite, molteplici, molecolari storie tante quante sono le orecchie che l’hanno ascoltata moltiplicate per le lingue che l’hanno ripetuta. In un telefono senza fili che rende alcuni libri una possibilità e non una certezza.
Nota a margine.
Bisogna rendere atto che questo volume, oltre a un interesse saggistico, è presentato in una veste grafica di prim’ordine. Scommetto due nichelini sulla trasformazione della collana in un feticcio anche estetico. Il che non è mai male.
Francesco Spiedo (1992) nasce a Napoli, da madre ansiosa e padre operaio, sperimentando fin da subito le conseguenze dell’iperattività. Cresciuto a San Giorgio a Cremano, studia per diventare ingegnere anche se non praticherà mai. Precedentemente animatore, cameriere, concierge, addetto alla sicurezza e ad altre attività non riconosciute dal Ministero del Lavoro, inizia a scrivere su commissione e su riviste, sotto falso nome e come ghostwriter. Stiamo abbastanza bene (Fandango Libri, 2020) è il suo primo romanzo. Crede in Maradona e Woody Allen.
