Pubblichiamo un estratto da “La morte dei giganti” di Stefano Martella, pubblicato da Meltemi nel 2022 (con l’editing di Margherita Macrì). Il libro ha ricevuto la menzione speciale per la saggistica al Premio Nabokov.

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Più passano gli anni e più mi capita di pensare a tutto ciò che non ritorna. L’infanzia nella casa dei nonni materni è uno dei pensieri più frequenti. L’odore del caffè appena uscito, il profumo di muschio nelle stanze e quello aspro del legno d’ulivo bruciato nel camino. Ricordo il vino del nonno, che bruciava le budella a ogni pranzo. Lui un bicchiere di malvasia rossa se lo faceva anche a colazione, insieme a una frisa traboccante di olio, pomodori e peperoncino. Amavo andare dai nonni soprattutto perché potevo fare quello che mio padre mi vietava: come, appunto, bere una punta di vino, andare in motorino, lavare i piatti e salire sulla loggia. Si stava bene sulla loggia, a vedere il grande palazzo baronale spuntare come un iceberg nel mare bianco delle case alte tutte uguali.

Mia nonna era una tabacchina e mio nonno un contadino, un colono, uno di quelli che lavorava la terra per conto dei padroni. Ma lui i padroni non li aveva mai schifati, un po’ perché ne aveva incontrati di onesti, un po’ perché li temeva, un po’ perché era democristiano. Non gli interessava tanto la politica, quanto dio, a cui i comunisti piacevano poco o non piacevano affatto. Era quanto sapeva e quanto gli bastava sapere. Era un tipo basso, col volto tondo, i lineamenti che assomigliavano vagamente a quelli di papa Wojtyla, dicevano in paese. Lui di questo paragone ne andava fiero, come se lo stessero paragonando a un belloccio del cinema. Aveva la terza elementare ma era uno di quelli che sapeva stare al mondo, intuiva subito come giravano le cose. Il suo nome era Paolo e la sua ‘ngiuria Paolo t’a Pezza, Paolo della Pezza, un nomignolo che derivava dal nome del fondo in cui lavorava, ai Paduli. 

I Paduli erano il più grande bosco di uliveti della provincia di Lecce, in cui dimoravano 5.500 ettari di ulivi secolari. Il grande polmone verde del Salento. Era così ampio da comprendere i territori di sette paesi, poco più a sud dei grandi latifondi di Maglie: San Cassiano, Nociglia, Surano, Supersano, Sanarica, Giuggianello e Botrugno. Quest’ultimo era il paese dei miei nonni. Durante il giorno, almeno fino agli anni ’60, i paesi si svuotavano e i Paduli si riempivano. Il parco brulicava. Ricordava la contea del “Signore degli anelli”, l’opera letteraria di Tolkien, con i suoi rilievi verdi, le grandi querce, gli ulivi monumentali, gli agricoltori che si muovevano laboriosi come formiche, le casette come rifugi. Le donne andavano a raccogliere le olive, gli uomini a caricare i sacchi. Gli sguardi si incrociavano veloci. Molti matrimoni sono nati così nel sud Salento: dagli incontri nei Paduli. Da sempre simbolo di fertilità. Per secoli fonte di sussistenza. Fino al Settecento si chiamava Bosco Belvedere, fitto di enormi querce. Dimoravano lupi e cinghiali. “Belvedere era utile per oltre venti paesi, alimentava un gran numero di cacciatori di giornata, che armati di fucile o coltellaccio, talvolta di corno o di mannaia, ritornavano nelle loro case, a sera inoltrata, carichi di cacciagione che vendevano sul luogo o spedivano nelle principali piazze”, scriveva nell’Ottocento Cosimo De Giorgi, scienziato e viaggiatore leccese. Poi le querce furono abbattute per far posto all’economia dell’olio lampante e il bosco divenne un maestoso uliveto. 

[…]

Le pasquette negli uliveti dei Paduli sono un ricordo vivido. Ci andavano centinaia di famiglie, si portavano tavolini, sedie, sdraio, teli, chitarre, tamburelli, cibo e vino in abbondanza. Veniva a giocare a pallone anche il prete del paese, era bravissimo soprattutto nel dribbling, volava come un uccello sopra gli altri. Poi qualche anno dopo seppi che era scappato con una donna del posto. In una di queste pasquette mio zio piccolo bevve così tanto da mettersi a rotolare nella terra con altri amici, avevano il volto paonazzo e ridevano isterici. Tutti ridevamo. Mio cugino piccolo però, avrà avuto quattro anni, si spaventò e cominciò a piangere. Più mio cugino piangeva, più mio zio rideva. Allora il nonno sollevò il nipote dalle braccia, portandoselo in petto. “Paolo, Paolo, non piangere” gli diceva facendolo sobbalzare dal sedere, mentre il nipote aveva ancora gli occhi corrucciati e il moccio che pendeva dal naso, “papà è solo felice”.

Quei momenti ai Paduli, soprattutto d’estate quando la luce andava via lentamente, mi davano la sensazione che il tempo non sarebbe mai passato, che quell’istante sarebbe stato eterno e io sarei sempre stato un adolescente in fuga dalla città.

Il nonno morì il 21 gennaio 2017. Da qualche anno, dopo la morte della nonna, aveva lasciato la casa in paese e si era trasferito in un appartamento in città per stare più vicino a mia madre e non gestiva più direttamente i suoi uliveti. Pochi giorni prima di morire chiese dei figli, dei nipoti e infine degli ulivi dei Paduli e noi non abbiamo avuto il coraggio di dirgli che gli ulivi stavano morendo, se ne stavano andando come lui, di un male che consuma lento e inesorabile. Dopo la sua morte non sono più passato dai Paduli, come non sarò passato più di un paio di volte dal cimitero a fargli visita.

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Una mattina di novembre 2019 decido di tornare ai Paduli. Già da lontano la tinta monocromatica grigia non lascia presagire nulla di diverso dalle aspettative. Ogni tanto incontro qualche agricoltore ostinato che irrora con pesticidi le piante agonizzanti, infierendo su un terreno già desertificato. In lontananza, si sente il ronzio delle motoseghe. I canali di raccolta della pioggia che delimitano gli appezzamenti sono intasati di canneti e cespugli. Il parco dei Paduli, come lo ricordavo, non esiste più.

Più del 70% degli ulivi ha contratto il disseccamento. La cooperativa che raggruppa gli olivicoltori dei Paduli qualche anno fa produceva 13mila quintali di olio, adesso a malapena arriva a 300. La sua scomparsa fa emergere anche altri problemi, non meno importanti di quello agricolo e paesaggistico. Nel parco ci sono 5 milioni di ulivi su 11 chilometri quadrati e il disseccamento del grande polmone verde pone la questione ambientale tra quelle prioritarie: il Salento ha perso una enorme massa in grado di distribuire ossigeno, al posto di una massa secca che non è più in grado di catturare anidride carbonica e polveri sottili. Ovviamente non sono stati risparmiati neanche i grandi ulivi di mio nonno. Accanto al suo appezzamento c’è il laboratorio dell’associazione “Abitare i Paduli”, un progetto che ha ripensato il bosco come luogo di turismo sostenibile e parco agricolo multifunzionale. Centinaia di turisti hanno dormito ai piedi degli ulivi, in grandi nidi intrecciati di ramaglie. Grazie all’associazione il parco, nel 2015, è stato il candidato italiano al Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa.

[…]

Il Salento ha riconosciuto nell’ulivo il simbolo della sua identità ma fino a due secoli fa non lo era. Due secoli fa gli ulivi che adesso si piangono neppure esistevano. L’identità non è un fatto immutabile nel tempo. Il Bosco Belvedere, fitto di querce, si è trasformato nel Parco dei Paduli, gremito di ulivi. Anche il paesaggio non è qualcosa di statico. Si evolve, muta, a seconda dei periodi imposti dall’uomo o dalle calamità naturali. Non possiamo dominare il paesaggio per un periodo troppo lungo, siamo solo una delle variabili che lo condizionano. E neanche la più importante. Ci sono gli insetti, le fitopatie (come hanno imparato nel Salento), il clima, gli eventi meteorologici (come hanno imparato in Trentino e in Veneto, dove nel novembre del 2018 una tempesta ha raso al suolo un milione di metri cubi di abeti in ventiquattro ore). Però, quando i cambiamenti non avvengono per mano nostra l’esito è traumatico. Da sempre i luoghi più vulnerabili sono quelli che, in campo agricolo, si sono affidati a una monocultura. Lo sapevamo già dal 3000 a.C., quando gli antichi egizi iniziarono a privilegiare la coltivazione del frumento rispetto agli altri cereali, esponendo i raccolti al rischio di pesanti decimazioni per malattie, come le ruggini del grano. Ma dal passato abbiamo imparato poco considerato che, attualmente, la popolazione globale consuma il 60% delle proprie calorie da appena tre specie vegetali: grano, mais e riso, che occupano estensioni enormi di terra in ogni continente. Più basso è il numero di specie da cui dipendiamo, più alto è il rischio che una nuova malattia possa provocare una gravissima carenza alimentare.

La monocoltura dell’ulivo è stato un errore e il Salento lo sta pagando ora. Ma, come l’antico Egitto, ha avuto una grande lezione da cui poter ricominciare. Forse partendo da produzioni diversificate e da una biodiversità diffusa, in grado di proteggere le economie dai possibili attacchi, che siano climatici o parassitari. Per rispondere alle sollecitazioni delle fitopatologie, del mercato aperto, del cambiamento climatico, lo scenario indicato è quello di un sistema agricolo e quindi di un paesaggio resiliente, in grado di modificarsi ogni qualvolta una nuova variabile rientra nel sistema ecologico. Anche i Paduli, se lo vogliamo, non scompariranno mai. Sono come una grande fenice, il mitico uccello sacro agli antichi egizi. Post fata resurgo.

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