Pubblichiamo, ringraziando editore e autore, un estratto dal libro di Enrico Prevedello Una rivolta. Orizzonti e confini del Nord-Est, uscito per Nottetempo.
di Enrico Prevedello
“Io, Franceschi Luciano, in qualità di combattente di San Marco per la liberazione delle Terre Venete dall’invasore italiano, intimo alle forze occupanti di lasciare pacificamente tutti gli uffici amministrativi, politici, giudiziari e finanziari. Visto le inosservanze da parte delle più alte cariche istituzionali compreso lei, presidente della Repubblica Italiana, del rispetto dell’autodeterminazione dei popoli sancito dai patti internazionali, le dichiaro guerra”.
Luciano si ricompone e porta alla bocca un’altra giuggiola sotto grappa. Fissa la penna tra le mie dita, inclinata sul foglio, immobile.
“Be’, non scrivi?” mi chiede.
“Non so, Ciano,” rispondo, “mi sembra un po’ troppo diretto come messaggio”.
“E cosa devo fare, mandargli fiori? Io devo combattere, perché l’ho iniziata io la guerra”.
La sua mano destra è rattrappita contro la bocca dello stomaco, mentre la sinistra pesca l’osso dalle labbra e lo appoggia delicatamente su un piattino.
Faccio dei segni neri sulla carta. Gli avevo promesso che l’avrei aiutato a raccontare la sua storia, ma non è questo che avevo in mente.
“Senti,” dice Luciano, “faccio stampare dei volantini con questa dichiarazione e li attacchiamo sui pali della luce in giro per Borgoricco, e intanto mi nascondo, mi faccio ospitare da qualcuno di fidato. Così i carabinieri si cagheranno addosso quando verranno per il controllo e non mi troveranno a casa, mi cercheranno e ne parleranno i telegiornali, e magari el popoeo veneto se risvejerà”.
Lo capiscono tutti, il veneto? Perché alcune parti dovrò per forza riportarle nella lingua in cui sono avvenuti i dialoghi. Le parole qua sopra, per esempio, le ho tradotte in italiano. Sua madre raccoglie il piattino con una mano e alza l’altra in una minaccia: “No sta’ dire ’ste robe, ché te ghe xa fato anca massa mae aea xente, sta’ bon!”
Qua ci sono parole con la x (che ha il suono della s in “rosa”), devo tradurre anche queste, perché gli ho promesso che la sua storia sarebbe arrivata a più gente possibile – sua madre, quasi novantenne, mentre raccoglieva il piattino con l’osso di giuggiola sputato dal figlio condannato a sedici anni: “Non dire queste cose, ché hai già fatto anche troppo male alla gente, sta’ buono!”
Non mi convince, non esce il carattere di nonna Antonia, che Luciano paragonava a Margaret Thatcher: da vedova ha tirato su un caseificio, due figli, un allevamento di maiali e un’esule fiumana. Se voglio che si capisca la storia di Luciano devo raccontare anche la storia di sua madre, e di suo fratello maggiore Enzo, che ora gestisce il caseificio, e di Borgoricco, il suo paese, il mio paese, casa nostra e di Bepin Segato, considerato l’ideologo tra quelli che hanno portato il Tanko in piazza San Marco nel 1997, a duecento anni dalla fine della Serenissima, e poi hanno issato il gonfalone col leon sul campanile.
Devo raccontare di suo figlio Arturo, che è dall’asilo che ci conosciamo, e di sua moglie Emilia, la partenopea con la bareta fracà sul muso come i veneti, e di come Luciano è entrato in politica con la Lega Nord e ne è uscito col venetismo puro, indipendenza e non autonomia, e di come il Veneto non è più quello che lavora, ma è quello dei capannoni coi tetti smontati e buttati via, ché così non si paga l’imu, ché le altre tasse ti fanno chiudere i pugni e la crisi del 2008 ha fatto impiccare il suo amico impresario edile, sempre di Borgoricco, ma lui no che non ha mollato, non ha neanche resistito, ha fatto altro, è diventato capo dell’autogoverno veneto, e poi – devo capire cosa è successo prima di raccontarlo, cos’è che gli ha messo in mano la pistola e lo ha portato in banca a sparare. Di certe cose non lo so, il perché. Perché ha deciso di non pagare più le tasse, perché era convinto che la digos lo stesse controllando, perché i suoi figli non hanno voluto continuare a lavorare nell’impresa di famiglia, perché è morta sua moglie di leucemia fulminante, perché non è morto anche lui col primo infarto e neanche col secondo, perché mi interessa la sua storia, perché sono anni che ci lavoro come fosse la mia, perché non è morto neanche con l’ictus, perché mia madre non è andata al funerale di Emilia, perché quel giorno piangevo più io di Arturo, perché gli hanno dato sedici anni di carcere, perché non ha chiesto aiuto, perché nessuno l’ha fermato?
Ho tutto quello che mi serve per raccontarla. Conosco il protagonista, conosco casa sua, ho fatto interviste a lui e a sua madre, ho migliaia di pagine di leggi e storia dell’autogoverno, ho il suo diario dal Due Palazzi, sono anche andato a lavorare un paio di mesi in quel carcere per capire meglio.
Racconterò questa storia, lo sto per fare. È solo che ho un po’ paura a iniziare.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente
