Pubblichiamo, ringraziando l’autore e l’editore, un testo dalla raccolta dedicata all’opera di Vitaliano Trevisan “Una (non) prospettiva. Percorsi attorno all’opera di Vitaliano Trevisan” (Mimesis) a cura di Alvaro Barbieri e Matteo Giancotti, composta da saggi che indagano i vari aspetti della scrittura dell’autore scomparso due anni fa e nato, oggi, nel 1960.

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L’autore come personaggio di Fabio Magro

Fare storiografia letteraria significa, tra le altre cose, poter guardare in prospettiva un’opera, sforzarsi di sottrarla alle contingenze del suo tempo per proiettarla in una dimensione più ampia, stabile, e possibilmente condivisa. L’operazione risulta evidentemente piuttosto complicata e incerta quando ci si propone di storicizzare l’estremo contemporaneo.

È inoltre ancor più difficile mettere in prospettiva storica l’opera di Trevisan non solo perché l’eco della sua presenza, della sua fisicità e vocalità, è ancora così forte attorno a noi, ma anche perché la semplice lettura di una qualsiasi delle sue pagine conferma immediatamente quanto la sua opera sia centrata nel nostro presente, ci provochi e ci coinvolga; ogni sua pagina conferma quanto la sua scrittura, per le cose che chiama in causa e per i modi con cui lo fa, in sostanza parli di noi, del nostro modo irresponsabile e volgare di abitare questo spazio di terra in cui ci siamo trovati a vivere.

Il testo di Trevisan, e Trevisan stesso del resto, cioè opera e autore insieme, vivono poi di evidenti contraddizioni, esplicite e implicite, di dinamiche che si sviluppano e mostrano in superficie o che agiscono sotterraneamente: “La mente di Vitaliano Trevisan era un groviglio di tensioni irrisolte, una specie di macchina che non smetteva mai di lavorare, o meglio di reagire alla pressione del mondo” secondo le parole di Emanuele Trevi. Contraddizioni e articolazioni del discorso rappresentano come noto la vitalità stessa del testo ma complicano la vita a noi che cerchiamo di capirci qualcosa, che non solo siamo presi per incantamento dalla forza di questa scrittura, ma ne cerchiamo le ragioni, cerchiamo di “separare, pesare e distinguere” (come direbbe Primo Levi).

La prima e più evidente contraddizione, quella più complessa da gestire, riguarda la voce stessa che prende parola nel testo: da un lato abbiamo una presenza molto forte della prima persona singolare, che si esprime di preferenza in un monologo piuttosto logorroico con cui si costruisce un personaggio scostante, scomodo, costantemente in conflitto con sé stesso e con la realtà che lo circonda, e dall’altro lato abbiamo un autore che abita la realtà che lo circonda in modo altrettanto scostante, scomodo, costantemente in conflitto con sé stesso e con gli altri.

Due entità, due territori, due spazi molto vicini, anche se non proprio del tutto sovrapponibili. La cosa più difficile con l’opera di Trevisan è continuare a pensare in termini di letteratura anche quando il velo che separa il testo dalla vita è così sottile che pare basti un soffio a farlo volare via. Con termini di moda si potrebbe a questo punto discutere di finzionalità e non finzionalità, di autofiction, biofiction ecc., ma si possono forse lasciare da parte le ultime frontiere della narratologia per continuare a usare termini più tradizionali parlando semplicemente di testi costruiti con un misto di storia e invenzione. E qui ovviamente storia va intesa in senso moderno o postmoderno sia come storia personale, sia come storia collettiva, storia del territorio e della comunità che lo abita; storia dello spazio oltre che del tempo.

Come ben sappiamo il rapporto tra storia e invenzione, o in questo caso tra biografia e letteratura, è un rapporto che in Trevisan si gioca su equilibri delicati e precari, oscillando da un minimo a un massimo di coinvolgimento e apertura dell’autore, delle sue vicende biografiche o storiche (“il resto è storia” si legge alla fine di Works). Progressivamente però Trevisan riesce a conquistare una frontalità che in un primo momento non si poteva dare, che in un primo momento – ossia da Un trio senza pianoforte a Shorts a Grotteschi arabeschi, da Tristissimi giardini alla trilogia di Thomas – aveva bisogno più o meno consapevolmente di essere filtrata. Più che di maschere vere e proprie si tratta del minimo di travestimento che consente un riparo. In questa prima fase in sostanza, le tracce della storia autoriale pur sempre molto evidenti sono comunque mischiate, confuse, riformulate.

Da un certo momento in avanti tuttavia, alla fine del percorso che stiamo seguendo, quella frontalità, quella possibilità di dire di sé non solo è finalmente raggiunta ma è addirittura esibita, e l’intreccio di verità e finzione, a ritroso, può essere, almeno in parte, svelato. Si prenda ad esempio la pagina di Works che recupera un intero lungo brano da Un mondo meraviglioso in cui si rivela la distanza tra le vicende del protagonista di quel testo, ossia Thomas, e la biografia dell’autore:

Un lungo stralcio dal Mondo meraviglioso, composto tra il 1994 e il 1995, ovvero molto a ridosso del mio effettivo periodo di mobilità, che esprime bene il clima emotivo, interno ed esterno, con cui in quanto mobilitato, mi ritrovai a dover fare i conti. A differenza del protagonista, non restai affatto immobile nel mio periodo di mobilità, ma al contrario non mi mossi mai così tanto come in quei mesi di liber- tà forzata di cui approfittai ampiamente, recandomi prima un paio di settimane a Budapest, per poi spostarmi a Praga per altre due, e da qui a Vienna […].

Qui dunque il narratore di Works ricostruisce la propria vicenda biografica riallacciandosi al proprio personaggio di invenzione, o di quasi invenzione, e segnandone la distanza. Ma non è tutto. Anzi, con un’operazione esattamente contraria può anche ritornare sulle pagine di un tempo confermandone il contenuto biografico ma riscrivendole in un registro diverso, più letterario. È quel che accade nel penultimo capitolo di Works che si intitola proprio Lavorare coi secondi, in cui si riprende un episodio ricordato in Tristissimi giardini, nel frammento-capitolo intitolato Time works. Questo il passo originario:

L’autore, che non era ancora autore, di ritorno dal capannone anni Ottanta, dopo essersi guardato intorno, parcheggia il suo muletto d’epoca nel cortile del capannone anni Cinquanta, scende, si stira, si accende una sigaretta. Credendo di essere solo, si rilassa, abbassa la guardia. E mal gliene incoglie: improvvisamente, le piante di pomodoro dell’orto confinante, di pertinenza della nuova casa padronale – anni Ottanta, vengono scosse da un brivido e la figura del vecchio padrone – anno 1925, si materializza tra esse, come spuntando direttamente dalla terra e, attraversato il cortile con passo deciso, ma senza fretta, si ferma di fronte a lui, l’autore, e lo fissa per un momento di silenzio, consistente come un fatto. Poi dice: Si ricordi che qui lavoriamo coi secondi, capisce, coi secondi! Arrivederci, aggiunge; poi si gira e si allontana per scomparire tra le piante di pomodoro da cui era venuto. La portata di quelle parole, al momento mi sfuggì, ma, visto che le avevo prontamente trascritte nel relativo taccuino, qualcosa dovevo aver intuito. Niente di strano, mi capita spesso così con le parole, mie o di altri che siano: capisco che sotto c’è qualcosa, le scrivo, le tengo lì, magari per anni, e poi all’improvviso, tutto si chiarisce.

E questo quello d’arrivo:

A rendere la situazione ancora più pesante da sopportare, sul lato destro entrando, c’era la nuova casa del vecchio patriarca, ritiratosi dopo aver lasciato tutto in mano ai figli, come si dice. Il suo orto confinava direttamente col cortile del mio magazzino, e lui e la moglie ci passavano le ore in quel cazzo di orto, così che mi trovavo a essere costantemente sotto l’occhio del padrone. La frase in esergo Si ricordi che qui lavoriamo coi secondi, me la disse proprio lui, il patriarca, un pomeriggio in cui mi ero preso una pausa e mi stavo fumando una sigaretta tranquillo, in cortile, seduto sul mio muletto d’epoca. Il vecchio stava lavorando nell’orto evidentemente, ma io non me ne ero accorto. Improvvisamente le piante di pomodoro hanno un sussulto. Mi volto e vedo il vecchio uscire dall’orto e venire verso di me guardandomi fisso. Capisco che è troppo tardi per fare qualsiasi cosa: mi aveva beccato che non stavo facendo un cazzo e ora dovevo sorbirmi una predica. Mi si piazzò davanti, mi fissò per un momento e poi disse quelle parole che mi restarono impresse: Si ricordi che qui lavoriamo coi secondi; poi si voltò e se ne tornò al suo orto. Vecchio testa di cazzo, pensai, se è vero che lavoriamo coi secondi, perché cazzo devo perdere tutto il tempo che perdo solo per spostare le vostre macchine di merda?, o per caricare un camion che poi devo scaricare cento metri più in là?, o per coprire con dei teli di nylon i bancali di cartoni perché nel rudere che chiamate magazzino ci piove dentro e ci nidificano gli uccelli? O perché devo perlustrare stanza per stanza una casa pericolante e in rovina che vi ostinate a farmi usare come magazzino?, e poi: perché cazzo ti sei fatto la casa proprio in questo posto di merda, tra una fabbrica e l’altra? Lavorare coi secondi! Magazzini completamente automatizzati! Quante cazzate si sentono e si leggono a proposito dell’industria e dei suoi processi industriali!

La riscrittura risulta più potente, eliminando quel residuo didascalico che la prima versione, o insomma la versione di Tristissimi giardini, aveva. Pur ricordando che Tristissimi giardini è un testo in larga parte saggistico, si può comunque notare come nella redazione finale dell’episodio, nella versione di Works, la prospetti- va sia immediatamente immersiva, tutta in prima persona, mentre nella versione precedente la prima persona emerge solo nel finale, a commento e proiezione nel futuro del senso assurdo di quell’episodio; inoltre accanto alla maggiore ricchezza lessicale, si può notare la vivacità dei tempi verbali: dal presente che schiaccia un po’ l’episodio, lo rende statico, della prima versione, all’uso dei tempi narrativi (imperfetto) e storici (passato remoto) accanto al presente che invece drammatizzano la scena nella stesura di Works. Alla drammatizzazione contribuisce poi anche il montaggio più serrato del testo, con una maggiore presenza di frasi brevi e collegate per lo più asindeticamente.

Inoltre, mentre in un primo tempo la struttura è semplicemente bipartita, episodio e commento o non commento; nel secondo si ha una tripartizione: prima il riassunto con riferimento metatestuale all’epigrafe posta in esergo; poi la scena in presa quasi diretta; e infine il commento-invettiva rivolto direttamente al “vecchio patriarca”, presentato come reazione immediata e tutta mentale (con la consueta spia linguistica relativa al verbo pensare).

Il fatto, in Tristissimi giardini, assume dunque un valore emblematico, che va al di là del singolo protagonista (tra l’altro l’anonimo autore) ed è semmai esemplificativo di un clima lavorativo diffuso e radicato soprattutto nel Nord Est del Paese; in Works invece l’epi- sodio rientra nel contesto di una scrittura autobiografica, per quanto selettiva, ed è inserito in una temporalità più lineare e storicizzata che ha un antefatto e un postfactum caratterizzato dalla reazione emotiva del soggetto. Anche in Works dunque, inevitabilmente, autobiografia e letteratura si intrecciano e si sostengono, anche se il peso sulla bilancia è nettamente a favore del primo termine, dell’esposizione biografica dell’autore.

 

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