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di Mario De Santis

Una giornata come tante, nella vita di una coppia, ma una giornata particolare. Thomas Ostermeier è tornato alla Biennale Teatro di Venezia 2025, alla prima direzione di Willem Dafoe. Al festival della laguna ha spesso debuttato con i suoi lavori, fin dal 1999 con “Shopping & Fucking” di Mark Ravenhill, l’anno in cui, a soli 29 anni, divenne direttore artistico della Schaubühne di Berlino, uno dei centri culturali più importanti d’Europa. Premiato con il “Leone d’Oro” nel 2011, è autore di un manifesto del “nuovo realismo”, per un teatro che sia specchio dei cambiamenti sociali. È quindi significativo che il suo nuovo lavoro si chiami “Changes”, cambiamenti, scritto da Maja Zade, che racconta la giornata di una coppia berlinese (ma emblematica di certo occidente europeo).

Nina (Anna Schudt) manager, ma anche politica in carica, che si sta battendo per la tutela di donne rifugiate o abusate. Mark  (Jörg Hartmann) un ex avvocato che dopo un burnout, ha cambiato lavoro e fa l’insegnante. Sono sposati da 20 anni, senza figli, li troviamo a colazione a parlare di toast, studenti problematici e campagne politiche. Quadretto progressista – è lui che cucina, lei lavora la Pc – e da subito emergono tic e sfasamenti dentro la normalità. Mark dice ex-abrupto: “Io puzzo”. Lei lo rassicura, ma continua a scrollare la posta. Parte la giornata che sarà una lunga catena di incontri, con altri personaggi e qui si capisce subito il cuore drammaturgico scelto da Ostermeier: Anna Schudt e Jorg Hartmann, attori strepitosi, oltre Nina e Mark, interpreteranno tutti gli altri  21 personaggi che si susseguiranno, in piccole scene, con velocissimi, fluidi cambi di minimi di abito o trucco, tutti “a vista” in vaudeville che diventa un frenetico carosello etico. Gli incontri, a casa al lavoro in altri luoghi, accadono nello spazio multifunzionale della scena, disegnata da  Magda Willi con tavolo, divano, un frigorifero, un secondo tavolo laterale, la cornice di una porta e una barra appendiabiti. Quel che si dipana è una serie di micro-drammi: Nina in conflitto con Anna, un’imprenditrice che finanzia la casa-famiglia ma ora rivuole indietro il terreno su cui sorge per farne un centro ricerca sul cancro. Ben, l’assistente di Nina, fa la raccolta fondi per immigrati ma è sottopagato e sfruttato dalla deputata. Mark, uscita Nina, si attacca alla bottiglia di vodka, non ha smesso di bere dopo la crisi lavorativa.

A scuola non lega con professori distratti, la preside lo opprime con le regole, è impotente di fronte a studenti che vengono da famiglie con problemi, genitori assenti che nei colloqui versano rancore populista, disprezzano i professori e il loro privilegio di statali. Quando l’imprenditrice ricatterà Anna, minacciandola di mostrare le foto del marito alcolista alla stampa, Nina decide di rivelare il ricatto in un ‘intervista in tv, ma senza avvertire il marito. Questi sono solo alcuni, ma ci sono molti quadri per questo mosaico di incontri. Tutto precipita verso il ritorno a casa, la sera, con il dissidio tra Mark e Nina che decreta l’impossibilità di essere coerenti, sinceri e la loro distanza. Mark accusa Anna di egoismo, di aver compromesso la sua carriera di insegnante, lei ribatte che la colpa è non aver smesso di bere e si stupisce che essere insegnante sia “una carriera”. Di fronte agli errori e segreti di entrambi a fine giornata è Nina che pronuncia la frase tombale, ma tipica di esistenze che nemmeno nell’intimità riescono ad essere comunità a due: “Cambiamo argomento. Facciamo come se questo giorno non fosse mai esistito”.

Una delle recenti regie di Ostermeier era stata “Il gabbiano” di Cechov. Là Nina ha sogni, qui Nina è disillusa, nasconde il dolore personale (la mancata maternità) ma non comprende quello degli atri. Ostermeier fa scelte in sottrazione: il non-espressionismo, il naturalismo interpretativo, quasi a rimettere il teatro-teatro al centro. Il testo non aggira certi cliché sociali,  sebbene necessari e lo scavo psicologico minimale, senza essere minimalista, su ferite, lacerazioni, segreti non è una novità a teatro, anzi, è quasi un classico. Più significativo l’assenza di tecnologia di scena (schemi, amplificazioni ecc.). Ostermeier punta più che sul testo in sé, sulla sintassi drammaturgica, nel concatenamento delle scene gli incroci dei 23 destini: nel caleidoscopio dei cambi di ruolo, sta l’allegoria formale di quella che Leopardi aveva chiamato nella Ginestra la “social catena”.

Stavolta è centrale la normalità della classe media, la stessa che lo applaude a teatro in Europa, un ceto medio più che per salari, per valori e consumi, abitudini, cultura. Solo sullo sfondo gli “ultimi” (anzi le donne della casa-famiglia disprezzano Nina, così anche la sua parrucchiera). Centrato sulla tragedia della normalità, “Changes” per certi aspetti è uno spettacolo meno bello di altri del regista tedesco,  meno estremo, e anche più piatto, a parte la bravura degli interpreti. Tuttavia – quasi dialogando a distanza con Milo Rau su come il teatro possa rischiare l’estetismo dei contesti estremi o dei soggetti marginali (e Rau a Venezia ha fatto questo dall’interno con “La veggente”, concentrata sul personaggio di una fotografa di guerra) – sembra una scelta voluta, non uno spettacolo non riuscito.

Ostermeier invita alla sottrazione: innanzitutto dal suo stesso registro iper-spettacolare a cui ha abituato gli spettatori. Una pièce in minore, per mostrare vite spezzate da una solitudine-prigione della normalità, che nemmeno la relazione di coppia rende capaci di costruire comunità. Può esserci cambiamento della società se non si trova l’equilibrio tra l’ egoismo dei nostri comportamenti personali e le idee generali? L’indicazione è che la battaglia politica debba partire dall’intimità, ben oltre la coscienza civile.  “Quali compromessi si possono accettare senza compromettersi?” si chiede Ostermeier nelle note di regia. Il focus è sulla “borghesia creativa” delle metropoli (proprio quella Berlino ben raccontata da Vincenzo Latronico in “Le perfezioni”, se si vuole un corrispettivo letterario, recentemente in Short List al Booker Prize) che forse non fa i conti con un vero scavo interiore, impigliata nei meccanismi di performance di sé. L’empatia degli attori diventa simbolica (ed empatia è una delle parole epocali del XXI secolo, non esenti da travisamento). 

Una delle donne rifugiate, Asa, dice a Nina: “non voglio parlare di me ad una donna che non conosco, affinché gli altri credano  di aver capito qualcosa di me, per provare empatia, compassione, mentre stanno seduti sui loro comodi divani e pieni di emozioni firmano un assegno”.  È il fallimento dell’etica dell’inclusività che non regge alla prova reale dell’umanità. Ostermeier richiama ad essere “realisti radicali” con noi stessi. Insomma, il privato, anche gli abissi  –  e dunque ben venga l’autofiction letteraria, potremmo dire – sia messo in discussione e ridiventi politica per tutti. Non solo quando siamo solidali con soggetti da identità non-conformi. Il realismo di Ostemeier e Zade tuttavia per ora non prevede ottimismo e redenzione. Per Nina e Mark, incapaci di cambiare, ci sarà infatti, l’indomani, l’arrosto della domenica col padre di Nina, e stasera un film su Netflix. L’inferno siamo noi.

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