di Emilia Margoni
È diffusa oggi una convinzione: la fine dell’umanità non segnerà la fine del mondo. Anzi la Terra, e con essa tutto l’universo, potrebbe giovarne, e non poco. Ecco: una controversa ipotesi sulla natura dell’universo vorrebbe smentire quest’assunto in apparenza del tutto plausibile. Ma la tesi è risalente: un sottile spirito antropocentrico, volto a promuovere la nostra esistenza quale criterio di comprensione della realtà fisica, si segnala lungo tutto il Novecento. Si pensi all’idea, avanzata da Robert Dicke nel 1961, in base alla quale il valore della costante gravitazionale non potrebbe essere significativamente diversa dal valore osservato, perché ciò renderebbe impossibile l’esistenza umana. O ancora, si pensi al noto articolo del 1973 di Christopher Barry Collins e Steven Hawking sul delicato equilibrio tra possibili condizioni iniziali dell’universo e requisiti necessari per consentire forme di vita per come le conosciamo.
Ma è nel 1986 che la rinnovata trazione antropocentrica giunse alla sua più esemplare articolazione, quando il cosmologo e matematico inglese John David Barrow e il fisico statunitense Frank J. Tipler dettero alle stampe un libro dal titolo The Anthropic Cosmological Principle. Ancorché compendiato da una generosa premessa dell’illustre fisico statunitense John Archibald Wheeler (colui che nel 1967 introdusse la fortunata espressione “buco nero”), il libro fu da subito al centro di dure polemiche, nonché osteggiato dalla comunità scientifica dell’epoca. Non sorprende dunque che il testo, per la sua attualissima forza di provocazione, sia stato di recente riedito da Adelphi con il titolo Il principio antropico.
Secondo il principio che dà il titolo al libro, non sarebbe possibile descrivere e comprendere l’universo senza partire da un dato irrefutabile e dirimente: la presenza degli esseri umani. Un tale principio può poi declinarsi in versioni più o meno radicali. Il “principio antropico debole” lega a doppio filo la descrizione dell’universo al nostro ruolo di osservatori. Secondo questa versione meno provocatoria, le osservazioni di qualsivoglia grandezza fisica e cosmologica non sono tutte equiprobabili, bensì soggette al vincolo di assumere l’esistenza di forme di vita basate sul carbonio. A partire da questa premessa, nella loro monumentale opera di oltre settecento pagine, Barrow e Tipler sondano le molte conseguenze in campi quali l’astrofisica, la cosmologia e la meccanica quantistica, per esplorare finanche gli esiti nei settori della biochimica e della biologia evolutiva. Le considerazioni generali si accompagnano a diverse incursioni tecniche di non sempre agevole comprensione, la cui utilità, peraltro, non risulta sempre evidente, soprattutto nella misura in cui i formalismi sembrano da sé soli voler convalidare posizioni invero molto controverse.
Ma c’è assai di più – e ci si muove così verso le versioni più radicali del principio antropico. In effetti, il tener conto degli osservatori, che direzionano la ricerca e ne stabiliscono obiettivi e modalità, è un’esigenza innegabile della natura contestuale di qualsiasi impresa scientifica. Ai nostri autori, una posizione tanto modesta non poteva bastare. Così, mentre si avanza nella lettura, emerge lo scopo ultimo del loro ambizioso programma: una serrata indagine indiziaria a favore del ben più impegnativo “principio antropico forte”, vale a dire l’idea per cui l’universo deve consentire, a un qualche stadio della sua storia, la formazione di osservatori con caratteristiche simili alle nostre. E si spingono persino oltre, avanzando il “principio antropico ultimo”: l’universo deve essere tale non solo da consentire lo sviluppo di “elaborazione intelligente dell’informazione”, ma da garantire, una volta raggiunta tale condizione, che una simile elaborazione non si estingua più. Non stupisce che una concezione tanto estrema abbia lasciato interdetti, quando non sdegnati, diversi colleghi e autori del tempo – benché Barrow e Tipler abbiano a più riprese sottolineato la
natura eminentemente congetturale del loro principio. Non stupisce neppure che, in ambito religioso e teologico, alcuni l’abbiano interpretato come una freccia nell’arco invecchiato ma sempre teso del creazionismo. In questa chiave, il principio antropico assevererebbe l’idea che l’universo sia “progettato” per la vita umana, come se questo progetto potesse intravvedersi proprio nei formalismi e nelle equazioni della fisica. Per questa ragione, nel corso dei decenni, la comunità dei fisici ha screditato il programma di Barrow e Tipler come l’inopportuno tentativo di ripristinare un ideale teleologico nell’ambito dell’ormai secolarizzata scienza contemporanea.
Ma al di là di questo, l’aspetto che al giorno d’oggi più lacera la comunità dei fisici è lo studiato anti-copernicanesimo sotteso al principio antropico. In un occidente sempre più sensibile ai temi dell’antropocene e della liberazione dalle pastoie dell’antropocentrismo, si fa sempre più fatica ad ammettere quanto sostenuto dalla versione forte del principio, cioè che per conoscere al meglio l’universo, e spiegare così come mai le leggi della natura sono quelle che sono, occorrerebbe in prima istanza definire in modo sufficientemente preciso cosa sia l’essere umano. Secondo questo principio, bello perché folle e folle perché inesatto, non basterebbe ipotizzare l’esistenza di alcune forze e alcune particelle fondamentali e da lì tirar su la teoria, ma bisognerebbe costruire quest’ultima a partire dalla nostra ineludibile presenza.
Eppure vien da chiedersi: davvero sarebbe più semplice spiegare cos’è l’essere umano e come quest’entità tanto misera permetta l’esistenza dell’universo? Si tenta di farlo da che mondo è mondo, e da che mondo è mondo si fallisce. Allora, sarà meglio lasciare che saperi vetusti e nobili come la filosofia o la religione si esercitino su un tema tanto impegnativo, un tema forse impossibile, e chiedere piuttosto alla fisica di immaginare un mondo libero da noi: un mondo fatto di pure forze e particelle, la cui evoluzione permette la nostra esistenza, ma per certo la eccede – e continuerà a eccederla anche il giorno in cui noi avremo fatto all’universo il favore di togliere il disturbo.
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