di Mario De Santis
(fotografia di Andrea Macchia)
Una figura di spalle, seduta, longilinea, con indosso una tuta, mentre guarda un paesaggio innevato e tiene stretta, accarezzandola, una gallina. Gli spettatori entrano e la osservano come fosse “Il viandante” con davanti la distesa di ghiacci The Artic Ocean, come i dipinti di Caspar David Friedrich. C’è un’atmosfera ultimativa, da romanticismo, in iGirl, testo denso, imprendibile, poetico e caotico di Marina Carr, drammaturga irlandese, ancora poco nota – ma in uscita da Einaudi – che Federica Rosellini ha messo in scena come regista e interprete. Nella traduzione di Monica Capuani e Valentina Rapetti, ha la forma verticale e assoluta dei poemi con i versi brevissimi. La co-creazione dello spettacolo con i video-art di Ra di Martino, onirici, perturbanti, e le canzoni di Daniela Pes, che con il sound design di GUP Alcaro, avvolgono il lungo monologo in un’atmosfera lirica e fosca, arcaica e apocalittica, di sospensione e tensione.
iGirl, titolo con gioco di parola-smart: scritta allude a una ragazza elettronica come la gallina che porta in seno, nel suo è affermazione solitaria di soggettività: “Io ragazza”. Tradizione lirica occidentale, ma in antitesi, voce di contro-soggetto che in 21 capitoli-monologo di personaggi vari, ripercorre in un coro le tappe della lunga storia di potere, segnata dall’affermazione dell’io-costruttore e distruttore della civiltà, il maschio Sapiens, da diecimila anni e più: trecentomila. Io-Sapiens che balbettando il suo primo “ergo sum”, caccia, uccide e mangia altre creature, sterminerà i pacifici Neanderthal, starà a lungo nel mito, a costruire una società “umana” in cui – come è traccia nelle tragedie greche – abbondava di crudeltà, di ferocia (nella genealogia di Edipo, c’è il cannibalismo di Tantalo, figlio di Zeus, e degli Atridi).
Della civiltà dell’antropocene, lato occidentale (altrove era lo stesso, ma più moderata) in iGirl parlano per primi gli animali- vittime dei Sapiens, “la specie sbagliata”. Che però è “sopravvissuta” grazie ai suoi “denti canini” “da vampiro”. Una storia in cui la violenza maschile è il sottofondo del progresso dell’arte, del pensiero, della musica, del bello. Verso l’alto va Prospero, in catene Calibano e Ariel. E soprattutto le donne, che qui testimoniano: Antigone, Giovanna D’Arco, Persefone, Giocasta (ma parlerà anche Edipo, uomo-chiave nel suo essere marito di sua madre e padre di sue sorelle) e parlerà anche “la ragazza” narratrice e autrice dell’oggi, a nome di tuttə. Carr costruisce un coro d’accusa alla lunga storia di assoggettamento di corpi, di nemici, di schiavi, di creature non conformi alla sua immagine e somiglianza. “Poveri uomini/Dio, Amali”. Rosellini pronuncia queste parole con affilata ironia le dice una voce di femmina paleolitica, già consapevole della “misoginia del seno” maschile che è – come la teoria delle stringhe – origine di un universo di deformazione che abbiamo chiamato Storia umana.
iGirl è un testo che muta nella versione di Rosellini, che ne freccia scagliata e furiosa, dalla preistoria al futuro imminente di ghiacci e galline meccaniche, come si rivela essere quella in braccio all’attrice (e meccanizzate lo sono le vere galline, negli allevamenti intensivi emblema evolutivo del benessere). Una resa dei conti con la civiltà e con il maschile, vibrante, ma con un paradosso di malinconia: ora che finalmente prende voce chi non l’ha avuta per migliaia di anni, deve constatare “che siamo a rischio”. “Lo dicono gli studi”: entro trent’anni inizia la Catastrofe. Come il viandante del romantico tedesco, siamo sull’orlo di un abisso di tempesta. Che beffa. Il velo di addolorata ironia di Rosellini trasmette con una calma angosciante tutto questo.
Gli occhi puntati sul pubblico, che raggiunge arrampicandosi su una passerella di assi di legno poggiate su alcune poltrone delle prime file, a volte in piedi come la Liberté dipinta da Eugène Delacroix o come una rockstar. Il testo di Carr è molto denso, forse anche troppo, procede per nodi, storia, mito, scienza. È rizomatico da un nucleo all’altro, accumula riferimenti, con metafore poetiche, sottende saperi, pretende attenzione per un’ora e quaranta dallo spettatore. Forse avrebbe giovato un editor, come fu Pound per Eliot della Waste Land. Rosellini potrebbe con tagli renderlo ancora più equilibrato concerto di linguaggi. Come testo iGirl. Carr ricorda nella composizione certi libri di Anne Carson o Olga Tokarczuc, ma ora è la sua incarnazione scenica.
iGirl, una coproduzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro Stabile Bolzano, Elsinor – Centro di Produzione Teatrale con il sostegno di Romaeuropa Festival dove ha debuttato, dopo un passaggio al Festival delle Colline Torinesi, tornerà a marzo al Teatro Astra di Torino e a Milano al Teatro Fontana. Dichiarato “transumante” da Rosellini, in questo spirito potrebbe mutare con ricompattamento drammaturgico. A maggior ragione per un dispositivo come iGirl. Rosellini lo sottrae al suo essere solo testo, “io-contro-Io”, tutto di testa, e lo inserisce in un flusso di poesia scenica con Ra di Martino e Daniela Pes, e gli dà voce vera.
Non solo nelle parti monologiche, in cui conferma le sue doti di grandissima attrice, restituendo con una naturalezza sublime un flusso concettuale non facile, ma perché soprassa il suo stesso impianto lirico e riscrive Carr, portando le parole oltre il Logos, nella tensione del corpo-freccia che attraversa la scena, si arrampica, urla, mima il gutturale ominide, respira, espone e rivela nel nudo una pelle significante, tatuata, con disegni di tarocchi (opera di Simona D’Amico), o quando canta alcune hit pop anni ’80, in cui gli Eurythmics sono archeologia quanto Antigone (“Presto sarai una di quelle cose antiche”). Tutto iGirl di Rosellini è controcanto corporale. Se in “Nella colonia penale” di Kafka, il soldato viene condannato e gli viene scritta sulla schiena la Legge a cui ha disobbedito, il corpo-in-scena qui, con impressi simboli, legge un destino nel nudo totale, trasforma un’offerta erotica in un rito di condivisione. Se in Kafka era l’acme tragico della civiltà patriarcale, iGirl propone una compartecipazione sensitiva di corpi in assemblea. Certa pesanteur verbale con la soluzione registica di Rosellini si fa via a la grâce, scatto di tensione ulteriore.
Il lungo resoconto di Carr tra paleo storia e scienza converge verso il punto chiave psicologico, messo a nudo con l’incontro con la Sciamana: “tutti i pazienti alla fine arrivano al padre” dice l’analista. L’io-ragazza-adulta, guarda il suo singolare paterno, morente. Forse desidera non condannarlo. Rosellini rende in modo anche commovente questo snodo, con una voce che è essa la “coltellata fino in fondo” di un cortocircuito di sentire ed essere. La corsa approda alla messa a nudo del corpo dipinto in scena che chiama a uno sforzo. Sulla pelle non ci sono sentenze kafkiane, ma domande di interpretazione. Che ci sia futuro o no. Questa “io” del noi, è la ragazza che sa dalla sciamana che “storicamente Il mondo appartiene a loro” (i maschi) e da Persefone che è un piacere della contraddizione la “seduzione della caverna nera” di Plutone. Sa che “era tutto prevedibile” per la specie che non lascerà traccia. Ma in questo paesaggio di “burrasca” – aggiunge e insegna la Ragazza-noi – “abbiamo il vento contro”. Però “lo abbiamo sempre avuto” dice e “questa è la cosa più confortante”. E forse è un’ultima chance.
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