In queste settimane di proteste in Francia, al fronte “urbano” che manifesta contro la riforma delle pensioni, si è aggiunto un fronte “rurale” che lotta contro la realizzazione di 16 bacini idrici nel sud-ovest della Francia: sabato 25 marzo circa 30mila persone si sono radunate a Sainte-Soline, piccolissimo comune nella regione della Nuova Aquitania, dove il primo di questi bacini è in corso di realizzazione: costerà 60 milioni di euro, per il 70% coperti dallo stato francese, e sarà a vantaggio solo dei grandi agricoltori che nella regione coltivano principalmente mais per gli allevamenti.
Sono i contadini a guidare le proteste – iniziate nel 2017, quando si cominciò a progettare questi bacini, che inizialmente dovevano essere 19 – della Confédération paysanne e Les Soulèvements de la Terre, insieme ad altre associazioni raccolte attorno al collettivo Bassines Non Merci: la lotta non è solo contro la realizzazione dei bacini ma contro ciò che rappresenta. Come il fenomeno del water grabbing, l’accaparramento di acque da parte delle grandi aziende a discapito dei piccoli contadini e degli abitanti del territorio: in queste enormi piscine verrà pompata dalle falde una quantità d’acqua che gli ecosistemi non possono ricostituire in tempi brevi. Significa sottrarre a tutta la comunità una risorsa insostituibile e sempre più scarsa, aggravando il fenomeno della siccità, per mantenere in piedi un sistema agricolo e produttivo insostenibile: sono insostenibili le monocolture di mais, perché ad alto impatto e ad alte esigenze idriche, ed è insostenibile il sistema degli allevamenti intensivi per il quale sono destinati, in gran parte, i cereali prodotti. La lotta quindi non è solo contro i bacini ma contro un modello agricolo industriale che è ormai obsoleto e basato sulla falsa premessa di risorse illimitate.
Come funzionano i bacini
I bacini sono immensi laghi artificiali (con una superficie di circa 10 ettari) rivestiti in plastica, che non raccolgono acqua piovana o acque reflue, ma pompano le riserve idriche dalle falde freatiche nel periodo invernale, quando queste sono più sature, per stoccarla e utilizzarla poi per l’irrigazione nel periodo estivo: la legge francese prevede appunto che nei momenti di siccità idrologica (cioè quella relativa al livello di laghi e fiumi) più grave, le autorità prefettizie possano imporre un divieto di irrigazione; il divieto può essere aggirato attingendo a invasi di accumulo disconnessi però dalle falde nei periodi di emergenza: il bacino di Sainte-Soline, e gli altri quindici previsti, serviranno a questo.
L’accesso alle riserve dei bacini è concesso esclusivamente al consorzio di aziende che hanno promosso il progetto: queste sostengono solo il 30% dei costi, il restante 70% è infatti a carico dello stato francese, si appropriano di una risorsa naturale comune– l’acqua di falda appunto – per farne un uso privato, in quantità che non possono essere recuperate dal normale ciclo idrico, soprattutto quando, come sta avvenendo, le precipitazioni sono costantemente scarse. Una posizione di forza ingiusta in tempi di siccità diffusa, e anche insensata: per quanti anni ancora potrà essere portato avanti un modello agricolo che ha così grandi esigenze idriche? Queste opere dal così alto impatto ambientale, che non faranno che peggiorare la situazione già grave, per quanto tempo ancora permetteranno di tenere in piedi coltivazioni intensive senza affrontare per davvero gli effetti della crisi climatica, di cui sono concausa?
Siccità e agricoltura
L’agricoltura intensiva, infatti, non solo ha grandi esigenze idriche, ma accentua il fenomeno della siccità per diversi motivi: gli appezzamenti che vengono lasciati spesso scoperti, senza vegetazione, fra una coltivazione e l’altra; le monocolture che distruggono la biodiversità e che impongono varietà standard senza tenere conto della specificità di un determinato territorio; l’uso di sostanze chimiche di sintesi e le lavorazioni troppo profonde che impoveriscono la presenza di batteri, funghi e sostanze organiche nel suolo: tutti questi elementi contribuiscono a rendere il terreno sempre meno capace di assorbire e trattenere le precipitazioni, diminuendo quindi la normale capacità delle falde di “ricaricarsi” e accentuando i fenomeni di erosione e alluvioni.
Il modello agricolo che portano avanti i contadini e le contadine delle confederazioni è invece un sistema resiliente, che punta alla diversità agricola, invece che alle monocolture; al risparmio idrico attraverso la selezione di varietà più resistenti ai climi aridi e alla loro evoluzione continua attraverso la riproduzione libera delle sementi; al ripristino di un normale ciclo dell’acqua che possa limitare il progredire della siccità e la preservazione delle riserve naturali delle falde; alla salvaguardia di un ecosistema che protegga la fauna e la flora selvatica, riducendo l’uso dei prodotti chimici e destinando parte dei terreni a zone arbustive, boschive ed erbacee; a sistemi di rotazione delle coltivazioni che permettono la costante copertura vegetale dei suoli; all’arricchimento della sostanza organica presente nel suolo e delle forme di vita che lo abitano, che lo rende anche capace di catturare e stoccare la CO2. Un modello agricolo che permette quindi di far fronte al fenomeno della siccità non solo attraverso il risparmio idrico nell’irrigazione, ma anche andando a scalfirne le cause principali.
La violenza
I cortei di Sainte-Soline hanno sfilato dietro i grandi totem degli animali simbolo della fauna selvatica minacciata dal cantiere del bacino – l’otarda, l’anguilla e la lontra –, accompagnati dai trattori dei contadini e da circa 30.000 persone che marciavano, pacificamente, tenendosi per mano; alcuni dei manifestanti hanno piantato circa 300 metri di siepi, come esempio di azione necessaria per affrontare l’emergenza idrica e climatica; altri hanno allestito una serra agricola che verrà utilizzata da un contadino della zona; qualcun altro è riuscito a superare la zona vietata, accedere al cantiere e mettere fuori uso una delle pompe e la condotta principale che la collegava al bacino.
L’accesso all’area del cantiere ha scatenato la reazione della polizia: secondo gli organizzatori, ci sono stati circa 200 feriti, di cui 40 molto gravi, e due persone che si trovano in una situazione molto critica e stanno rischiando la vita. Il racconto delle autorità parla di azioni di violenti – il ministro degli interni francese Gérald Darmanin li ha definiti pericolosi eco-terroristi – a cui la polizia ha dovuto reagire per riportare l’ordine. Sono tutte definizioni difficili da prendere per vere pur nel frammentario racconto che è arrivato: da un lato ci sono delle persone che difendono il diritto di tutti di avere accesso a un bene pubblico indispensabile come l’acqua e il dovere dello stato di garantirne un uso equo, rispettoso, razionale (e, quando serve, razionato) e dall’altra c’erano degli agenti a difesa di una buca nel terreno. Una buca, dei tubi, un attrezzo di ferro che dovrebbe svuotare le falde, un progetto faraonico, dannoso, iniquo, utile solo a mantenere in piedi ancora per qualche anno un sistema produttivo che prima o poi dovrà crollare comunque, difeso con granate, assalti di mezzi blindati, lacrimogeni. Una violenza dispiegata a difesa di un’altra violenza, sistemica: quella predatoria di un modello produttivo che sta distruggendo il pianeta che abitiamo.
Le azioni di Les Soulèvements de la Terre stanno alzando il livello dello scontro sul fronte delle lotte ambientaliste e climatiche: dalle azioni di disobbedienza civile non violenta di gruppi come Extinction Rebellion, al sabotaggio attivo e al danneggiamento di beni privati. Il passaggio è semantico ma non solo: mettere fuori uso un’opera o un impianto dannosi per l’ambiente non è un sabotaggio ma un disarmo, cioè rendere inoffensiva quella che è un’arma di distruzione. E la pratica del disarmo diventa accettabile su scala più vasta: non più l’azione delle frange più estreme dei movimenti, ma una pratica che può essere condivisa anche in seno alla nonviolenza.
È questa potenzialità, quella di raccogliere consenso, di riunire in modo trasversale gli altri movimenti e di portare il livello dello scontro più in alto, che ha scatenato una reazione da parte della polizia che sarebbe davvero ingiustificata: non stavano proteggendo un cratere vuoto nel terreno, ma un sistema che non vuole essere messo in discussione. La casa editrice Edizioni Malamente ha tradotto in italiano il rapporto dell’intelligence francese al riguardo che conferma questo timore e che al tempo stesso dà la misura di quanto queste lotte stiano funzionando e abbiano davvero la potenzialità di cambiare le cose.
In un articolo pubblicato prima delle proteste a Sainte-Soline ma dopo quelle contro la miniera di carbone di Luetzerath in Germania e agli attacchi contro movimenti come Just Stop Oil, Stella Levantesi ha chiesto a Rebecca Solnit cosa ci dice la violenza della repressione:
“La violenza è chiarificatrice. Più di tutto la violenza maschera la paura. La paura di sapere che la pressione per chiedere un’azione sul clima non è mai stata così elevata come oggi, che chi ha contribuito a creare la crisi climatica e a promuovere prodotti dannosi alla salute e alla vita sarà ritenuto responsabile, la paura che sia ribaltato lo status quo in un processo che toglie profitto, potere e privilegio a chi lo ha avuto finora”.
(Stella Levantesi su Internazionale)
La brutalità della repressione è la reazione evidente di un sistema che si sente stretto fra le evidenze scientifiche – i rapporti dell’IPCC che, nonostante subiscano anch’essi una “limatura al ribasso” in ogni stesura definitiva, mostrano con chiarezza che l’inazione politica sta restringendo sempre più la finestra per agire concretamente e contenere gli effetti della crisi climatica entro i limiti della vivibilità del pianeta – e la pressione dei movimenti che stanno, nonostante tutto, raccogliendo consenso e attenzione: è questa attenzione – il sostegno, il supporto più ampio possibile – che può rendere davvero efficace la loro spinta per il cambiamento e al tempo stesso contenere le azioni nel campo della nonviolenza.
Il dito e la luna
Come al solito, però, i motivi delle proteste sono passati in secondo piano nella cronaca degli eventi: i giornali italiani hanno raccontato degli incidenti, della violenza “da entrambe le parti”, se non solo da parte dei manifestanti. Il meccanismo è il solito, è lo stesso di sempre, di Genova, dei cortei No Tav – alcuni rappresentanti del movimento erano presenti anche a Sainte-Soline –, ma anche delle azioni estemporanee più recenti di Ultima Generazione che, nonostante siano apertamente e del tutto non violente, vengono raccontate sempre come un affronto, una prepotenza, un danno irreparabile (che poi irreparabile non è mai) al patrimonio comune.
Così, del lancio di vernice a Palazzo Vecchio, abbiamo visto la reazione spropositata del sindaco di Firenze Nardella – scomposta, anche violenta se rapportata all’innocuità dell’azione che l’ha provocata –; ne abbiamo visto un’infinità di meme che hanno ridotto tutto a una risata volatile; abbiamo saputo l’esatto volume di acqua utilizzata per ripulire, 5.000 litri, o 5 metri cubi – che però come numero assoluto non ci dice niente, e si presta bene quindi al contrattacco dell’indignazione, ma se rapportato all’acqua necessaria a produrre una bistecca fiorentina, proposta ovunque a ogni turista della città, che è pari a quasi tre volte tanto, può riportare tutto a una dimensione più realistica –; abbiamo però, pian piano, anche visto filtrare, finalmente, un tema che continua a rimanere sullo sfondo nonostante ci stia travolgendo. Un tema che appare solo quando avviene una tragedia – la Marmolada che si stacca, il Po in secca, le alluvioni violente nelle Marche e in Sicilia – senza che venga tracciato un collegamento fra questi eventi e una crisi sistemica, o quando degli attivisti decidono di compiere un’azione più visibile: se l’indignazione è un vettore per portare in primo piano questi temi, se è il dito con cui indicare la luna, gli attivisti se ne stanno assumendo il peso – il peso di venire insultati, derisi, odiati, ma anche perquisiti, indagati, puniti: è al vaglio al Senato un disegno di legge della lega, a firma Claudio Borghi, per introdurre il reato di danneggiamento di beni culturali e artistici e l’inserimento dei reati di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici tra quelli che prevedono l’arresto facoltativo in flagranza – purché fra i tanti distratti, infastiditi e indignati dal dito, qualcuno cominci a guardare la luna.
L’estate scorsa il gruppo romano di Ultima Generazione ha organizzato delle azioni di protesta che si piazzavano in cima alla scala dell’odio di qualunque automobilista della capitale: il blocco del traffico. Taglia a un romano una gamba, bruciagli il gatto, accoppagli la nonna, ma non bloccargli il Grande Raccordo Anulare, che poi è comunque bloccato lo stesso ogni giorno dell’anno, sempre per motivi imperscrutabili. Così se per una volta c’è un responsabile in carne e ossa su cui scaricare la frustrazione degli altri 364 giorni di traffico insensato, allora lì si scatena il demone che cova in ogni anima che passa un terzo della sua vita terrena imbottigliata sull’asfalto. C’è il video di un uomo alla guida di un suv che continua ad andare avanti, nonostante il muso della sua macchina abbia ormai incastrato una giovane attivista che era seduta sulla strada rischiando di farle seriamente male. Gran parte dei commenti a quel video sono di sostegno all’automobilista. Eppure il simbolismo non è mai stato tanto chiaro ed efficace: un maschio di mezza età, alla guida dell’autovettura emblema dei consumi spropositati, che non sente ragioni e vuole continuare la sua marcia nonostante questo significhi schiacciare una giovane donna, le prossime generazioni, il loro futuro, la loro possibilità di vivere su questo pianeta.
Per poter filtrare, le notizie sulla crisi climatica devono attraversare due barriere. La prima è cognitiva, la nostra mente fa fatica a collegare le evidenze, a decifrare i segnali, a immaginare un evento su così larga scala come quello che stiamo attraversando, e a rinunciare alla convinzione che tutto sia ancora normale; l’indignazione, l’azione inaspettata, un’apparizione che scuote il paesaggio urbano a cui siamo abituati – una zuppa lanciata all’improvviso su un quadro in un museo, l’acqua della fontana della Barcaccia a piazza di Spagna che diventa nera per il carbone –, permette di rompere questa barriera:
“causando un disturbo temporaneo ma dirompente, interrompono il flusso della quotidianità creando uno squarcio nella nostra illusione di normalità, rendendo visibile la violenza strutturale che già molte persone stanno subendo (anche in Italia). Non andremmo al lavoro, o a un museo, o alla prima della Scala con la stessa tranquillità se sapessimo che tipo di mostro stiamo nutrendo mantenendo intatto un sistema fossile. Le azioni climatiche dirompenti servono precisamente a sabotare questa pericolosa tranquillità”.
La seconda è una barriera propria del sistema dell’informazione: la crisi climatica, nonostante sia l’evento più grande, pericoloso e devastante con cui abbiamo a che fare, non è una notizia. Non è una notizia del giorno, né di oggi né di ieri né di domani, perché si muove sulla scala dei decenni. Lo è solo nei casi in cui accade un evento catastrofico, che però viene sempre trattato come entità singola e non come parte di uno sconvolgimento globale di tutti gli equilibri. Inoltre, spesso il sistema dell’informazione subisce pesanti condizionamenti da parte delle industrie del fossile, che hanno indirizzato a loro favore le notizie sul tema per nascondere gli effetti di una crisi di cui sono responsabili.
La giustizia
Anche in questo caso, il sistema dell’informazione non ha funzionato: sono pochissimi i servizi e gli articoli che hanno spiegato le ragioni delle rivolte contadine in Francia; mentre è facile capire, e condividere, le ragioni della protesta contro la riforma delle pensioni anche senza una spiegazione articolata, più difficile riuscire a sostenere una lotta che viene presentata genericamente contro dei bacini idrici, senza mostrare i motivi per cui quei bacini sono sbagliati da un punto di vista ecologico e sociale. Senza far comprendere che quelle persone che manifestano, e quelle che ora sono in fin di vita, erano lì per difendere la giustizia – climatica, ambientale e sociale: tre teste che non possono essere scisse –, senza dar modo di collegare quello che sta accadendo in Francia con quanto accadrà anche in Italia a breve: abbiamo un governo che si è schierato fin da subito dalla parte di Coldiretti e di un tipo di agricoltura ben specifico – la prima uscita ufficiale da presidente del consiglio di Giorgia Meloni è stata proprio a “Villaggio Coldiretti” – e una situazione di siccità molto simile a quella che sta attraversando la Francia, con un’estate in arrivo in cui bisognerà razionare le risorse idriche. Quello che accade a Sainte-Soline ci riguarda da vicino, un’anticipazione di quanto accadrà anche qui, eppure non ha trovato sui giornali lo spazio che meriterebbe un’emergenza di questa portata.
La lotta per la difesa di un territorio specifico non è solo legata a quel territorio ma a un’idea di futuro: le risorse fondamentali per la sopravvivenza che saranno sempre più scarse, come l’acqua, come verranno distribuite? Seguendo criteri di equità e giustizia o tutelando solo gli interessi dei più forti?
Vale per l’acqua, vale per le terre rimaste fertili, vale per i territori che saranno ancora vivibili – non sommersi dagli oceani, non devastati da eventi meteorologici estremi, non desertificati o non colpiti da ondate di calore intollerabili. A rendere ancora più chiara la portata universale di questi temi, anche la battaglia per l’acqua è stata portata all’attenzione della commissione per i diritti umani dell’ONU: La Confédération Paysanne, tramite il Cetim, ha presentato una dichiarazione in cui si contesta la realizzazione dei bacini come violazione del diritto umano fondamentale di accesso all’acqua e per l’impatto che potrebbero avere sulle condizioni di vita e di lavoro dei contadini del territorio.
Non è l’unico fronte in cui la battaglia per la giustizia climatica diventa battaglia per la giustizia in ogni altra declinazione possibile. C’è il fronte dei risarcimenti, che ha dominato le ultime COP: chi paga i danni provocati da un clima impazzito, che spesso ricadono proprio sui paesi che non hanno provocato questa crisi? C’è il fronte della salute pubblica: chi risarcisce quei territori diventati insalubri e velenosi per i propri abitanti?
Il mondo in cui viviamo sta cambiando – sarebbe più esatto dire che sta crollando –, i movimenti ambientalisti offrono una visione di un futuro possibile, radicalmente diverso e più giusto, per tutti, e l’alleanza con le associazioni contadine dà una sponda concreta a questa visione, la più concreta possibile: quella di chi lavora la terra e produce il cibo.
Gli attivisti che a Sainte-Soline si sono arrampicati sulle impalcature per sabotare gli impianti che collegano il bacino alla pompa principale, lo hanno fatto mentre uno striscione dichiarava che l’azione era fatta “pour le vivant”: una lotta che non appartiene solo ad alcuni contadini francesi, alle frange della sinistra “estrema” o agli ambientalisti, ma comprende il destino di tutta l’umanità, e di tutti gli esseri viventi.
