Pubblichiamo l’incipit di “Mia e la voragine” di Diana Ligorio, uscito per TerraRossa Edizioni.
di Diana Ligorio
Eravamo scese solo noi alla fermata, in quel buio umido che c’era solo là. Mamma accese la torcia. Ma cosa vuoi illuminare, che cosa?! Finanche la corriera sbuffò e se ne ripartì in fretta, beata. Di notte era meglio arrivarci che di giorno perché almeno il paese non lo vedevo. Le lucine delle case fioche fioche come un camposanto. Erano lontane, erano, perché in mezzo, tra noi e il paese, c’era un fosso. Ma non un fosso che lo puoi saltare. Un fosso grande come una piazza, che non ne vedi il fondo, arriva giù e poi risale su. Dentro ci stanno pure gli alberi, credo ginepri e certamente i fichi d’India spinosi e duri. Ci scorrono i fiumi sottoterra e vengono su, di qua e di là sulle pareti, come venuzze azzurrine. Questo fosso così particolare sta soltanto là. Infatti gli hanno dato un nome: gravina, lo chiamano. Il paese in questione non lo conosce nessuno, nel senso che quando dicevo sto andando a fare l’estate in questo paese, nessuno lo aveva mai sentito. È Dolina, il paese di dove è originaria mia madre ed è per questo che tutte le estati si fanno là, io e lei.
Insomma, lei accese la torcia. Prima la agitò perché la lampadina era bloccata, poi puntò la gravina, intanto che la polvere della corriera si posava. «Gravina viene da gravidanza?» le domandai, ma come mi venne in mente di chiedere, non lo sapevo che a lei non bisognava dire niente?! Solo che mi era uscita la domanda senza pensare; io che pensavo mille volte prima di parlare, ma cosa mi era passato per la testa?! Infatti lei: «Ma certo che no! La gravidanza è il periodo clinico di gestazione che va…» e tutte le parole sue sbattevano nella gravina e ritornavano nell’aria tre volte. Alla fine disse che avevo detto una sciocchezza e io abbassai gli occhi perché non riuscivo a spiegarle che la gravina è una fossa a forma di u e secondo me è una pancia nella terra e la gravidanza è… ma potevo spiegare a una dottoressa come la vedevo io questa cosa?! Non una dottoressa come sia sia, ma la più brava e famosissima dottoressa di Dolina: la Dottoressa Alma Distante. Tutti l’aspettavano e lei non poteva non tornare l’estate e non aprire il suo ambulatorio medico per bambini, perché nella sua testa in paese c’era bisogno di lei, eccome se ce n’era bisogno: pediatri del suo livello non ne esistevano a Dolina se non addirittura al mondo. Non se lo poteva perdonare se non tornava. Io invece le potevo perdonare che mi faceva fare tutte le estati in quel posto sperduto con lei che lavorava tutto il tempo e io non sapevo mai che fare. Ma nella mia, di testa, glielo potevo perdonare?
E questa cosa che a lei tutti la aspettavano e la volevano e dove passava lei erano tutti ai suoi piedi, voleva dire che a me nessuno mi calcolava. Qualcuno a Dolina sapeva chi ero? No, ero la figlia della Dottoressa e basta. Invece ho un nome e un cognome come tutti i bambini e le bambine del mondo. Mi chiamo Mia Balestra – a scuola semplicemente Balestra. Bastava chiedermelo, il nome. Chiedermelo perché io non è che mi mettevo di mio a dire come mi chiamo se non era qualcuno a domandare. Era proprio come in quel momento che lei prese la strada verso casa e aveva il cerchio di luce intorno. Che era della torcia ma era sempre così. Lei era sempre nella luce, io no. Ero un’ombra dietro mia madre, e gli altri ci mettevano i piedi sopra.
Camminavamo verso casa e io stavo al buio e seguivo la luce della torcia nella sua mano per capire dove mettere i piedi. Non ero velocissima perché mi tiravo la gamba come una coda. Come una sirena, esattamente. Una sirena fuori dall’acqua si trascina la coda uguale a me. La gamba sinistra andava sempre per i fatti suoi. Ad esempio, noi stavamo sul sentiero verso casa, cioè, io dovevo andare con mia madre a casa e lei, la gamba, mi tirava indietro, verso la fermata della corriera, perché se ne voleva scappare via da quel postaccio. Così era per tutte le cose. Io dovevo stare un po’ con i bambini di Dolina e la gamba mi tirava verso i campi dove stanno soli soli gli ulivi con quei tronchi mostruosi. Mi ero fatta l’idea che la gamba si doveva mettere sempre contro. Tutte le volte mi doveva far pensare che quello che stavo facendo non lo volevo fare e lei mi tirava dove mi sarei divertita di più. Mia madre qualche anno prima mi aveva detto: «La tua camminata è una sottrazione dell’appoggio – disse proprio così – una sottrazione dell’appoggio durante la deambulazione». Quando voglio ridere penso a questa frase; ma anche quando voglio piangere.
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