Se, come recita l’immortale incipit di Anna Karenina, “tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo”, non c’è dubbio che una peculiare infelicità abiti tutte le reti famigliari attorno a cui si sviluppano i romanzi di Rosa Matteucci, scrittrice tra le più letterarie del panorama contemporaneo italiano, fedele all’idea di un mondo feroce che attraverso i filtri dell’ironico, del comico e del grottesco trova spazio tra le pagine del romanzo rivelando il suo carattere più autentico, fatto sì di dolore, ma anche di improvvise e decisive illuminazioni celesti (come accade nel suo folgorante romanzo d’esordio Lourdes). La scrittura di Matteucci e il clima dei suoi lavori rimandano alla mente, proprio per la commistione tra tragedia e risata, le pagine di scrittori come Samuel Beckett e Thomas Bernhard, ma ciò che segna l’autonomia del suo percorso, anche all’interno della scrittura italiana contemporanea, è l’attenzione quasi monomaniaca verso un unico argomento, la famiglia, una rete di relazioni umane in cui ognuno si trova a dover sopravvivere felicemente o suo malgrado.

Ciò che rende singolare il modo in cui Matteucci tratta il tema famigliare, che tra le pieghe della narrativa contemporanea è diventato sempre di più un tema standard su cui innestare ricerche strappalacrime o percorsi di emancipazione che si concretizzano in fughe più o meno lontane, è la complessità, una parola che ben poco si accorda agli orizzonti contemporanei, ma che nei libri di Matteucci costituisce l’ossatura della storia stessa perché le vicende che ruotano attorno agli elementi della famiglia non strizzano l’occhio alle mode editoriali, ma si radicano invece nella tradizione più profonda del romanzo italiano, in storie dove lingua e personaggi si fondono alla perfezione.

Basterebbe già il titolo del nuovo romanzo di Rosa Matteucci a renderne evidente l’orgogliosa inattualità perché Cartagloria (pubblicato da Adelphi) rimanda a un mondo desueto, quello del rito tridentino, uno strumento liturgico che non fa più parte della messa dalla riforma del 1965, ma che nell’opera di Matteucci testimonia la quiete dopo una ricerca spirituale affannosa che muove dalla morte del padre della protagonista e che si snoda, pagina dopo pagina, tra credi diversi, dalla pratica giapponese buddhista del Soka Gakkai (da cui la narratrice viene esclusa perché portatrice di troppo dolore: “far sgorgare tutto questo dolore è pericoloso, potrei schiattare da un momento all’altro. Sono in pericolo di vita. Senza troppe cerimonie, vengo messa alla porta. Sono talmente pregna di dolore che mi dimentico le scarpe”) all’esorcismo “certificato” di uno strano prete che vive in un eremo e ascolta i fedeli in un luogo ambiguo (“Il frate mi ricevette in una sorta di stanza bunker, lui assiso in poltrona dietro un vetro antiproiettile che divideva l’aula a metà”).

Il lettore scopre subito che la protagonista vive un’esistenza strana, immersa nella natura e completamente assorbita da un padre dal “petto ampio e possente, sconfinato come l’altopiano del Tibet”, vestito come un elegante ufficiale di Napoleone (non a caso la narratrice annota che ogni momento della sua vita è stata una “battaglia di Austerlitz”), una vita diversa da quella di tutti i bambini, senza l’incoscienza dell’infanzia o la vacanza al mare, senza una “casa dove non si fosse minacciati di continuo dagli sfratti esecutivi, dove il riscaldamento si potesse accendere e spegnere azionando un cursore e d’inverno non ci si dovesse bardare per evitare l’ipotermia”, ma anche senza poter “frequentare la scuola dell’obbligo provvista di libri di testo, andare in palestra con la tuta e le scarpe da ginnastica, essere visitata dal medico specialista, pranzare al ristorante”. Chi è il responsabile di questa vita strana? Forse il padre così libero nei suoi viaggi mentali da rendere superflua la realtà? Poco importa perché l’evento che scuote la protagonista è proprio la sua morte che la invita a interrogare Dio sulle motivazioni di questa dipartita, sul perché, “per un capriccio”, il “Dio dei cristiani lo aveva lasciato morire”: “a tutto ciò che mi era stato inflitto si aggiungeva la morte di mio padre: ancora una volta il trascendente si manifestava quale condizione ineludibile del reale”.

Viaggiare per il mondo interrogando le più varie divinità diventa allora il prisma attraverso il quale Rosa Matteucci si inserisce con originalità tra le pieghe del romanzo famigliare, con la scomparsa del padre che diventa grimaldello per conoscerlo e, soprattutto, conoscersi: seppure anche qui ci si trovi davanti a una ricerca su sé stessi, sono gli strumenti di Matteucci a rendere questa vicenda straordinaria, perché il perfetto ed equilibrato miscuglio tra i toni del comico e del tragico offrono una vicenda che pur non prendendosi troppo sul serio riesce, senza artifici, a parlare al cuore. L’entroterra a cui approda Matteucci in queste pagine è un sorta di “porto sepolto” dove la scrittrice “torna alla luce con i suoi canti” che poco si confanno al frenetico ritmo moderno, come se la ricerca spirituale della protagonista impersonasse anche un desiderio di vivere un’altra vita, una contestazione del quotidiano divorato dall’ansia.

A questo anelito sembra obbedire l’ondeggiare di una lingua cangiante e antica che richiama i grandi e dimenticati maestri della letteratura italiana e la scoperta finale del vetusto rito tridentino, la cui liturgia “sempre diversa da sé eppure eternamente uguale a sé” porta a “uno stato di beatitudine dove è manifesto che il Cristo non c’è sempre e non rimane nemmeno tanto e quando c’è, non tollera altro pensiero, altra sollecitudine che sé medesimo”. In Cartagloria sembra risuonare come un monito il celebre adagio del Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” dice il Principe Tancredi e se noi lettori vogliamo che tutto cambi, che il romanzo torni alla sua forma assoluta di ricerca dell’uomo sulla propria natura, è necessario non inseguire ciecamente il moderno ma rifugiarsi alle sue radici, rifugiarsi in Cartagloria di Rosa Matteucci.

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

matteomoca@minimaetmoralia.it

Matteo Moca è dottore di ricerca in italianistica e insegnante. Scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio, Domani, L'indice dei libri del mese, Blow Up e il blog di Kobo. Ha pubblicato le monografie "Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett",  "Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi" e "Un'esigenza di realtà. Anna Maria Ortese e la dipendenza dal fantastico"

Articoli correlati