Ha capito subito perché lo aveva fatto.

Per combattere una cosa maligna che ci abbiamo dentro e che cresce e ci trasforma in bestie.

Si è tagliato in due la vita per liberarsene.

Niccolò Ammaniti

 

Scrivere è un fatto di una solitudine estrema, una persecuzione di voci che seppur gentili finiscono per intasarti il cervello al punto tale che ignorarle diventa impossibile: e così si scrive. Voci che, attenzione, non sempre appartengono allo scrivente ma si intrecciano così tanto alla forma delle dita che ogni tasto pigiato, ogni dialogo concluso, ogni paragrafo editato somiglia sempre più al mostro che ci cammina al fianco. O dietro. O dentro. O, insomma, dove vi pare. E sebbene non invidi mai alcuno scrittore, esclusi gli irraggiungibili che ascoltano voci di demoni celestiali e tremendamente ispirati, ci terrei a mettere le cose in chiaro. Non avrei voluto trascorrere neppure una mezz’ora accomodato nella testa di Stefano Bonazzi durante la stesura del suo terzo romanzo. Titanio, che arriva dopo essere arrivato finalista per ben tre edizioni consecutive al Premio NebbiaGialla dedicato alla narrativa breve a tinte scabrose, risente dell’esperienza con la forma breve. Si presenta al lettore come un romanzo diviso in quattro parti e affidato almeno a tre voci diverse, ma che potrebbero diventare anch’esse quattro in base alla nostra personale considerazione dei disturbi di personalità, e procede attraverso capitoli brevi e frammentati che diventano poi lunghi e articolati, si accorciano e si allungano sincopando il corso degli eventi. Provo sempre un certo imbarazzo a raccontare la trama di un romanzo, anzi a dir la verità mi arrivano nelle orecchie i versi di un Battisti un po’ rivisitato ma che sciocco sei a parlar di trame, a parlar di vecchie storie e allora lasciamo che il racconto si racconti da solo: anche perché, in questo testo più che in altri, il pericolo di spoiler è alto. Spero vi basti incontrare, tra queste parole, romanzi e racconti, storie che mi hanno ricordato questa storia e che possono offrirsi come la miglior cartina di tornasole possibile.

Non è più tempo di cannibali, sperimentalismo e impronta pop non hanno più nulla della carica corrosiva degli anni ’90, ne risulterebbe soltanto una patetica riesumazione se persino i più degni esponenti del movimento sono ormai scomparsi – letteralmente o soltanto dalle scene – o si sono reinventati per restare in vita. Eppure, limando la forma e concentrandosi sui contenuti e sull’odore della pagina, qualcosa della dissacrante, rivoltante e spregiudicata fame dei cannibali è rimasta. E questo romanzo, dispiace molto per l’autore, me ne ha restituita una parte. Quella che porta il nome di Niccolò Ammaniti, o meglio del primo Niccolò Ammaniti come dicono quelli bravi che vogliono rimarcare una sorta di ius primae noctis su questo autore, questo gruppo, questa corrente. Il primo era meglio, si dice sempre, e qui si intende l’autore di libri come Branchie. A proposito di questo testo, lo stesso Ammaniti scrive definendolo come un tumore maligno di una tesi di biologia: e allora Titanio potrebbe essere definita come l’estrema conseguenza di un incubo, della perversione per immagini da scomporre e sovrapporre. La fotografia è uno strumento di amplificazione del pensiero: Bonazzi nella sua altra vita da fotografo e artista visivo lavora con la grafica, inserisce elementi impossibili e irrazionali per creare nuove forme, corpi e identità inaspettate e indefinite. Non arriverò a sostenere che le carriere di un artista siano indivisibili e coerenti, ma non può non esserci una dialettica tra le parti, l’interesse per una materia di fondo indagata e affrontata – quindi poi risolta – in maniera differente. Se le immagini di Bonazzi sono poetiche, stranianti ma luminose, impossibili ma accoglienti, rinfrancanti, i suoi scritti diventano cupi, angoscianti, asfissianti. L’assurdo assume connotati mortiferi. Ma nel profondo si racconta sempre delle stesse mancanze: dell’affermazione di una gioventù combattuta tra il desiderio di realizzarsi e la capacità di inventare. Del corpo che spesso diventa strumento di identificazione ed enorme sorpresa, per sé e per gli altri. Mi tornano in mente i baffi dell’omonimo romanzo di Carrère, l’affermazione attraverso il corpo quando persino un dettaglio – se ignorato dagli altri e caricato di un significato simbolico – può diventare causa scatenante di una crisi profonda. Il giovanissimo protagonista di questa storia, geniale e intelligente quanto fragile e perverso, vive e sviluppa con il suo corpo e la sua identità un rapporto che è definitivo, estremo.

L’attenzione rivolta al fatto di cronaca, alla vicenda scabrosa che ha segnato il nostro tempo è un feticcio che la letteratura contemporanea sta riscoprendo. Pensiamo a Il mostro di Ceccherini, edito da Nottetempo, e non al libro di Renzi intitolato allo stesso modo (sic), oppure alla Città dei vivi di Lagioia, edito Einaudi. Due testi molto diversi da Titanio perché riferiti al fatto documentabile, una ricostruzione anche giornalistica, fatta di ricerca, studio e riscrittura: testi che ruotano attorno a fatti che, è bene notare, hanno segnato l’Italia. Titanio, invece, pure ricostruisce nella sua struttura un fatto di cronaca, una dramma, un delitto del quale il protagonista è colpevole, ma è finzione: la vicenda, se appartiene alla realtà è di tipo personalissimo. Di quel tipo che potrebbe aver scosso la vita dell’autore, quindi del singolo e non della società, della parte e non del tutto. L’attenzione rivolta al ricordo, al raccontare come forma non di esorcismo bensì di sottolineatura, abbraccia però questi tre diversi romanzi. Sembrano schierarsi dalla parte di chi vuole capire, vuole ribadire l’importanza di quanto accaduto perché, citando lo stesso Bonazzi, […] spesso ce lo dimentichiamo. E un mostro non vuole altro che essere dimenticato. E in Titanio l’autore fa di tutto per non lasciar il riposo dell’oblio ai suoi mostri. A proposito di dimenticare, stavo dimenticando qualcosa a cui ho fatto riferimento e poi ho lasciato scorrere: il ricordo di Ammaniti e le influenze, volontarie o meno, di una certa scrittura sulla genesi di Titanio.

Di Branchie, del lavoro sul corpo e l’affermazione di un’identità si è già scritto: sale operatorie, dottori, camici, dolore e speranza. Ma si può riconoscere un’affinità anche con Ti prendo e ti porto via – curiosamente il titolo della IV parte di Titanio è Portami con te – nel dettaglio basti pensare al mare. Un mare che, scrive Ammaniti, c’è ma non si vede e nel romanzo di Bonazzi invece è una presenza così forte, ingombrante e necessaria eppure ambigua, defilata e obliqua. Non è un bel mare, non c’è una bella spiaggia, non ci sono natanti ma immondizia, disperazione, rottami. Il mare c’è, ma non sembra quasi lui. Inoltre, sia il romanzo di Ammaniti sia quello di Bonazzi, scorrono seguendo il fluttuare di storie parallele, di movimenti nel tempo, di linee che si intervallano e sovrappongono. Narratori che si passano la parola e le lancette del tempo che vanno avanti e indietro, in modo arbitrario. Ed entrambi i protagonisti lottano e soffrono, sbagliano anche, soltanto per cullare un desiderio: quello di liberarsi del sé passato. In ultimo, senza arrivare all’Ammaniti più recente, citerei Io non ho paura per la prigionia narrata e descritta con claustrofobica precisione e che colpisce sia la vittima sia il carnefice. La capacità di Bonazzi nel dipingere luoghi isolati e nascosti, oscuri e periferici è ben allenata. Nonostante queste coincidenze che ricompongono un immaginario comune ciò che contraddistingue Ammaniti ed è quasi totalmente assente in Bonazzi è l’ironia. La parabola dei personaggi non compie tutto l’arco, non torna al punto di partenza con un sorriso amaro. Il grottesco non si afferma, ma lascia spazio al terrore e al disgusto, mitigati da un velo di empatia per il protagonista ragazzino. Bonazzi non si prende gioco del dolore, non impreziosisce con una scrittura allegra capace di farci dimenticare il buio: quello c’è e nonostante la pochissima luce si vede.

Fermarsi a Io non ho paura di Ammaniti ci impedisce di collegarci al suo più famoso, o meglio più premiato, vincitore dello Strega 2007 a dimostrazione che certa letteratura considerata di genere non solo vende ma può vestirsi anche dell’abito buono della critica. Però il metallo sotto la pelle, l’aria fredda che si respira nelle pagine di Bonazzi riporta ad altre suggestioni: al titanio che non si ossida, metallo capace di restare stabile in moltissime condizioni. È imperturbabile come il protagonista. Non si corrode ed è compatibile con il corpo umano. Ne è affine. Metallo come Acciaio, titolo premiato e stregato della Avallone, che condivide non soltanto questa suggestione nel titolo ma anche la costruzione di una città dentro la città, emarginata e pericolosa, qualcosa che in Bonazzi si veste di esasperazione al punto da diventare una Ciambella. Forse perché non tutte le ciambelle vengono con il buco, simbolo di una possibile e perenne possibilità all’errore, all’incompiutezza? O proprio perché con il buco sono mancanti di una parte, la parte stessa che manca al protagonista?

Siamo di fronte, senza dubbio, a un romanzo di deformazione come ultimamente se ne leggono molti, quasi a continuare la tradizione del romanzo di formazione ma in una sua variante più contemporanea. Frasi come I mostri sono loro evidenziano la distanza e il ribaltamento del senso comune, della percezione del reale. Un reale che è così insopportabile da doversi stravolgere, e non bastano droga e alcool, c’è bisogno dei libri, di leggere, di arrivare a credere che nulla di tutto questo è reale. Come nel romanzo di Palomba, Quando le belve arriveranno, anche qui il protagonista si ritrova tra le mani un romanzo che è metafora e chiave di lettura della storia stessa: La fabbrica delle vespe, rieditato poi con il titolo de La fabbrica degli orrori, di Banks può fornire al lettore una spiegazione, un approfondimento tematico ed emotivo. Sembra contenere il testamento e l’opinione di Bonazzi stesso che, per un momento, appare e posiziona il romanzo di Banks a portata di mano del suo protagonista. Un romanzo che è emblema degli eventi inspiegabili e degli innocenti apparenti. Romanzo di deformazione con protagonista un adolescente proprio come un altro titolo Polidoro Editore: Fai ciao di Ignelzi.

Un inno alla dimensione onirica, a ciò che non si comprende e che peggio ancora non si spiega, ma si vive, si vede e si racconta senza aspettarsi che conduca necessariamente da qualche parte. Un’apocalisse interiore. Una lotta quotidiana e quasi naturale, normale per i personaggi, alla sopravvivenza. Una storia ricca di colpi di scena, di un intreccio ben curato che non si nega brevi momenti di tecnicismo puro: penso alle pagine 129, 130 e 131. Poetiche, drammatiche e formalmente interessanti.

Questo romanzo è il n.18 della collana Perkins. Il 18 nella smorfia napoletana indica il sangue, che sia forse un segno? Così sia, allora. Buon sangue non mente e il titanio non arrugginisce, per quanto a fondo possa scavare.

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Autore

yy@hi.com

Francesco Spiedo (1992) nasce a Napoli, da madre ansiosa e padre operaio, sperimentando fin da subito le conseguenze dell’iperattività. Cresciuto a San Giorgio a Cremano, studia per diventare ingegnere anche se non praticherà mai. Precedentemente animatore, cameriere, concierge, addetto alla sicurezza e ad altre attività non riconosciute dal Ministero del Lavoro, inizia a scrivere su commissione e su riviste, sotto falso nome e come ghostwriter. Stiamo abbastanza bene (Fandango Libri, 2020) è il suo primo romanzo. Crede in Maradona e Woody Allen.

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