La prima domanda scaturisce quando il sole d’autunno di una giornata di metà ottobre calda e promettente rivela il giallo del tramonto sulle facciate delle case. La domanda sbuca all’improvviso da un pertugio che non si pensava nemmeno di avere in animo, ma che forse c’entra con il malumore, la stanchezza, e un senso bizzarro e confuso di abbandono. Ed è, ma lei mi avrebbe amato? Lei avrebbe amato anche me? Forse non il me di oggi, già fin troppo incastrato dagli anni e dalla noia, ma forse il me di qualche anno fa di quando prendevo in mano il suo libro più famoso con l’imprudenza che ha misura e bellezza solo ad una certa età.
Mi avrebbe amato dunque Elsa? Che poi vuol significare al rovescio avrebbe lei trovato o meglio ancora verificato una qualche esile qualità? Avrebbe dato forma a qualcuno che io non sono o non sono stato nemmeno capace d’inventarmi?
Colpisce diretto il libro di René de Ceccatty, Elsa Morante. Una vita per la letteratura pubblicato meritoriamente da Neri Pozza. Un libro potente, ricco ed efficace nella ricostruzione di un’esistenza non facile ai pettegolezzi giornalistici quanto alle analisi culturali.
E se René de Ceccatty evita accuratamente di dare forma ad un santino della scrittrice, il lettore non può certo evitare di lasciarsi sedurre e invadere dal diorama che il biografo francese presenta con oltre quattrocento ricche pagine. Una vera e propria mappa sentimentale fatta di nomi, indirizzi, libri, musiche e film e anche automobili (sopra a tutte la leggendaria Mini Morris gialla con cui Elsa Morante zigzagava per le strade di Roma).
E allora in questa sorta di arrivederci amore ciao si pensa per davvero a il male che fa chi se ne va. Anche se non eravamo ancora nati, anche se non abbiamo letto che un decimo di quello che si potrebbe leggere (e godere) delle sue pagine, la vitalità intellettuale di Elsa Morante passa attraverso anche le giornate d’autunno. E anche lo spirito spento e inaridito di un lettore esausto dalla propria epoca non può non avvertire la forza del desiderio che sarà anche stata già allora una forza del passato, ma di sicuro era una forza viva e diciamo anche trionfante. E lo si capisce proprio dalla rozza violenza con cui quel mondo è stato investito, fracassato, ucciso e in ultimo abbandonato.
Certo che non mancano le ingenuità, l’ideologia e le nevrosi di un’intellettuale volitiva e sentimentalmente impegnativa, ma tutto questo non può distrarre da quel movimento inebriante e stupendo di una metà secolo che la vedeva tra le braccia (ad esempio) di Alberto Moravia e con il cuore (ad esempio) a Luchino Visconti. Due nomi attorno a cui possiamo fare tutte le disamine possibili (e sensate, e necessarie), ma di cui non si può ignorare il mondo che si portavano appresso fatto di storia, cultura, relazioni, sesso, amore, case, spiagge, viaggi, libri, quadri, tappeti eccetera eccetera.
Qualcosa di talmente lontano dal gusto e dallo stile contemporaneo che è forse lecito domandarsi se sia chiaro quello che si sta qui ora fuori tempo massimo tentando di evidenziare. Se sia chiaro quanto questo insieme di cose appartenga ad un tempo felice, ad un’epoca in sincero stato di grazia. Qui non si parla di un tempo giusto e ancor meno di un tempo allegro, ma anzi ricco di dolori e di disgrazie, di lotte e di conflitti anche atroci. Si parla qui di un tempo in cui il sole per davvero girava ancora attorno alla terra illuminandola prima che la notte e l’oscurità piombasse su di noi come un destino e non come una divertente rincorsa verso la luce.
Elsa Morante ha rappresentato con tutti i limiti che è pure ovvio ribadire una figura di intellettuale, un tentativo possibile che per mille motivi è poi naufragato nella noia e nella mediocrità di un paese che sembra quanto più reazionario quanto più è in grado di mostrare le possibilità straordinarie che potrebbe contenere.
Non si tratta nemmeno di una questione valoriale o come piace dire oggi con gusto un poco fascista, meritocratica. Ma di quell’insieme, di quel corpo emotivo raro e insieme irriducibile, assoluto e irripetibile che era in grado di offrire al prossimo una forma potremmo dire di sostanziale libertà.
Non esisteva ancora l’ideologia dei ruoli e delle competenze, anzi essere qualunque cosa fosse possibile viveva pienamente nella possibilità che aveva infatti la forma di un percorso e non certo di un curriculum vitae per vite vuote.
René de Ceccatty decripta un’epoca attraverso gli occhi di Elsa Morante, magari con qualche faciloneria per colpa di uno sguardo un poco transalpino, ma nell’insieme restituendo un ritratto pieno e compatto di un’esistenza a cui purtroppo la parola piena non ci aiuta se non minimamente a comprendere nella sua interezza. de Ceccatty seduce a cercarci libri, pagine, articoli e foto, a saperne di più e questo tanto basta a fare del suo libro un testo necessario e utile, ma non ci libera certo di quella domanda iniziale.
Avrebbe amato anche noi Elsa? La risposta è negli occhi desolati di Alberto Moravia come in quelli serissimi in attesa di ironia di Pier Paolo Pasolini e poi di Carlo Cecchi, di Bill Morrow, di Bernardo Bertolucci e potremmo per pagine elencare quelli che per noi sono pezzi di memoria, di vite intercettate dai libri e dagli aneddoti degli amici degli amici.
Noi non c’eravamo, noi non ci saremo per l’appunto. L’abbiamo amata e per questo non saremo contraccambiati. Abitiamo un mondo diverso e per certi versi anche più sconosciuto, ma così lo abbiamo reso noi, così lo abbiamo voluto noi. Il pericolo ci fa paura al punto da non affrontarlo più e diamo alla nostra codardia il nome di sicurezza, l’unico diritto che pretendiamo. Non ci avrebbe amato perché anche quando lottiamo sembra che non ne abbiamo mai avuto voglia. Ma non si tratta di fustigare quello che siamo, ma di ricordarci – e per chi può ancora – di desiderare chi avremmo potuto essere, all’infinto presente.
Giacomo Giossi è responsabile editoriale di cheFare. Scrive per quotidiani e riviste.

