Ricordiamo Stefano Simoncelli con un pezzo di Luca Alvino apparso originariamente nel 2014 sulla rivista FuoriAsse.

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A volte, guardando una vecchia foto, capita di scoprirvi una bellezza che prescinde dal suo livello artistico, dall’abilità del fotografo o da ciò che essa rappresenta. Sulla sua superficie c’è come una patina prodotta dal tempo che rende quell’immagine misteriosamente affascinante anche per chi non ha gli strumenti per comprenderla appieno. È il segno della storia, che ha lasciato su di essa la sua traccia di fertile impurità, una scia chimica che, mostrando l’inesorabile destino di consunzione delle cose, ne mette a nudo l’essenza più poetica: la natura unica e irripetibile dell’esistenza.

I personaggi rappresentati da Stefano Simoncelli in Hotel degli introvabili (Italic Pequod, 2014) sono – appunto – immagini irripetibili, simulacri di una complessità che non può più essere decodificata, ma che conserva – proprio in questa inesplicabilità – un suo singolare incanto. Si tratta di individui la cui esperienza umana si è conclusa anzitempo, figure inquiete, che si muovono in uno scenario postumo, ultraterreno; un paradigma di ectoplasmi sopravvissuti a se stessi e che tuttavia continuano a esistere in un limbo di ricordi inattuali, irrimediabilmente confinati nel passato.

Corrado Balzani è un piromane rinchiuso in una casa di cura per malati di mente, un luogo che ospita «tutti i dimenticati, gli introvabili», appunto, «i dispersi che hanno attraversato a luci spente la grande burrasca della sua e di ogni altra memoria»; un posto in cui il tempo è rimasto intrappolato in un passato eterno, senza più prospettive, dove il presente appare come una dimensione spettrale e il futuro non esiste: «Non fa più progetti, che senso avrebbe? Si è fermato come un orologio cui si è rotta la molla e segna l’ora giusta, ma non sempre, solamente due volte al giorno». In questo luogo sospeso soggiornano personaggi indimenticabili, come una ragazza dallo sguardo magico, diplomata in viola da gamba al conservatorio di Pesaro, che «fissa continuamente un punto indefinito e ogni tanto sorride. Chissà cosa vede, si chiedono. Lui conosce la risposta: angeli che si fermano un attimo come gli uccelli migratori, contraccambiano il sorriso e se ne vanno».

O come Cosimo, un orfano abbandonato dalla famiglia, al quale la vita sembra sfuggire via misteriosamente, e che d’improvviso riacquista vigore fumando di nascosto le sigarette che il compagno di stanza gli aveva procurato corrompendo un portantino; fino a quando «un mattino in cui non erano ancora passati gli infermieri, lo sentì farfugliare da una distanza siderale. Si alzò […] e gli andò accanto posandogli l’orecchio sulla bocca. “Il vento dalla luna” sussurrò il ragazzo con un lunghissimo sospiro “ho in faccia il vento dalla luna”».

La poesia di Simoncelli è sostenuta quasi interamente dall’intonazione piuttosto che dal ritmo, da una tonalità asciutta ed essenziale che – da un punto di vista squisitamente formale – acquisisce molto presto l’impianto della prosa poetica, il modulo utilizzato nella maggior parte delle sezioni dell’opera. Si tratta di una sorta di lirismo disadorno, che stabilisce una dialettica continua ed efficace tra accenti elegiaci e toni minimalisti attraverso un’attenzione insistita – ma niente affatto retorica – all’individuo e alla sua complessità.

Leonardo è uno scienziato che in seguito a un incidente ha perduto la memoria, e che ora conduce un’esistenza randagia, guadagnandosi da vivere in modo misterioso. Di quando in quando gli sovvengono dal passato barlumi di ricordi, che tuttavia non assumono una consistenza decisa e lo lasciano attonito, come sgomento.

Per anni ha inseguito astrusi concetti matematici, teorie talmente astratte che a starci dietro si rischia di diventare matti. E adesso, nell’oblio nel quale è piombato, le formule che è andato elaborando per tutta la vita si sono trasformate in nudi segni senza significato, vano e ingombrante repertorio di insensatezza e umiliazione: «Lo zero assoluto… Il nulla… Da dove arrivano queste parole? Se lo chiede sforzandosi di tornare indietro sulla pellicola rabberciata dei ricordi, ma riaffiora soltanto zavorra, equazioni di formule incomplete, nebbie in porti immensi e sconosciuti, parentesi tonde e quadrate, un repertorio smisurato di smorfie, tic, frustrazioni».

Gli resta tuttavia un gusto, un’affezione misteriosa per le sequenze numeriche, che private del loro potenziale scientifico, sono divenute confortanti litanie, una sorta di incantamenti capaci di soggiogare, attraverso la scansione di un ritmo misurato, il disordine sconnesso dell’esistenza: «Altri andavano a caccia di donne o fagiani, lui invece catturava numeri gustandoli a lungo sul palato per catalogarne peso, valore e spiritualità. Era un rito che credeva dimenticato, ma nelle circostanze sempre più frequenti in cui lo assalgono fortissime emicranie, comincia a recitare una specie di mantra composto soltanto dai multipli di 3».

Per gli introvabili di Stefano Simoncelli i nessi causali che tengono in piedi i meccanismi della socialità si sono inceppati. Insieme al trascorrere del tempo, per loro si è interrotta la capacità di provare sentimenti, di attribuire un senso alle cose. Il simbolo ha perso il legame con ciò che rappresenta, è rimasto solamente uno spettrale significante che riconduce oramai solamente a se stesso, vuoto simulacro del nulla.

Pure, in questa dimensione straniata, avulsa dal tempo e chiusa alle possibilità, gli sperduti e gli emarginati trovano un conforto prezioso nella semplice espressione di un desiderio irrealizzabile, in una bellezza privata, inaccessibile, finalmente sottratta all’offesa insolente del divenire, alla capricciosa mutevolezza della storia: «Sarebbe bello: / un bicchiere di grappa pieno fino all’orlo, / una Gauloises senza filtro, magari due, / mentre, non si sa da dove, forse dal nulla / o dal sotterraneo più buio e dimenticato, / arriva la musica rauca e struggente / di una viola da gamba».

 

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Autore

lucaalvino@minimaetmoralia.it

Luca Alvino è nato nel 1970 a Roma, dove si è laureato in Letteratura Italiana. Nel 2025 ha pubblicato per Il Convivio la raccolta poetica Sono il poeta. Nel 2023 ha tradotto e curato per Interno Poesia un’ampia antologia delle poesie di John Keats, intitolata Mio cuore. Nel 2021 ha pubblicato, ancora per Interno Poesia, la raccolta poetica Cento sonetti indie. Nel 2018 è uscita per Castelvecchi la sua raccolta di saggi Il dettaglio e l’infinito. Roth, Yehoshua e Salter. Nel 1998 ha pubblicato con Bulzoni una monografia sull’Alcyone di Gabriele d’Annunzio, intitolata Il poema della leggerezza.

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