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Pastrengo è una rivista di racconti brevi, anzi brevissimi, di 2500 battute. Siccome è una forma di narrativa poco esplorata, ripubblichiamo qui, ringraziando la rivista, il racconto che ha aperto la sua nuova stagione. (Foto Gili Benita via Unsplash)

Io vi vedo, ragazzi dell’estate, nella vostra rovina.

Dylan Thomas

Ci eravamo dati appuntamento sul retro della scuola. Non ci vedevamo da mesi, avremmo scavalcato il cancello e giocato a calcio nel rettangolo sbiadito sullo spiazzo di cemento.

Arrivammo a singhiozzi, le biciclette lasciate alla rinfusa sulla strada, brillavano a terra i vetri delle finestre del piano terra andate in pezzi durante altre partite.

Abbronzati, elencavamo le medaglie di cui l’estate ci aveva fregiati – la scia rossastra di una bruciatura di medusa, l’incisivo rotto per una caduta sugli scogli, il sopracciglio spaccato dopo una guerra con i sassi.

Ma stringendoci in cerchio, per fare la conta e dividerci in squadre, notammo con orrore cos’era capitato a uno di noi. Una leggera peluria s’infittiva sul suo labbro superiore, e altri peli erano germogliati su braccia e gambe, il ricciolo nero sotto le ascelle.

Ci eravamo promessi con un patto di sangue che nessuno di noi sarebbe mai cresciuto, e che quando quella malattia avrebbe dato i primi segni, avremmo fatto di tutto per scongiurarla.

Così tirammo fuori i coltellini. E schiacciammo a terra il malcapitato, spogliandolo della maglietta, tenendolo per i polsi e le caviglie, anche se non urlò né fece resistenza, e sollevò la testa per seguire meglio quanto succedeva.

L’aprimmo con un coltellino dal collo all’ombelico, e fu come tirare giù la cerniera di una felpa e discostare i lati. Volevamo scoprire da dove salivano i peli, ed estirparli alla radice, così da arrestare il tempo dentro quell’estate.

E guardando il cuore, ammutolimmo, perché lì non c’era. Al suo posto, pulsante, dimorava un gomitolo di pelo scuro da cui si dipartiva un intreccio di cime sottili che filavano ovunque prima di bucare i tessuti e affiorare sulla pelle.

C’era un odore, come di animali chiusi in una caverna – recidemmo le cime con i coltellini, le girammo intorno agli indici, e tirammo piano, per evitare strappi.

Sbrogliammo metri e metri di pelo. Il gomitolo finì, la sorpresa sbiancò la nostra abbronzatura. Non era un gomitolo, ma un bozzolo – dentro, in posizione fetale, vegliava un uomo primitivo, minuscolo e peloso.

Forse tirammo troppo, come se con i peli gli avessimo sfilato la vita, e il malcapitato sussultò, sbarrò gli occhi, e la stessa cosa toccò all’uomo primitivo, il quale, prima di spirare, fissando i nostri capelli, le ciglia, i sopraccigli, dovette pensare che eravamo davvero strani, e lisci, e che provvisti di così poco pelo non avremmo superato i primi freddi che da lì sarebbero seguiti.

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Autore

giuseppezucco@minimetmoralia.it

Giuseppe Zucco (1981) lavora alla Rai. Ha esordito con un racconto nell'antologia L'età della febbre (minimum fax, 2015). Ha pubblicato una raccolta di racconti, Tutti bambini (Egg Edizioni, 2016), e un romanzo, Il cuore è un cane senza nome (minimum fax, 2017). I poteri forti (NN, 2021) è la sua raccolta di racconti appena uscita in libreria.

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