
Foto di Hannah Troupe su Unsplash
di Laura Scaramozzino
La notte in cui trovammo Amelia, in un angolo del giardino, era grande come un gatto. Mio padre si rannicchiò e l’annusò a distanza. «Sarà fuggita dal parco zoologico».
Io, piccola e saccente, lo strattonai e dissi: «Non ce gli hanno mica i felini, papà».
Lui alzò le spalle e prese Amelia in braccio. Gli occhi sgranati e scintillanti nel buio. «Non devi interrogarti troppo, Carlotta».
Nessuno, al di fuori dei miei genitori, sapeva della sua esistenza. Se l’avessero scoperta l’avrebbero riportata nelle terre della neve. Amelia sembrava destinata ai piccoli e intensi piaceri del conforto domestico. Al tepore dei corpi, delle trapunte e di una grande stanza chiusa. Quando era un cucciolo aveva negli occhi l’azzurro dei laghi ghiacciati. Un colore che, in pochi mesi, aveva lasciato il posto all’oro infuocato.
Mia madre non l’aveva accettata. Si metteva le mani sugli occhi e scuoteva la testa. Una volta pianse e minacciò mio padre di portarmi via con sé. Ma lui non si scompose. Amelia ci avrebbe protetto dai ladri e dai pericoli. Fosse un terremoto, un’inondazione o l’intrusione di un pazzo. Si informò: «In Argentina, li tengono al posto dei cani». Allargò le braccia e mi fissò con aria complice. Io annuii. Amelia era minuscola e tonda. Ogni dettaglio, in lei, era lustro. La lingua rosa come gomma da masticare alla fragola.
Mio padre cambiava macelleria in continuazione. «Per non destare sospetti», sosteneva. Amelia consumava tre chili di carne al giorno. Tuffava il muso nella ciotola e io pensavo che non mi sarebbe spiaciuto se mia madre se ne fosse andata. Se le vibrazioni un po’ sinistre delle fusa di Amelia avessero riempito il silenzio incipiente. Non sopportavo più i piagnistei, le minacce, il salmodio costante con cui lei scandiva le nostre giornate. Amelia girava per casa e, man mano che cresceva, mia madre sembrava rimpicciolirsi, chiudersi su se stessa in un guscio fatto di braccia serrate e maglioni fuori misura. «Non possiamo più tenerla» ci rinfacciava «È contro natura».
Mio padre sbuffava e ribatteva: «Amelia è una garanzia».
Per quanto quei discorsi non mi riguardassero, sentivo che prima o poi qualcosa sarebbe cambiato. Una volta io e Amelia ci rotolammo sul tappeto di ciniglia della mia stanza. Lei mi saltò addosso. Rapida, distolsi lo sguardo dai suoi occhi improvvisamente severi. Amelia era diventata adulta. Pronta a fare quello per cui era nata. Per un istante ebbi l’impulso di donarmi. Desiderai che mi divorasse. Agli occhi duri di Amelia chiedevo un giudizio rapido. Un affondo deciso. Mi piaceva l’idea che, dopo il gioco, tutto sarebbe finito. Che entrambe avremmo lasciato per sempre quella villetta.
Qualche giorno più tardi, la porta di casa si aprì nel primo pomeriggio e io ebbi un sussulto. Amelia drizzò le orecchie e mi allargò la zampa sul petto. Quando i brividi di febbre mi scuotevano, si sdraiava sempre accanto a me. Io tendevo i muscoli e serravo i denti. Come attendessi un prelievo del sangue o i punti di una piccola operazione.
Nell’ingresso, mio padre sbraitava. Mia madre tentava invano di blandirlo.
Avrei voluto alzarmi, ma temevo la reazione di Amelia.
Quella volta, mio padre era tornato in anticipo dal lavoro. Non l’avevo mai sentito urlare così. Amelia, infine, scese giù dal letto. Sospirai, ma al tempo stesso mi si accapponò la pelle. «Aspettami qui» le dissi.
Di fronte alla porta d’ingresso i miei discutevano. Mia madre si stringeva il golfino sul petto. Mio padre, con il cappotto di loden indosso, muoveva un indice in aria.
Entrambi si voltarono e mi guardarono stupiti.
«Carlotta, torna a letto»
«Perché state urlando?»
Mia madre si tirò una ciocca di capelli. «Hai chiuso bene la porta della tua stanza?».
La ignorai e lanciai uno sguardo a mio padre. Lui mi scrutò come non mi riconoscesse. «Alla fine, mi hanno cacciato»
«Di che stai parlando, papà?»
«Ma il verbo cacciare ha tanti significati» si strinse nelle spalle, «Dovresti saperlo bene».
Mia madre scoppiò a piangere. Minuscola come una matrioska.
«Dov’è Amelia?» Mio padre sporse il capo.
«Dove vuoi che sia?»
Arricciò il labbro. «Vado a prenderla».
«Che cosa?» gridò mia madre.
Lui replicò: «Ho tutto il tempo che serve».
Mi madre si morse il labbro. «Quella bestia ti ha tolto il senno»
Mio padre la lasciò lì a tirarsi le ciocche e avanzò con passo svelto. Io lo seguii in silenzio.
Nella mia stanza Amelia, acquattata sul tappeto, lo fissò con durezza.
«Seguimi» le ordinò.
Lei non si mosse. Un fremito le guizzò lungo le zampe ripiegate sotto il petto.
«Ti ho detto di seguirmi!» Le sferrò un calcio sul fianco. Amelia alzò il capo e fece un verso. Mi ricordò l’acqua che sale in una caffettiera.
«Aspetta» gli afferrai per un lembo del cappotto. «Lascia fare a me».
Mi avvicinai ad Amelia e le bisbigliai nell’orecchio: «Fermalo». Lei si alzò. Sembrava più grande, così grande da occupare un lato intero della stanza.
Mio padre sbiancò e deglutì. Si allentò la cravatta e sgranò gli occhi. Amelia andò a sistemarsi davanti alla porta. Io e mi padre ci scambiammo una rapida occhiata. Gli sorrisi e mi sdraiai sul letto. Lui spalancò la bocca come i fanno i morti.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente
Buongiorno a tutti.
Mi chiamo Marie Therese Letacon, sono un prestatore di denaro professionista con contratto privato con diverse banche e istituti finanziari.
Il nostro obiettivo comune è quello di incoraggiare e sostenere le persone in difficoltà finanziarie.
Siamo dinamici nel concedere un prestito in 48 o 74 ore in tutta Europa.
Le nostre capacità di prestito vanno da 5.000 euro fino all’importo di cui avete bisogno a un tasso ragionevole del 2%.
Se avete problemi finanziari o difficoltà a chiedere un prestito in banca e siete alla ricerca di un prestito tra privati, contattatemi.
E-mail: mariethereseletacon@gmail.com