Photo by Laura Lugaresi on Unsplash
Era l’ora delle streghe, quel momento speciale del giorno in cui la canicola offusca i sensi e li rende particolarmente impressionabili, esposti al panico e alla confusione. Sul campeggio regnava un silenzio sovrumano, come se l’universo fosse in procinto di rivelare un segreto e aspettasse il momento più propizio per farlo. Le tende, adagiate sugli aghi di pino bruciati dal sole, sembravano disabitate. Si sentivano solo i grilli, con il loro verso simile al ticchettio di un misterioso congegno a orologeria che regoli con indifferenza le incessanti rivoluzioni del mondo.
Gli avevano detto che, oltre alla spiaggia principale, alle Bombarde – pochi chilometri a nord-ovest di Alghero – c’erano delle calette bellissime, piccoli angoli di paradiso, lussureggianti e poco frequentati. Quel giorno Paolo decise di andare a vedere.
Dopo pranzo si mise in macchina e partì. Guidava lentamente, con la meticolosità esagerata di chi non conosce la strada e ha timore che dietro ogni curva possa celarsi un pericolo. L’asfalto sembrava evaporare di fronte a lui, creando degli strani effetti di luce, come se l’atmosfera fosse liquida e deformasse le cose che incontrava lungo il percorso. Era un’aria fluida, densa, oleosa, che sembrava sporcare l’universo e renderlo impuro. Bisognava prestare attenzione, perché gli accessi alle spiagge erano seminascosti dalla vegetazione e non era facile vederli. Fu fortunato a notarne uno quasi subito. Accostò la macchina al ciglio della strada e la parcheggiò come meglio poteva.
Si fece largo con le braccia in mezzo alla macchia mediterranea, e la sorte lo premiò: la caletta era piccola, larga trenta metri al massimo, e sulla spiaggia c’erano tre o quattro asciugamani in tutto. Sistemò le sue cose in modo da non dare fastidio a nessuno, e si mise a leggere, in attesa che il caldo di luglio lo spingesse inesorabilmente verso l’acqua. Intorno a lui c’era un’afa persistente, che quasi si poteva vedere e toccare, e che rendeva le cose irreali, tremolanti, come nei sogni dell’inverno portati dalla febbre.
Dopo venti minuti entrò nel mare.
L’acqua era chiarissima, di una tonalità cangiante tra il verde e l’azzurro che sembrava purificare il colore del cielo per renderlo compatibile con quello della terra, meno sovrumano e al tempo stesso più sopportabile. Era possibile vedere il fondale a quattro o cinque metri di profondità, in un mare popolato da creature acquatiche bizzarre e variopinte. Una volta entrato in acqua, si tuffò subito, un po’ per contrastare la calura del primo pomeriggio, un po’ sospinto dalla magnificenza regale di quello spettacolo. L’acqua era una prodigiosa distesa trasparente, limpida e sontuosa, e gli regalava un’illusione di permanenza imperfetta, una persistenza fasulla che non poteva esistere, davvero, in quella realtà metamorfica che era il mare.
Nuotando, si accorse che a pochi metri da lui c’era una ragazza tutta sola. Paolo aveva ventuno anni, e si trovava ancora in quel periodo della vita in cui è possibile fare conoscenza con qualcuno dicendogli semplicemente «ciao» (prima, si può fare solamente nella magica fase dell’infanzia, e, dopo,mai più). Iniziò a nuotare sott’acqua, per avvicinarsi senza destare l’attenzione, e riemerse a due metri da lei. Sorridendo, la salutò. Lei rispose al sorriso di Paolo con il suo, che era il modo per fargli capire, molti anni prima di facebook, che aveva accettato la sua richiesta di amicizia.
Si chiamava Margherita. Gli disse che aveva diciassette anni, frequentava il liceo classico, era di Torino, e si trovava lì con sua madre, che la controllava dalla spiaggia. In quel tempo per Paolo – giovane studente universitario – studiare al liceo classico significava essere ammessi a una élite di illuminati destinati a ereditare la terra. E per questo motivo la sua affermazione lo colpì quasi quanto il suo sorriso e il colore dei suoi occhi, che erano verdi e insieme trasparenti come il mare in cui in quel momento i due ragazzi erano immersi, lontani dal mondo intero, dimentichi di tutto fuorché di se stessi.
Gli disse che sua madre non voleva che frequentasse meridionali (all’epoca – erano i primi anni Novanta – c’erano i meridionali, degli immigrati ancora si parlava poco), e a Paolo fu subito chiaro che un ragazzo romano come lui rientrava perfettamente nella categoria. Non si era mai sentito un meridionale, e la cosa lo divertì, diede all’avventura che stava vivendo una patina di inverosimiglianza e di esotismo che la rendeva ancora più speciale.
Notò che in effetti sua madre si era accorta di lui, e lanciava alla figlia delle occhiate di avvertimento abbastanza esplicite. Spostandosi di una ventina di metri, potevano raggiungere via mare la caletta adiacente, e così iniziarono a nuotare in quella direzione, per accedere a un’area in cui avrebbero potuto appartarsi al di fuori di ogni controllo. Giunti in quell’altro specchio di mare, si sentirono al sicuro, e, rimanendo nell’acqua alta, cominciarono a parlare con la facilità di quell’età meravigliosa.
Margherita gli disse che i suoi genitori erano separati. Gli raccontò della sua scuola, della sua famiglia, del suo gruppo di amici di estrema destra. Per Paolo a quell’epoca la politica non contava nulla, e più che altro ascoltava la sua voce parlare, osservava i suoi capelli bagnati che le cadevano sulle spalle gocciolando, mentre formavano delle piccole ciocche uniformi e distinte; misurava la distanza che li separava stando vicini nell’acqua, e tentava di ridurla ogni minuto di più con movimenti impercettibili delle gambe e delle braccia.
Le parlò dei suoi studi, le disse che era in vacanza da solo, quell’anno, ma che voleva conoscere nuova gente. Era stato solo troppo tempo, e ora aveva voglia di respirare, farsi raccontare delle storie, osservare i colori del cielo e del mare, fare tardi sulla spiaggia tutte le sere, guardare il sole che tramonta dietro il monte Timidone. Le disse che, osservando il crepuscolo, aveva notato che le tenebre non scendono mai dal cielo, come si pensa normalmente, ma salgono dal mare e dalla terra; che era bello osservare il mare quando in acqua non c’era più nessuno, guardare lontano verso l’orizzonte che scompariva, come Ulisse nell’isola di Ogigia.
Le raccontò che solitamente tornava dalla spiaggia tra le otto e le nove di sera, quando tutti gli ombrelloni erano chiusi e in acqua non c’era quasi più nessuno, e cenava tardi, poco prima delle dieci. Poi, dopo tanta solitudine, usciva e si gustava Alghero nel pieno della sua frenesia: le ore veloci della notte, le incursioni nei vicoli catalani, i tavolini all’aperto, le architetture luminose, lo scarlatto dei coralli nelle vetrine delle oreficerie, gli sguardi dei ragazzi e delle ragazze che si incrociavano, bramosi di conoscersi.
Mentre parlavano, si godevano i doni inaspettati di quel giorno di luglio: quel mare privilegiato, quell’avventura inattesa, quel tempo maestoso e sospeso nella storia. Si tenevano a galla muovendo le gambe sott’acqua, ma quasi senza sforzo, sorpresi di tutta quella leggerezza. A un certo punto,Paolo le prese la mano nella sua, come per sorreggerla, e Margherita – dopo un’esitazione iniziale, in cui le passò come un velo di meraviglia davanti agli occhi – lo lasciò fare, e anzi rispose a quella stretta leggera con la propria.
Parlarono per venti interminabili minuti, nei quali il cielo li dispensò dalla sua inclemenza, gli regalò un clima più mite, il sole smise di bruciare e il tempo sembrò come fermarsi. Gli chiese se avesse una ragazza a Roma, e Paolo le disse che non l’aveva.
Margherita invece un ragazzo ce l’aveva: era uno del suo gruppo di estrema destra,un suo coetaneo, uno stronzo. Ma gli disse che al suo ritorno a Torino lo avrebbe lasciato: era stanca, e voleva iniziare qualcosa di diverso. Disse proprio così, qualcosa di diverso, e quest’espressione per la prima volta gli fece ipotizzare – spavaldamente – che stesse pensando a loro due, anche se poi, ovviamente, non era vero. Non necessariamente un’altra storia, disse, ma qualcosa che le facesse provare nuovamente delle sensazioni. Voleva essere libera, diceva.
Tornarono indietro per paura che sua madre notasse la sua assenza e si preoccupasse. Nuotarono lentamente, con bracciate appena accennate, tenendo la testa fuori dall’acqua per tenersi d’occhio e sorridersi, di tanto in tanto.Si aiutavano nel movimento spingendo le gambe unite all’indietro con un gesto repentino, e raccogliendo di nuovo le ginocchia in prossimità dei fianchi,allargandole dentro l’acqua.
A poco a poco, prendevano consapevolezza della duplice vastità in cui si muovevano, del mare e del cielo, anzi, del cielo che si specchiava nel mare. Nuotarono in silenzio, con il cuore gonfio di qualcosa che non volevano esprimere a parole, per paura che – qualunque cosa fosse – una volta detta svanisse, e tornasse rapidamente nel grembo sterile delle possibilità mai germinate.
Prima di andare a riva, Margherita gli disse che lei e sua madre sarebbero tornate su quella spiaggia due giorni dopo, e si accordarono per ritrovarsi lì, grosso modo alla stessa ora. A quell’epoca non esistevano i cellulari, e quell’accordo labile e insicuro, come fosse scritto sull’acqua con un dito, gli bastò.
Poi si salutarono, riguadagnarono la terraferma e Paolosi rimise a leggere. Era talmente appagato per l’avventura imprevista di quel giorno che per un po’ si dimenticò di lei – come fosse qualcosa di eccessivo, che lo colmava di pace e di un sentimento metafisico di totalità – e si immerse completamente nel libro che stava leggendo.
Quella sera sarebbe andato al Caffè latino, avrebbe ordinato un aperitivo colorato e si sarebbe messo a guardare la gente seduta ai tavolini intorno a lui. Quell’anno aveva conosciuto tantissime persone, ma ogni tanto era bello uscire da solo e sentirsi immerso nel mare aperto della vita.
Pochi minuti dopo, la vide che andava via insieme a sua madre, con gli occhi bassi, senza guardarlo. Sembrava trattenuta, nervosa, come se stesse in qualche modo soffocando le lacrime, o forse l’impulso a fare qualcosa che non poteva fare. Immaginò che sua madre le avesse detto di non salutarlo, o qualcosa del genere.
Due giorni dopo l’aspettò su quella stessa spiaggia, ma Margherita non venne. L’aspettò a lungo, quattro, cinque ore, ma non venne. L’aspettò ancora il giorno successivo, e il giorno dopo ancora, ostinatamente, senza alcuna speranza, e non venne nemmeno allora. Non aveva né un cognome, né un indirizzo, né un telefono, nulla.
Non la rivide mai più.
Luca Alvino è nato nel 1970 a Roma, dove si è laureato in Letteratura Italiana. Nel 2025 ha pubblicato per Il Convivio la raccolta poetica Sono il poeta. Nel 2023 ha tradotto e curato per Interno Poesia un’ampia antologia delle poesie di John Keats, intitolata Mio cuore. Nel 2021 ha pubblicato, ancora per Interno Poesia, la raccolta poetica Cento sonetti indie. Nel 2018 è uscita per Castelvecchi la sua raccolta di saggi Il dettaglio e l’infinito. Roth, Yehoshua e Salter. Nel 1998 ha pubblicato con Bulzoni una monografia sull’Alcyone di Gabriele d’Annunzio, intitolata Il poema della leggerezza.
