di Cristina Eléni Kontoglou
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“Lei sceglierebbe una Coca senza zucchero o uno yogurt senza zucchero?”

“Prego?”

Passo lo yogurt sulla striscia e digito il prezzo.

“Vuole una busta?” Chiedo alla ragazza che ora si è allungata oltre il plexiglass, impaziente, le braccia conserte come se fossimo in ufficio e io una sua dipendente.

“È ecologica? Ora sono tutte così le buste. Servono molte più sostanze chimiche per farle rispetto alla plastica.”

“Non lo sapevo” rispondo. Ed è vero. Non so niente di cose simili, non mi interesso delle cause e dei trend sui giornali. Non posso cercare con lo sguardo nessuno, siamo sole, io e lei.

“Scusa, non voglio farti perdere tempo” dice dopo aver aperto la confezione di yogurt, “o ti licenziano, non è vero? Funziona così in tv, hai presente quei film, dove fanno vedere una commessa… finché un giorno non fa un errore… Posso aggiungere anche questo?” Prende una palettina di plastica rossa da un contenitore trasparente. I cucchiaini da gelato prima allineati si scuotono.

Nota il mio fastidio e si affretta a scusarsi. “Non mangio da diverse ore, ho… abbiamo viaggiato tutto il pomeriggio senza incontrare una stazione. Gliela pago” aggiunge.

“Non posso. Quelle sono per i clienti che comprano il gelato sfuso.”

“Ah, fate il gelato sfuso?”

“Non siamo noi a farlo, lo rifornisce una ditta di bofrost.” Su certe cose resto inamovibile. Se vuole la paletta deve acquistare anche il gelato.

“Capisco”, annuisce e con la mano libera lancia una moneta da venti centesimi sul nastro.

La spingo nel portamonete, poi fingo di controllare il rullo degli scontrini, non ho voglia di parlare o di oppormi, e lei è in cerca di attenzioni.

“Un sollievo questo freddo”, lecca il dischetto di alluminio dalle strisce di rosa che brillano mescolate a saliva limpida.

Lo facevo anche io da ragazzina. Compravo cose che non mi servivano solo per aprirle e consumarle sul posto. Mi affascinavano la proprietà, il potere delle monete da resto, quelle che si perdono o con cui si acquistano cose che vanno perse. Gomme, mentine, yogurt, elastici. Finché non sono finita a fare la commessa a Sparti, a contatto con queste cose ogni giorno. Abbiamo di tutto, creme solari, maschere subacquee, barrette di sesamo. Guadagno bene e la gente mi chiede perché non cerchi altro, come se fosse sconveniente guadagnare e basta. I primi tempi gli amici mi passavano annunci di concorsi pubblici in comune o da bibliotecaria, lavori per diplomati, precisavano. Mi guardavano come si guarda qualcuno di non ambizioso, con compassione. Ho risolto il problema eliminando i contatti. Basta un niente per dimenticare tutto. Quello che devo fare resta tra me e il vocabolario della sussistenza, il resto serve a dare nomi a sensazioni che non esisterebbero. Ragiono con l’ordine e la cadenza di una cassa. Mi fa sentire inaccessibile, pulita.

Questa ragazza vuole parlare. Con me o con qualcun altro, è indifferente. Ha occhi nascosti da palpebre appena cadenti sopra un blu-verde, la pelle delle palpebre è lucida, le labbra piene, il naso pronunciato. Non si nota nell’insieme. Gradevole, nel complesso. Insiemi e complessi servono ad approssimare, la qualità si perde nei conti finali che devono tornare.

Lei torna, è questo che conta.

Non basta a farmi venire voglia di guardarla ancora, voglio che se ne vada.

“Ho cambiato idea, posso avere la busta?”

Non so cosa se ne faccia, ha già finito il suo yogurt, penso che voglia solo farmi perdere tempo.

“La vuoi? Sono venti centesimi.”

Fa un fischio ma non sa fischiare, esce un sibilo.

“Beh, no, per quel prezzo ho la borsa, grazie.”

La borsa è una sporta trasparente da mare, da cui estrae una brochure che tende verso di me. Penso sia una rappresentante di qualcosa, di energizzanti in polvere ad esempio, le mandano fin qui adesso? La scanso irritata con una mano e la colpisco per sbaglio, graffiandola con le unghie. Lei si ritrae stupita guardandosi il polso, come a cercare qualcosa che non va nella sua ossatura larga. È magra, ma le ossa non si diversificano, non si assottigliano alle estremità. Le gambe potrebbero essere braccia. Anche io le sto guardando il polso, la vorrei fuori ma senza farle del male, sarebbe sgradevole. Io non faccio queste cose.

Alcune gocce di sangue macchiano il foglio che tiene in mano, colano sul rullo nero, al contatto con il grigio della polvere si fanno ciano. La somma dei colori primari e secondari devo averla imparata a scuola.

“Larissa, perché hai fatto le zebre verdi e il cielo fucsia? Il cielo non è fucsia.”

Nei miei sogni il cielo è sempre fucsia. Una pasta affogata dal blu finché non escono esalazioni rosacee: dopo, mi sento più tranquilla.

“Vieni” le dico.

Mi infastidisce. Non lei ma la sua mano che non lascia andare il pezzo di carta. La sua stupidità mi mette a disagio.

La medico con le garze della cassetta e con del cloroformio. È scaduto ma non conta, tanto non so come si faccia. Nella mia vita ho medicato solo la zampa di un coniglio trovato per strada, che poi ho lasciato lì. Non volevo portarmelo a casa, credevo fosse sufficiente riparare il danno, in fondo avevo contribuito più della natura stessa, con lui. Una zampa di un coniglio non è diversa da una mano, penso. Invece mi trovo a dover riavvolgere tenendo conto degli spazi, dei saliscendi delle forme nel reticolato, includere o meno le dita? Escludere.

Escludere finché possibile.

È sufficiente che la mano sia immobilizzata. Finisco il rocchetto di tessuto, taglio con le forbici disinfettate poi fisso il tutto con del nastro, ma non funziona. Perché non funziona? Il bordo fuoriesce, ne faccio un rinforzo sotto la garza ma i fili si sfilano come capelli dalle cuffie di gomma in piscina.

La lampadina calda sul soffitto fa emergere le squame della pelle lasciata fuori. Sembra una rete da pesca troppo stretta con dentro un cetaceo gonfio, l’illuminazione aranciata la rende congestionata. Avevo chiesto al magazziniere di cambiarla, mesi fa. Va bene per un locale a luci rosse, gli avevo detto. Non ero mai stata in un locale a luci rosse. Avevo sentito che si chiamassero così per la prostituta del testo biblico, Raab, che teneva legata alla finestra una cordicella di quel colore. Era diventato il colore delle stoffe con cui le prostitute coprivano le lanterne per attrarre i pescatori. Lo avevo sentito da Ionian channel, in una trasmissione con una presentatrice dal capello corto ossigenato e le sopracciglia alte, falsamente provocatorie. Questo genere di programmi morbosi e scadenti, al contrario, mi piaceva. Sembra che il rosso addolcisca i lineamenti, è tutto lì, ma quelli di questa ragazza adesso sono iridescenti: ombre scure ai lati del naso, sotto le palpebre, la pelle di carta. Sono delusa. Mi sento truffata dalla presentatrice felina dal bob biondo luna.

“Scusa, non sono brava a fare cose manuali” dico quando mi accorgo del suo sguardo sulla fasciatura. “Mi spiace” ripeto, e mi sento ridicola, le forbici ancora in mano come una parrucchiera in prova. In questo momento le sto apparendo in tutta la mia inettitudine, mia madre me lo diceva sempre: sei la gelatina al melone che nessuno sceglie per prima dalla busta. Non la odiavo per queste esternazioni, la compativo. Non doveva essere facile per una ballerina avere una figlia stupidamente solida. Abitudinaria, senza qualità negative né positive. Le persone affidabili, fisse sul loro perno, in questo mondo sono le parti su cui poggia l’intera impalcatura, i bulloni che sarebbe meglio non fossero visibili perché sgradevoli al risultato. Meglio coprirli con della vernice dello stesso colore, e sperare che nessuno se ne accorga. Io mi ero riverniciata da sola, con una boccetta in omaggio nel kit di sopravvivenza.

La ragazza ora sbatte le ciglia alcuni secondi, mi sembra di vedere il sudore scivolarle sotto le guance, lungo i canali naso-labiali scavati, troppo scavati per la sua età. La conformazione, avrebbe detto mia madre, tutto è conformazione.

Una goccia si sporge dalla curva del labbro, esita prima di svanire all’interno della bocca. Vorrei seguirla lì dentro.

“Se vuoi te la rifaccio” balbetto.

Lei sussulta in silenzio portandosi la mano sotto il mento, il viso rivolto alla parete e agli scaffali di solventi, poi si ricompone in un’espressione adulta. Le clavicole guizzano, una delle due blocca il corso della spallina, la canotta si piega lasciando intravedere le cuciture. Vorrei sporgermi per sistemarla, mi disturbano quelle linee tratteggiate verso l’alto, ma non la tocco. Non dovrei pensarci.

“Tutto ok?” Chiedo invece.

“Tutto bene” risponde. “È che nessuno mi ha mai toccata con tanta attenzione.”

“Mai? Neppure il tuo ragazzo, tua madre o le tue… maestre?”

Non so perché ho pensato alla scuola. Forse perché il mio tentativo di medicare qualcuno mi appare puerile, come quando i bambini giocano al dottore.

“Non ho un ragazzo. Sono orfana.” Aggiunge. Non colgo il nesso.

Ha omesso di rispondere al riferimento scolastico. Le maestre non hanno mai fatto un gesto d’affetto. Concordavano tutte con mia madre. “Sua figlia è obbediente, calma.” Lei si scherniva: obbedire era da deboli, sua figlia dunque non era dotata neppure di iniziativa? Non sbatteva la testa sugli spigoli come gli altri bambini, non si infilava la pasta modellante in bocca, non pronunciava parole combinate che solo l’amichetta poteva cogliere. Parlava già come un’adulta, fluentemente e coniugando i pochi verbi. Chiedeva scusa, per favore, ringraziava sempre. Voleva disturbare il meno possibile. E questo era troppo, anche per sua madre.

“Sono… siamo soli, io e mio fratello.”

“Dove vive tuo fratello?” Chiedo, solo per educazione. Lei fa un cenno della testa rivolto alla porta, oltre la tenda. 

“È in macchina, mi sta aspettando, siamo venuti insieme. Ci siamo persi, credo.”

Si guarda intorno alla ricerca di qualcosa, poi dal grembo prende un pezzo di carta e me lo porge. È il foglio di prima, ai bordi ha ancora tracce di sangue.

“Sai come si arriva qui?”

Sul foglio ci sono nome e contatti di un hotel, somiglia più a un night club e le stanze in foto sono fatiscenti.

“Perché non avete chiamato?” chiedo, “hanno sicuramente un servizio h24.”

“Ci hanno inviato le coordinate per il check in ma ci siamo persi, e mio fratello… ha un problema… lui balbetta, non riesce a fare questo genere di telefonate, si vergogna.”

“Potevi farla tu” dico.

“Ho provato, mi passavano un numero di Loutraki, una voce registrata diceva che la reception riapre domani alle sette e non sappiamo dove andare a dormire.”

Prosegue con più calore, vedendo la mia mancanza di reazione.

“Abbiamo anche finito i soldi, per questo ho preso lo yogurt, era in offerta, a me neanche piace.”

Sono infastidita dalla sua precisazione dal momento che sono io a fare i prezzi, qui dentro. Faccio, disfo. Potrei gestire un’azienda, so come si manipolano i numeri. Solo i sogni mi sfuggono.

Lì dentro rimescolo tonalità, i colori sono invertiti, le forme eccessive, il genere di cose che sarebbe piaciuto a mia madre, se gliel’avessi detto. L’avrei ripagata della delusione. Di nascosto sognavo cavalli e cani azzurri maculati di giallo abbeverarsi in sorgenti con aculei smeraldo al posto di onde, ma a scuola tornavo in carreggiata, la bambina senza fantasia che disegna prati verdi e limoni al posto dei soli.

Non ho niente da aggiungere. Ora capisco perché non ha preso da bere. Prendo dallo scaffale alle mie spalle un barattolo di latta, faccio scattare la chiusura e tolgo la pellicola. Poi cerco nella credenza una coppa tra quelle appena rifornite, e un cucchiaino vero, non di carta, quello in dotazione ai dipendenti per le pause pranzo. Scelgo una bottiglietta di Pepsi tra quelle appena arrivate nelle scatole, è calda. Fuori sono ventinove gradi e l’estate non è neppure iniziata.

Lei si riempie la coppa di gelato al pistacchio, dolce, troppo; l’ho sempre fatto notare al fornitore, il gelato non dovrebbe essere tanto zuccheroso e solido, un blocco d’acqua mai cremoso. In Italia, una volta, in vacanza con la scuola, avevo mangiato del gelato vero. La consistenza di una spuma e un reticolato di bollicine interne, non gelava e non serviva aspettare che si sciogliesse. Lei ingoia un cucchiaio, sento i denti rabbrividire fino alla polpa.

“Cosa andate a fare a Alepochori?”

“Dobbiamo firmare delle carte da un notaio. Nostra zia era l’unica sorella di mia madre, ci ha lasciato una casa su, verso Ioannina. Vogliamo venderla.”

“Potreste affittarla. Di questi tempi una casa è un’entrata sicura.”

Sono compiaciuta del mio senso pratico, mi fa sentire qualcuno che sa risolvere le questioni quotidiane, qualcuno su cui si può contare. Non è una qualità che spicca, ma a paragone di gente brillante che non saprebbe aprirsi un barattolo di dolmadakia, io mi sento a posto. Non posso fare a meno di sentirmi superiore alla media, tutta quella gente là fuori esteticamente gradevole, non funzionale… posso nasconderlo, ho un aspetto sottotono a mio vantaggio, se mi trucco posso sembrare quasi carina. Me lo dice spesso il commesso di pitas davanti casa, si vede che un giro se lo farebbe volentieri. Direi che sono una persona a posto, non una brava persona forse, ma chi nota la differenza?

“Peccato, saremmo già arrivati se non ci fossimo sbagliati proprio al bivio. L’avevo detto a mio fratello di svoltare a destra, ma lui non si fida delle strade biforcate. Dice che la direttissima è una sicurezza, sempre. E ora credo che pioverà stanotte, incredibile… l’unico temporale della stagione.”

Non voglio che pensi che posso ospitarla.

“Vi farei stare da me, ma la mansarda è piccola.”

“Mi spiace… per te, intendo.” Si corregge. “Deve essere frustrante lavorare tutto il giorno per stare in un posto scomodo.”

Sono stupita, non mi aspettavo un commento simile. Mi prende alla sprovvista, sento il volto accaldarsi.

“È perfetta. Non mi piacciono i palazzi in città e non mi piacciono le case grandi. Fanno sentire il tempo che passa,” dico.

Ma lo vedo, non l’ho convinta, è meno stupida di quanto sembri. Penso al mio appartamentino e al tavolino in ferro pieghevole comprato da Almexil, con finti mosaici turchi disegnati che sembrano veri, da lontano, e gambe incerte, traballanti. Ho una voglia improvvisa di farglielo vedere.

“Potete stare da me per stanotte.”

Lei non sembra aver sentito, si accarezza la fasciatura come se stesse testando la finitura in un negozio di biancheria.

“Non so, forse sarebbe meglio un hotel qui vicino, magari puoi darci qualche nome, siamo piutttosto stanchi. Mio fratello, specialmente. Viaggiare lo stressa, e questa umidità…”

“Ho un condizionatore in camera” dico con orgoglio. “Posso cedervela e dormire sul divano.”

Voglio che si ricreda, che si senta in imbarazzo per tutto quello che mi ha detto e che non ha il coraggio di dire. La immagino seduta davanti al mio tavolo, una coppa di frutta poggiata sulle gambe, i piedi sulla sedia e nei capelli l’odore del mio shampoo.

“Non so, dovrei chiedere a mio fratello, immagino che per lui sia ok.”

“Fantastico. Per cena posso farvi pollo ripieno di prugne, che ne dici, ti piace?”

“Oh… non ho proprio idea, immagino di sì. C’è il gelato, dopo?”

Rifletto.

“No, ma posso prenderlo dal freezer del negozio. Cosa ti andrebbe?”

“Quello di prima può andare, crema al pistacchio. Ti chiedo solo un favore.”

“Quale?”

Lei tentenna.

“Mio fratello è molto particolare. Non lo mangia se non è servito come dice lui. Vuole un porzionatore bagnato in acqua fredda, coppette di cristallo, e niente ghiaccio. A casa lo facciamo con il neutro da gelato.”

“Cos’è?” Domando, mentre penso dove posso trovare le coppette di cristallo. Forse a quest’ora ci sono i magazzini aperti in centro, nel reparto casalinghi dovrebbero averle, oppure… potrei prenderle da un ristorante, sì, mi sembra più pratico… ci fermeremo a una taverna.

“Il neutro da gelato è una miscela fatta di diversi ingredienti come lecitine, carrube. Serve a renderlo più cremoso e a prevenire i cristalli di ghiaccio, si aggiunge a dosi di 0.3% o 0.5 %, un tre punto cinque. Poi si accorpano gli altri ingredienti secchi. L’importante è non sbagliare. Una dose in eccesso rovina la consistenza che diventa gommosa ed è tutto da buttare.”

“Non ne sapevo niente,” sussurro.

Poi un rumore, uno scoppio e un ronzio. La lampadina sul retro è fulminata. Ora il tramonto dalla porta a vetri appare impietoso. Un indaco marmorizzato.

“No? Non sei la prima” commenta. “Alla maggior parte delle persone gli ingredienti invisibili non interessano, fanno il loro lavoro, poi vengono coperti da altro.”

“Da cosa?”

“Cialde, granelle croccanti… capisci cosa intendo?”

No, non lo capisco. Guardo le sue ginocchia rosse e risalgo fino alle cosce, ai peli leggeri. Immagino la bocca odorare di latte in polvere e la sua vagina aprirsi in un filo di pellicola trasparente. Mostrare il rosso della mucosa, risucchiare dentro tutto, anche quell’indaco orribile, e rilasciare secrezioni di confetto e caramello, miste a un odore di erba bagnata.

“Posso vedere se lo vende qualcuno” dico.

“No, non puoi, adesso è tardi. Sono tutti chiusi.” Il tono è improvvisamente duro.

“Non verrete, allora?”

Mi guarda come se stesse cercando le parole giuste. “Devo chiedere a mio fratello.”

Mi sento sollevata. Andrà tutto bene. Passeremo una bella serata, grazie a me. Suo fratello deve somigliarle, sì, deve essere uguale a lei, ma più silenzioso. Ho persino voglia di conoscerlo. Un ragazzo con occhi blu-verde disinfettante, come i suoi. Finiremo il pollo e mi faranno i complimenti, nessuno saprà che l’ho comprato, dirò che è una ricetta di famiglia. Mia madre odiava la carne. Era una ballerina vegetariana. Diceva che ero venuta su così rossa per tutta quella carne, che le mie arterie erano sature del dolore e dei versi degli animali imploranti, che in qualche modo riaffioravano dalla carnagione. Poi verrà il gelato. Lui andrà a dormire presto, il viaggio lo ha stressato, ripeterà lei. Resteremo noi due sveglie, a parlare. È tanto che non passo la notte sveglia. Dirà che la casa è accogliente, proprio perfetta, mi sbagliavo, si scuserà.

Avrei dovuto lasciare le finestre aperte prima del nostro arrivo, di notte qui entra l’umidità dal mare, anche se la costa è lontana. L’aria si fa spessa nelle prime ore dell’alba, facendo sussultare per l’agitazione. La pelle di lei già da adesso è sudata, anche il viso è lucido come se le avessero leccato le palpebre, che brillano più del resto, più dell’incavo tra i seni bagnati e lì accanto, vicino al bordo della canottiera, lampeggiano piccole punture di insetto vecchie, incrostate.

“Chiudo e andiamo” dico. Mi guarda portare dentro le riviste, abbassare la saracinesca, immagino che percepisca il mio potere, qui.

“Il porzionatore per il gelato,” mi ricorda.

“Già.” Vado nel retro e prendo l’arnese, somiglia a un pendolo, torno fuori e glielo porgo.

Mentre ci avviamo al parcheggio mi rivolge uno sguardo che sembra titubare.

“Questo posto è alienante, mi piace. Cosa si prova a lavorare da invisibile?”

“In che senso?”

“Quando ero piccola facevo molte cose, troppe. A scuola sono stata campionessa della squadra di pallavolo, poi reginetta dell’istituto, e dopo è stato sempre così. Ho lavorato nel reparto amministrativo di un’azienda di moda, e da vicedirettore di una catena di resort a Paros. Mia zia… era diverso tempo che non ci vedevamo ma mi ha sempre inviato dei soldi, da quando non c’è più mia madre. Lavorava per le barche. Yatch per turisti.”

Credevo non avesse un centesimo. Mi sento ridicola ad averlo creduto, guardo la sua borsa trasparente e mi accorgo solo adesso che sopra ha una targhetta dorata cucita, Issey Miyake.

“Sono sempre stata quella che sa fare più o meno tutto, quella al centro della sua vita e degli altri. Ho diversi amici che quando non esco mi vengono a trovare, se non mi vedono in giro mi chiamano, si preoccupano. Mi piace chi fa qualcosa di defilato, penso a come sarebbe essere dimenticabili, a non contare niente per nessuno, nessuno che ti aspetta.”

Dalla macchina parcheggiata non sento rumori, non uno stereo acceso. Residui di blu e arancio nel cielo evidenziano graffi sparsi sulla carrozzeria. Siamo quasi arrivati quando vedo una massa riversa sul volante. Penso che suo fratello si sia addormentato e mi avvicino con cautela, mi sporgo per controllare il sedile alla guida e vedo che la sagoma non appartiene a una persona ma a un cumulo di vestiti appallotolati. Tra questi distinguo un grembiule, una tuta da ginnastica, una giacca della forestale, un’uniforme della polizia.

Non faccio in tempo a voltarmi che un boato mi rimbomba nella testa, come un temporale che non può venire dalle nuvole serrate, inadatte a piovere.

Dopo, il buio.

Non so per quanto. So solo che a un certo punto lo vedo diradarsi in un fucsia acceso che fa male, fa più male di tutta la gamma dei blu.

Apro gli occhi. Ci vogliono alcuni minuti per abituarmi alla luce. Fitte alla nuca appena mi sposto, odore di ferro, di tubature, mi tocco dietro, sento il sangue. Un ronzio nelle orecchie, un sibilo. Riconosco questa stanza, la lampadina itterica che si spegne a tratti. È il retro del mio negozio. Appena realizzo dove mi trovo mi sento tirare sul busto, lo sfioro. Questa canottiera è stretta, non è mia. Non ho mai indossato una canottiera, neppure per dormire, ne ho ribrezzo, più del sangue.

“Guardami.”

Fatico ad alzare la testa, sento il collo scricchiolare, il sangue spostarsi e defluire dal naso, muovo gli occhi, le palpebre gonfie.

Mi sta davanti, vedo le piccole punture di insetto sulle caviglie e sui piedi, una pelle troppo delicata.

Si è tolta le scarpe, sta infilando dal basso un’uniforme uguale alla mia, è la mia. Porta slip color carne a righe, sopra non ha niente, solo una catenina senza ciondolo che nel piegarsi dondola sul seno piccolo, sfiorando a tratti i capezzoli, bulbi di un rosa vivo. Guardo l’ombra della catena sparire, riapparire sotto l’arancio della luce.

La gonna le sta larga, tira su la cerniera laterale fino all’ascella, e il bustino, non riempito abbastanza, traballa e si piega in grinze. Ci sono ancora le chiazze del mio sudore vicino alla zip. Tra poco, sarà a contatto con il suo.

Vorrei aiutarla ma non riesco a muovermi. Infila le mie scarpe a décolleté basso ma sono lunghe, porto un 41, e le allontana verso di me con un calcio.

“A più tardi” dice, prima di uscire e richiudere la porta con due giri di chiave.

Afferro la maniglia, tiro ma non succede niente. L’orologio sulla parete segna le dieci… Abbasso la mano per cercare le chiavi del negozio, ma non c’è nessuna tasca. Sotto, ho solo le mie mutande bianche. Da fuori mi arriva una voce, la sua.

“Ventidue euro e cinquanta centesimi, contanti o carta?” Poi il trillo gracidante della cassa. La sento rispondere, indicare reparti.

Mi aggrappo alla maniglia del congelatore ma non riesco ad alzarmi, perché il sibilo si sposta da un orecchio all’altro. Arriva il rumore della porta di ingresso che si apre e si chiude, diverse voci e adesso una nuova, più giovane.

“Buongiorno, un pacchetto di Karelia morbide e una bottiglietta di Tsipouro.”

“Frigo?”

“No, temperatura ambiente.”

“Fanno nove euro e venti centesimi.”

La voce alla cassa è la sua ma il tono mi gela, è impersonale, anche il timbro è cambiato.

“Senta, posso farle una domanda? Devo andare a Vassaras, ho preso la superstrada ma devo aver sbagliato qualcosa, mi sono persa.” Sento chiedere dalla voce sconosciuta.

“Succede spesso, qui.” La risposta non ha colore. Potrei essere io, se non sentissi il mio corpo sanguinare giurerei di essere io.

Il sangue ha macchiato la canottiera, non smette di scendere, porto la testa leggermente indietro, la fitta dal collo alla nuca aumenta, sento il sangue anche in bocca, provo ad aprirla ma non riesco, il labbro è spaccato fino all’interno, la mandibola, anche.

Ha detto che tornerà. Verrà a prendermi e mi porterà via con lei, probabilmente faremo tardi per la cena, ma ormai siamo sole, possiamo passare direttamente al dolce, al gelato. Berremo del raki con miele, spero non sia scaduto, mi farà bene all’ematoma, disinfetta. Rideremo del fantoccio che credevo suo fratello, spero di riuscire ad aprire un minimo la bocca per allora, sarebbe spiacevole saltare la parte in terrazza in cui parliamo sotto le stelle. Le toglierò lo sbaffo di crema all’angolo della sua leccando il dito, e strofinandoglielo contro. Come con Alissia. Anche lei non sapeva mangiare senza sporcarsi, una mocciosa: tè, latte, loukoumi alla panna, le finivano sulla guancia, giù, lungo il petto. Mi chiedeva se avevo qualcosa per smacchiare i vestiti, le davo del sapone di olivo e si toglieva tutto, restava senza niente perché il seno era troppo piccolo, non aveva ancora sviluppato, e sua madre diceva che i reggiseni sono per donne vere, che hanno avuto le mestruazioni almeno cinque volte. Ma il suo torace era stretto, e il seno sporgeva comunque ai lati, evidente.  La accompagnavo in lavanderia e la guardavo strofinare con la spazzola. Quel rumore, i movimenti ripetitivi su e giù, mi provocavano una sensazione fisica, come se la spazzola grattasse contro la sua pelle. Qualcosa che mi metteva a disagio. Poi le passavo una sigaretta e ci chiudevamo lì a fumare finché i vestiti non erano asciutti, con il caldo si asciugavano presto, sapevano di olivo e di fumo. Una volta mi aveva chiesto di farle vedere il mio di seno, mi vergognavo, lei aveva ribattuto che non era equo, io l’avevo vista tante volte. Ero l’unica in classe ad avere già il ciclo da un anno. Mia madre mi comprava dei reggiseni contenitivi nei negozi di ortopedia, perché avevo una leggera scoliosi, reggiseni alti di taglie grandi, con il ferretto e senza coppe preformate, che si sganciano davanti. Lo avevo aperto in un clic, e avevo sentito la carne sciogliersi, liberata, espandersi come gomma in tutte le direzioni, cedere verso il basso. I miei capezzoli erano scuri con aureole piatte e ampie, non puntavano come i suoi, con quella strafottenza. Li aveva fissati senza guardarmi in faccia, a lungo. Poi aveva buttato la sigaretta nel tubo di scarico del lavabo, spingendola dentro con le unghie, mia madre non avrebbe voluto, non voleva che ci finissero neanche le briciole dei piatti. Aveva aperto l’acqua per lavare la cenere, e si era ricordata improvvisamente di me.

“Cosa ci fai così? Rivestiti.”

Da allora non mi aveva più rivolto parola. Quando la incontravo nei corridoi tirava dritto, aveva smesso di fumare e aveva fatto amicizia con certe ragazzine di Psilalonia, che avevano già un conto corrente a loro nome e acquistavano abiti da Grigio e Mi – Ro. Avevo provato a chiamarla a casa un paio di volte, ma non aveva mai risposto. Finché un giorno avevo visto il suo numero sul display. Era sua madre, mi chiedeva con freddezza di passarle la mia. Da un po’ di tempo Alissia era agitata, diceva, aveva l’ansia ogni volta che metteva piede a scuola, io avevo avuto una pessima influenza su sua figlia e adesso dovevo lasciarla stare, smettere di perseguitarla.

Tocco la carcassa del bofrost, appoggio la testa contro e per la prima volta mi sento in pace. Chiudo gli occhi. Mi sveglia il rumore della saracinesca, guardo l’orologio nello stanzino: le otto e venticinque, precisamente come me, ogni sera.

Sento il rumore familiare del lucchetto, di carcasse di ferro, vorrei avere il tempo di rinfrescarmi, di sistemarmi perché posso fare una certa figura se mi impegno, lo penso ancora. Se mi lasciasse prendere dalla borsa il mio campioncino L’Air de Rien… meglio di no, mi ha già vista come mi vedrà dopo… suonerebbe innaturale, volgare, e poi non credo di riuscire ad applicarlo… respiro… respiro ancora… lei dice che lo fa col gelato neutro, conta solo non sbagliare le dosi, o è tutto da buttare…  da buttare… mi calmo.

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