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di Michele Arezzo

Si chiese come fosse l’acqua, ma non seppe rispondersi. Era calda, prima, e adesso non era più niente. Cercò allora un ultimo tepore, fra le cosce e sul collo, ma sentì solo i risucchi dell’acqua smossa. Mulinò con le dita sotto un ciuffo di schiuma e pensò che era uno schifo, che l’acqua era davvero sporca, di uno scuro mieloso, e che avrebbe dovuto ricominciare a lavarsi di più.

Si tirò via dalla vasca, un po’ sghimbescio. E come fu in piedi dovette chiudere gli occhi, stringerli con i denti, tante le vertigini. Le pillole, pensò. Il sonno pensò. E quasi gli venne da tornare giù e addormentarsi, in quell’acqua che adesso, a guadarla da alzato pareva cemento. In superfice poi aveva una specie di pellicola cinerea, intorno alle schiume rimaste, che gli fece impressione.

Santo cielo, disse. E si strinse l’accappatoio, sparì nel cappuccio e fu in una penombra al borotalco. Lì, tenendo gli occhi schiusi, contò da quanto non dormisse dignitosamente. Si sorprese a pensare nell’ordine delle settimane e si fece tenerezza. Almeno per un po’. Prima erano giorni, adesso non più.

La moglie mangiava del pollo alla piastra. I tre figli invece le palermitane con le patatine fritte. Nessuno di loro sembrava avere fame davvero, ma tutti mangiavano chini sul piatto e con una certa spinta.

Quando lui prese posto a tavola, la moglie gli sorrise. Anche i tre figli gli sorrisero, ma subito distolsero lo sguardo. Il più piccolo si pulì la bocca con un tovagliolo e rimase come sospeso per un po’, quasi avesse dimenticato dove fosse e cosa dovesse fare. Poi, impacciato, si rimise a mangiare.

Dopo suonarono alla porta. Lui fece per alzarsi, ma la moglie gli posò una mano sul braccio e andò lei. Era un poliziotto. Lui, che pure non si era mosso, lo capì dal tono della voce, perentorio e monocorde. Il vocione disse che il ragazzo alla fine era morto e che i funerali sarebbero stati il lunedì. Lui d’istinto si chiese perché se ne dicesse al plurale, i funerali, pure quando il morto è uno solo. Poi si vergognò del pensiero e allora si dispiacque che fossero di lunedì. È più triste di lunedì, pensò.

Dopo sentì la moglie salutare e chiudere la porta. Quello che non sentì furono i suoi passi di ritorno lungo il corridoio. Aspettò uno due tre secondi, ma niente. Pensò di chiamarla, per un attimo, ma non lo fece. La immaginò ferma, sullo zerbino, con gli occhi chiusi, il rigurgito lucidissimo di quanto fosse accaduto e il solito bisogno di ricomporsi.

Santo cielo, disse piano.

E i tre figli si voltarono a guardarlo. Tutti insieme. Lui allora non resse. Ci provò come poté, ma non ci fu verso. Tutti quegli occhi, non ci si poteva proprio fare niente. Così si alzò. Allontanò la sedia delicatamente e uscì in balcone, con una lattina di coca cola. Faceva freddo e il cielo somigliava all’acqua della vasca. Prese a bere la lattina e intanto sentì la moglie che tornava e si sedeva coi suoi figli. Li sentì parlare e fu sollevato.

Era successo tutto ormai da quasi due mesi.

Era un martedì sera, mancava un quarto alla mezzanotte, e i suoi figli dormivano più o meno da una mezz’ora: il piccolo stava in braccio a sua moglie già a letto, il grande invece accanto a lui sul divano. In televisione andavano le sintesi dei posticipi di campionato. Lui un po’ gli dava un occhio e un po’ sonnecchiava, quando di colpo dalla cucina era sbucato un ragazzo: era secco secco e biondissimo, aveva un giubbotto bianco tirato su fino al naso e gli scarponi da trekking. In tutto quel buio pareva un apostrofo bianco che non posava nemmeno a terra. Una cosa da restarci secchi. Come si era accorto di padre e figlio sul divano si era inchiodato in una posa anche buffa. Aveva paura, ma niente ormai poteva farci. Vedeva l’uomo seduto che adesso lo fissava, ma di più il bimbetto che gli stava accanto: dormiva con la boccuccia mezza aperta e i braccini come un cristo.

I due, l’uomo e il ladro, si erano guardati per una manciata di secondi senza fare niente. Ciascuno aspettava di capire come sarebbero andate le cose, nella segreta speranza ci fosse ancora rimedio. Poi il ragazzo secco secco e biondissimo si era scorto in uno specchietto che stava alle spalle del divano. E gli era venuta voglia di piangere. Ma non aveva pianto. Aveva invece tirato fuori un piccolo mazzuolo e lo aveva alzato a mezz’aria. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma era la prima volta e si sentiva grottesco.

L’uomo sul divano teneva un braccio davanti al bimbetto e lo guardava, senza però capire che faccia prendersi. Di colpo si erano sentiti dei passi dal corridoio ed era comparsa la madre. I due si erano voltati a guardarla, quasi insieme, e allora lei aveva cercato di urlare, ma non le era riuscito. La voce le saliva dritta dai lombi, ma si perdeva, crocchiava o s’impastava di fiato. Il ragazzetto d’istinto aveva fatto per andarle contro, ma gli si era ammollato un ginocchio ed era finito per terra. Nel cadere, il mazzuolo gli era scappato di mano, aveva fatto una specie di arco, si era ficcato in una vetrinetta, come un pugnale, e tutto era andato in pezzi. Era stato un crosciare magnifico, non c’è che dire. Solo che allora il bimbetto sul divano si era messo a piangere come sempre piangono i bimbetti; e pure il grande, era spuntato dal corridoio gridando mamma. Il padre gli aveva visto lo sguardo e non gli era parso troppo diverso da quello di tanti altri spaventi. Gli era venuto da pensare però che quella scena non se la sarebbe scordata mai più. Aveva quattro anni e quattro anni sono un tempo sufficiente perché la memoria abbia già le sue maglie e tutte le sue stanze a posto. Così l’uomo era zompato addosso al ragazzetto, gli era montato cavalcioni sulla schiena e aveva preso a colpirlo sulla nuca. In principio erano pugni, uno due quattro dieci, poi invece si era messo a picchiarlo coi gomiti, il destro e il sinistro, il destro e il sinistro, il destro e il sinistro, cercando sempre di impattare con gli ossi. Era andato avanti per un po’ – non avrebbe mai saputo dire quanto. Si era fermato all’improvviso, quando su un colpo qualsiasi la testa del ragazzo si era fatta molle. Allora si era tirato su e, ancora sui ginocchi, aveva cercato di respirare. Poi, bocconi, si era stropicciato gli occhi e li aveva visti: sua moglie e i suoi figli, uno dentro l’altro, in piedi sul divano che lo guardavano.

Quando tornò dentro, dal balcone, in cucina non c’era più nessuno. Sentiva di là i suoi figli giocare e per un attimo gli prese la voglia di andare a guardarli. Poi però ci pensò bene e si disse di lasciar perdere. Gettò la lattina nella plastica e si fece un panino con le sottilette.

La sera, a letto, accarezzò la schiena di sua moglie. Le diede un bacio fra i capelli, mentre andava su e giù con le mani, e poi cercò qualcosa da dirle. Lei era sveglia, ma non si mosse. Aspettava di capire cosa volesse lui, perché per quanto stava lì a toccarla era sicura che stesse pensando a qualcos’altro. E infatti lui smise presto, si girò dall’altra parte e dopo un niente lo sentì che russava.

La mattina dopo era domenica. Fecero tutti colazione insieme, come sempre la domenica, ma la moglie a un certo punto accese la televisione. Quando i bambini ebbero finito, tutti si vestirono e andarono a fare due passi sui terrapieni della diga. Nessuno parlava però. E un po’ era normale, ma di più iniziavano a farci l’abitudine. In prossimità di una specie di stagno, videro due cagnoni, due randagi, che si inseguivano e si azzuffavano e poi tornavano a inseguirsi e di nuovo ad azzuffarsi. I bambini non sapevano se spaventarsi o divertirsi, così si fermarono, tutti e due, in quel modo definitivo che è dei bambini, e poi si voltarono per copiare i loro genitori. Ma d’istinto cercarono solo la madre. Il padre, che se ne accorse, mise su una bella voce e disse che non c’era da aver paura. Lui ne sapeva di cani e quello era solo un modo di giocare. Il più grande lo guardò per un attimo, ma subito tornò con gli occhi da sua madre. I cani adesso ringhiavano, ma forse giocavano ancora. Il più piccolo allora cominciò a piangere e il padre lo prese in braccio. Il bimbetto però non volle saperne di smettere. Così la madre disse all’uomo che c’avrebbe pensato lei e se lo fece dare. Il più grande, geloso del fratellino, andò sotto la madre perché prendesse in braccio anche lui. Il padre allora forzò una specie di risata, lo prese per le ascelline e tutto contento se lo mise sulle spalle. Il figlio però partì a piangere, se possibile più forte del bimbetto. Il padre abbozzò una mezza corsa, allargando le braccia a mo’ di volo, ma non servì a niente. La madre, in un bel modo, gli disse allora di metterlo giù, che erano solo capricci e sarebbero passati. Il padre fece di sì con la testa. I cagnoni intanto si erano divisi. Uno sonnecchiava quasi sulla prima acqua dello stagno e l’altro invece, al trotto, si allontanava verso il ponte.

L’indomani l’uomo si alzò per primo. Aveva dormito sul divano e non era occorsa nemmeno la sveglia perché si svegliasse. Andò in bagno e per un minuto se ne rimase lì, nello specchio, a decidere se farsi una doccia. Ricordò che aveva fatto il bagno un paio di giorni prima e andò in cucina. Mise su il caffè, uscì tutto quello che c’era per la colazione, come piaceva ai suoi figli, e apparecchiò alla buona. Mangiarono tutti insieme, con Tom e Jerry alla televisione, e ogni volta che l’uomo guardava verso la moglie o quasi faceva per dirle qualcosa, lei si girava verso i figli e chiedeva loro del grembiule, delle salviettine o cose di questo tipo. Quando ebbero finito e furono pronti, la moglie lo salutò con un bacio sulla guancia, poi sistemò i bambini in macchina e se ne andò. L’uomo invece rimase in casa per quasi un’altra ora. Dopo si cambiò i pantaloni del pigiama e uscì a fare una corsa.

La bara era coperta di fiori. L’organo suonava qualcosa di canonico, mentre la gente che arrivava si sceglieva un posto per sedere. Non erano in tanti e la moglie così poté mettersi in una delle panche laterali. Faceva freddo e per un po’ non successe nulla. Poi si aprì la porta della sagrestia e ne venne fuori una famiglia, tutta insieme, seguita dal parroco. Da quel momento cominciò la funzione e il continuo cigolare del legno a ogni in piedi e seduti e in preghiera. A un certo punto cominciò la predica. E fu noiosa. È noiosa, pensò la moglie, ma meno noiosa di tante altre. Poi il parroco, con il coro sotto che lo accompagnava, prese un po’ a recitare e un po’ a cantare una specie di nenia che a ogni ritornello pregava per i vivi, per la vita e per le anime di chi non c’era più.

Dopo, la messa finì e la moglie insieme agli altri passò lentamente di fianco alla bara. Tutti si fecero il segno della croce e posarono un bacio sulla foto del ragazzetto. Tutti eccetto lei, che invece chiuse gli occhi ed evitò di guardarla, per paura di sentirsi come nuda.

Fuori qualcuno parlava di vendetta.

Qualcun altro invece piangeva e basta.

Salita in macchina, la donna pensò di tornare a casa, ma quando la vide sbucare, in fondo alla strada, si fermò, fece manovra e tornò indietro. Per un po’ girò a vuoto, salì verso la città, poi verso San Alcide, e alla fine si decise per la scuola dei suoi figli. Li prese per la ricreazione e li portò al porticciolo. Comprarono i gelati e andarono a mangiarli sul molo più lontano. Si sedettero su una panchina e il figlio più grande cominciò a raccontare qualcosa sugli unicorni e sul cioccolato. Il bimbetto più piccolo rideva e faceva su e giù dalla panchina. Tanto fece che a un certo punto gli si rovesciò il gelato sul grembiule. E allora scoppiò a piangere. La madre lo pulì come poté, ma la macchia era grossa e non ci si poteva fare poi molto. Il bimbetto disse pure che aveva freddo. Così i tre tornarono in macchina e presero la strada di casa.

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