di Stefano Redaelli
Un paese inghiottito dall’oblio e dal terremoto: ci vuole un Mengo (un matto), per scendere nel precipizio, per andarlo a ritrovare. Pezzo pezzo. Ci vuole un poeta per farlo parlare.
Con Cronache dalle terre di Scarciafratta (minimun fax, 2021) Remo Rapino continua l’epica del suo Abruzzo: voce di un secolo assurdo e di un minuscolo borgo, archivio dell’universo.
Parlano da cliniche psichiatriche i matti, quando non sono in strada a parlare alla luna, a un cane, a nessuno. Ma nelle cliniche chi li ascolta? Sono nate per metterli a tacere. Faceva così male quello che avevano da dire? Era troppo vero e doloroso e bello da ascoltare?
Ogni volta che un poeta si mette in ascolto, varca la soglia di una clinica, guarda la luna piena, squallida e veritiera, la follia torna a parlare. E siamo un po’ più inquieti, un po’ più beati. Siamo grati. Io lo sono a Remo Rapino per tre motivi. Primo: continua a dare voce agli ultimi, ai folli. Secondo: il racconto a una voce di Liborio (protagonista di Vita, morte e miracoli…) diventa polifonia nelle Cronache di Mengo (che dirige e canta): parlano Spadafora Corradino lo Spagnolo, Covatta Nunziatino lu belgese, il Maestro Forchetta don Visidoro, Nicolino Policorvo Culì (“lu scimunito del paese”), Bonaluce Artemisio (cantiniere e poeta), Capezza Malvina (“la magara che non aveva saputo prevedere la sua morte), Nocella Peppe Spartachetto (“rivoluzionario disperso”) e gli altri abitanti di Scarciafratta ingoiati del terremoto; parla perfino il terremoto: “la cosa brutta”. Terzo: Rapino torna alla sua prima vocazione, quella di poeta.
Che la gente si crede che non ci vuole niente a scrivere le poesie, che poi non sanno manco cosa sono le rime, che uno mette vicino due parole, cuore e dolore, e allora si crede che ha scritto una poesia, e scì! Per fare una poesia ci vogliono un mare di cose, una certa sapienza della vita e un tanticchio pure della morte, e se poi ti ritrovi a svalvolare il cervello pure buono è.
Sapienza della vita, della morte, della follia.
Pietas e poesia plasmano le pagine delle Cronache, un po’ Antologia di Spoon River, un po’ Vite di uomini non illustri. Non fa paura la morte, ma il silenzio (della “scordanza”, dell’indifferenza per il destino di chi sta ai margini), sembra dirci Rapino. Perché dopo la morte “restano solo le voci”, se qualcuno le fa parlare. Benedetto allora Mengo “che, sempre ai ferri corti con la vita, ancora parla, sparla e si ascolta”, e salva dalle macerie il registro di Scarciafratta.
Mi saliva alla mente che dovevo fare qualcosa, che, forse, dovevo ricopiare per bene tutta quella storia che era passata dalla vita alla morte, e farla ritornare ancora alla vita, con qualche trucco di scrittura, per quel poco che ci sapevo mettere mano alla penna. Che se ridavo una aggiustata alle parole e le riaffilavo giusto giusto, potevo far riparlare i morti, come se tornavano a Scarciafratta dopo un lungo viaggio. Ecco, allora, pensavo che così tutto il mondo poteva sapere le storie di Scarciafratta e dei bambini nostri, le persone, gli alberi, l’uccisione del maiale, la neve.
Che bel personaggio, Mengo. Fa tenerezza. Lo vedo attraversare le pietre di Scarciafratta con Sciambricò, il suo vecchio cane dal “testone spelato”, scavare tra le macerie, lo sento farfugliare. E gli voglio bene, gli auguro le molte vite di Liborio (dal romanzo al film di Antonio D’Ottavio; dalla canzone di Federico Sirianni al burattino di Dario Longo). O anche no. Che se resta solo di carta, pura cosa buona è (direbbe Mengo, direbbe Liborio).
Tra le tante, una pagina mi ha fatto pensare. Mengo muore in una clinica psichiatrica il giorno dell’allunaggio: 21 luglio 1969. Mi è sembrata una allegoria di quello che è accaduto ai folli con la psichiatria. Quando la scienza colonizza lo spazio della follia (occupa la luna), trasformandola in malattia, inaugura il suo silenzio. E il grande internamento. Basaglia lo aveva capito, per questo ha chiuso i manicomi, sperando di ridarle voce. Ma non è bastato. Non poteva bastare e Basaglia lo sapeva. Non si tratta di una riforma psichiatrica, ma culturale. Ci vogliono i poeti per decolonizzare la luna. E questo è il quarto motivo per cui sono grato a Remo Rapino.
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Stefano Redaelli è professore di Letteratura Italiana presso l’Università di Varsavia. È autore dei saggi Nel varco tra le due culture. Letteratura e scienza in Italia (Bulzoni, 2016), Le due culture. Due approcci oltre la dicotomia (con Klaus Colanero, Arcane, 2016), Circoscrivere la follia: Mario Tobino, Alda Merini, Carmelo Samonà (Sublupa, 2013) e di numerosi articoli scientifici. Ha pubblicato la raccolta di racconti Spirabole (Città Nuova, 2008), i romanzi Chilometrotrenta (San Paolo, 2011) e Beati gli inquieti (Neo Edizioni, 2021).
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