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“Volete salvare queste persone ma non volete avere a che fare con il caos che si portano dietro”. Questa riflessione, pronunciata da uno dei volontari delle ong che fanno attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, portati sul palco dalla compagnia bolognese Kepler-452, è una delle frasi più dure del loro nuovo lavoro, A place of safety. Lo Spettacolo, come anticipa il titolo, cerca di fare i conti con una delle tragedie della nostra contemporaneità, quella dei migranti che attraversano la frontiera d’acqua dell’Europa, il Mediterraneo, toponimo che da simbolo di cultura è diventato negli ultimi decenni sinonimo di morte. Ma di fronte a un fenomeno che conta già oltre trentamila morti, verso cui invece che registrare un aumento dell’indignazione e della protesta si riscontra sempre più rassegnazione e stanchezza, e perfino aperta ostilità, forse allora la “tragedia” che ci troviamo di fronte sta cambiano contorno e dimensione.

Scomodare la parola tragedia non è mai un fatto neutro a teatro, significa attivare istintivamente una serie di implicazioni e riferimenti, modelli narrativi e metafore che, per il semplice fatto di incarnare un fatto luttuoso e colpevole della nostra contemporaneità attraverso un modello classico ci rassicura, ci blandisce: abbiamo compiuto un atto di impegno civile, gli attori lì sul palco e noi spettatori giù in platea; abbiamo preso posizione, possiamo rassicurarci a vicenda, confermare a noi stessi di esserci posizionati dalla parte giusta, pur non avendo gli strumenti per cambiare le cose; abbiamo consumato un rito collettivo che chiarisce chi ha le colpe e chi invece quelle colpe sa riconoscerle e denunciarle. Tutto questo può bastare? Ovviamente no. Oggi, nel 2025, pensare di fare uno spettacolo che “prende posizione” su un tema raccontato mille volte – dove le posizioni tra chi vorrebbe un’Europa di accoglienza e chi apertamente la combatte sono nette e ben visibili – non è solo naif, ma rischia perfino di diventare autoassolutorio.

A place of safety, per fortuna, è un oggetto ben diverso. Non è soltanto un racconto delle difficoltà e dei contraccolpi emotivi di chi fa soccorso in mare. C’è anche quello ovviamente: c’è la storia di un’infermiera italiana che si imbarca per riprendere contatto con se stessa dopo aver sperimentato un sistema spersonalizzante nelle aziende ospedaliere, rischiando di trasformarsi nell’ingranaggio burbero di un meccanismo di indifferenza verso pazienti e parenti; c’è la vicenda di un elettricista statunitense, figlio di migranti messicani, che sceglie di imbarcarsi per fare i conti con le proprie radici; ci sono i dubbi del fisico portoghese, che sa che di fronte all’indifferenza dei governi bisogna tentare qualcosa, ma che davanti alle difficoltà insormontabili si domanda se tutto quello non lo stia facendo per se stesso, per la sua e la nostra coscienza di occidentali dalla vita comoda; c’è il racconto dell’ex militare di marina che, nonostante sembri appartenere a un modo dalle ideologie ben diverse, finisce imbarcarsi con Emergency.

Ci sono queste storie e ci sono le storie dei bambini morti in mare, dei corpi che affondano, della pelle ustionata dalla miscela di carburante e acqua marina, dell’odore asfissiante del distress. C’è il diario di una spedizione a bordo della Sea Watch effettivamente compiuta da Enrico Baraldi e Nicola Borghesi (quest’ultimo in scena assieme ai volontari, attori non professionisti che sul palco danno corpo alla propria storia, come da tradizione della compagnia bolognese) e c’è la riflessione sul fatto che questo spettacolo è un lavoro pensato, realizzato e raccontato da bianchi europei; c’è l’interrogarsi su quanto il complesso del white savior finisca per lambire anche chi si attiva con le migliori intenzioni, e l’idea che di fronte al cinismo del nostro tempo occorra rispondere con azioni concrete, che forse sono in grado di spostare pochissimo, è vero, ma che quel poco va comunque tentato.

Tutto questo è presente nello spettacolo di Kepler452, ma se pure ogni storia contribuisce a farci visualizzare le condizioni estreme del viaggio in mare e i dilemmi laceranti di chi pratica il soccorso (come, ad esempio, scegliere chi salvare e lasciare andare chi non ha possibilità di farcela), se possiamo definire A place of safety come uno spettacolo non solo riuscito, ma persino memorabile, è perché riesce a materializzare la frattura epistemologica che l’Europa, l’occidente, sta vivendo di fronte a un processo epocale che ha letteralmente travolto il suo senso morale e, con esso, la sua identità.

È in questa frattura che risiede la tragedia dell’Europa, che non riesce a immaginare se stessa in un quadro di cambiamenti epocali in cui pure è già inserita. A place of safety , prima ancora che una serie di storie è l’analisi del linguaggio dell’Occidente, fatto di lacune e reticenze, di omissioni e edulcorazioni, a partire dallo stesso titolo dello spettacolo, “un posto sicuro”, il porto di approdo dove il diritto internazionale chiede che vengano sbarcate le persone soccorse in mare, un termine che con il passare degli anni e l’acuirsi delle chiusure dei governi è diventato oggetto di feroce interpretazione.

Ma si può interpretare l’obbligo del soccorso di chi rischia la vita in mare? Si può chiedere a chi sta affondando di chiamare Malta piuttosto che l’Italia perché così richiede la proceduta o perché, in questo modo, ci si libera di una questione politicamente scomoda? Si può barattare la propria comodità, il proprio tornaconto, con la coscienza che il costo è pagato in vite umane lasciate alla deriva? E soprattutto, se pure siamo in grado di farlo, cosa resta del nostro linguaggio, della sua aderenza alla realtà, quando torniamo a rivolgerlo a noi stessi e alla nostra identità?

Se la tragedia è quel formato di racconto che, chiudendo i protagonisti in un doppio vincolo, finisce per tratteggiare una possibilità di scelta dove in ogni caso si perde qualcosa, ebbene lo spettacolo di Kepler452 è certamente riuscito a realizzare una tragedia contemporanea. Il caos evocato dalla frase del volontario statunitense non è altro che ciò che non possiamo o non vogliamo vedere: le ferite che i migranti si portano addosso, innanzitutto, che li rendono lontani dal ritratto addomesticato in cui rinchiudiamo le loro esistenze; ma anche la complicità dei nostri governi nell’infliggere tali ferite, scegliendo di prendere accordi con le autorità libiche che si macchiano di crimini e torture – e la scarcerazione di Al-masri è solo la più visibile delle compromissioni – anziché indirizzare risorse e personale per salvare vite in mare. Quello che ne esce non è solo la consapevolezza della vecchiezza del nostro vecchio mondo, ma anche l’incapacità, forse irreversibile, di cogliere i tratti del nuovo che comunque preme alle nostre porte.

Da ultimo una nota di carattere squisitamente teatrale: con il suo plurilinguismo, che spazia dall’inglese al portoghese, dallo spagnolo all’italiano, A place of safety è già di per sé congegnato come uno spettacolo europeo. Ma non è solo questo a renderlo compiutamente tale: è soprattutto la tensione drammatica l’intelligenza del dispositivo drammaturgico. Con questo lavoro Kepler-452 compie infatti un salto artistico notevole, che inserisce le loro indagini teatrali sulla realtà nel solco della grande drammaturgia continentale, da Milo Rau a Rimini Protokoll, e affina la cifra stilista della compagnia che dimostra di saper costruire uno spettacolo di grande respiro – grazie anche alle scenografie firmate da Alberto Favretto, al disegno sonoro di Massimo Carozzi e alla cura del movimento di Marta Ciappina – in grado di riempire egregiamente il palco grande del Teatro Arena del Sole di Bologna, dove il lavoro ha debuttato, e di tenere incollato il pubblico per due ore, che scioglierà l’emozione soltanto alla fine con un lungo, scrociante applauso.

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Visto al Teatro Arena del Sole, Bologna

Ideazione: Kepler-452

Regia e drammaturgia: Enrico Baraldi e Nicola Borghesi

Con le parole di: Flavio Catalano, Miguel Duarte, Giorgia Linardi, Floriana Pati, José Ricardo Peña

In scena: Nicola Borghesi, Flavio Catalano, Miguel Duarte, Giorgia Linardi, Floriana Pati, José Ricardo Peña

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Autore

grazianograziani@minimaetmoralia.it

Graziano Graziani (Roma, 1978) è scrittore e critico teatrale. Collabora con Radio 3 Rai (Fahrenheit, Tre Soldi) e Rai 5 (Memo). Caporedattore del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha collaborato con Paese Sera, Frigidaire, Il Nuovo Male, Carta e ha scritto per diverse altre testate (Opera Mundi, Lo Straniero, Diario). Ha pubblicato vari saggi di teatro e curato volumi per Editoria&Spettacolo e Titivillus. Ha pubblicato l'opera narrativa Esperia (Gaffi, 2008); una prosa teatralizzata sugli ultimi giorni di vita di Van Gogh dal titolo Il ritratto del dottor Gachet (La Camera Verde, 2009); I sonetti der Corvaccio (La Camera Verde, 2011), una Spoon River in 108 sonetti romaneschi; i reportage narrativi sulla micronazioni Stati d'eccezione. Cosa sono le micronazioni? (Edizioni dell'Asino, Roma, 2012). Cura un blog intitolato anch'esso Stati d'Eccezione.

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