
di Stefano Felici
Portare un gesto alla sua perfezione è una pratica crudele. Per questo il nuoto è uno sport violento.
Non c’è giorno in cui la perfezione non venga a riscuotere il sacrificio che le spetta. Non ammette stanchezza, non riconosce karma, non giustifica malattia, non tiene conto di buona fede o crediti. Un giorno a vuoto, un allenamento saltato, o mal condotto, uno sgarro, e si perde il lavoro di una settimana. L’ideale della perfezione è una negazione continua di tutto ciò che le sta attorno.
Qui in Italia ne sappiamo qualcosa. Abbiamo seguito di riflesso, magari a strappi di due o quattro anni, le vicende di Federica Pellegrini; conosciamo sommariamente le sue crisi di panico, la sua depressione, i momenti di down vissuti durante la carriera. In pochi, però, sapranno o si saranno soffermati a pensare su quale sia stata, per così tanto tempo, la sua vita quotidiana, la routine giornaliera – al di là dei gossip mondani. Non che la vita da atleta sia un mistero, un territorio inesplorato: la letteratura popolare e televisiva ce ne mette al corrente fin da subito. È più che altro l’avere a che fare col talento, un grande talento, e ovviamente nutrirlo, a essere una dimensione difficile da penetrare per la maggioranza del pubblico.
La violenza di uno sport come il nuoto, dove una bracciata indecisa può costare un decimo di secondo, e un decimo di secondo una medaglia, la si può ritrovare in carriere come quella di Pellegrini, ma con ancor più fragorosa evidenza in carriere in cui il talento è naufragato completamente, e così in fretta da far dubitare che sia davvero esistito. Uno di questi casi è quello di Rūta Meilutytė.
Nell’analisi di Giuseppe Pastore, Rūta è una ragazza in conflitto col proprio corpo. Comincia a essere una campionessa fin da subito, a sedici anni, e l’adolescenza, i ritmi implacabili degli allenamenti, lo stile di vita austero, ne minano il processo di costruzione della propria identità, ancor prima della formazione come nuotatrice. Il corpo: massimo dell’efficienza nel singolo gesto – Rūta nuota a rana: forse lo stile più completo e al tempo stesso complicato, coreografico. Scomponibile, riassemblabile. Così il corpo. E il corpo è reso strumento. Talmente tanto che Pastore si lascia scappare un accostamento alle visioni martoriate e meccaniche dei corpi di un regista come Cronenberg.
Rūta Meilutytė ha le carte in regola per diventare una delle maggiori campionesse di tutti i tempi. Nei campionati giovanili è semplicemente la migliore. Eppure la combinazione dei vari fattori che compongono l’esistenza di un’adolescente, se accostate a un talento ingombrante, non sempre portano al medesimo risultato – men che meno il migliore possibile. Rūta si ritira nel 2019, ventiduenne. Troppe storture nel mondo del nuoto, nel tessuto relazionale della bolla, nei suoi meccanismi. E la vita, più in generale: troppo grande per viverla una vasca alla volta, per chissà quanti anni ancora. L’esclusività della perfezione non fa per lei. Il talento viene dismesso.
La caduta dei campioni (Einaudi, 2020, 173 pp) esamina il corso di dieci talenti sportivi che, più o meno inspiegabilmente, hanno mostrato doti straordinarie agli esordi della propria carriera, riuscendo persino ad arrivare in cima, per poi piombare irrimediabilmente in picchiata, e senza il paracadute di una seconda chance.
Tutti gli inizi si somigliano, ma ognuno affonda nel tragico a modo suo. Di Safin e Pantani vengono raccontati i primi passi da predestinati, l’attenzione dei media e degli allenatori, il clamore degli esordi; ma sappiamo che il primo, oggi, è una sorta di influencer di Instagram con un esperienza da politico alle spalle, mentre il Pirata è morto di overdose, nella più totale solitudine e disperazione, ormai più di sedici anni fa.
Di Antonio Cassano ricordiamo tutti il suo magnifico gol contro l’Inter, al San Nicola nel 1999, e l’infrangersi di ogni aspettativa al termine del suo periodo coi galacticos, alla corte di Fabio Capello. Lui una seconda chance, a Genova, con la Samp, l’ha quasi avuta: ma anche quella, buttata al vento. Tipico dei bricconi, suggerisce Tommaso Giagni, nel descrivere l’altalena che è stata la carriera calcistica di FantAntonio.
È lo sprofondare nelle strane sabbie mobili del fallimento, della rinuncia al talento, la materia d’analisi delle dieci firme di Ultimo Uomo, alternate, come loro consueto, tra attentissimi compendi di cronaca, dati, e picchi introspettivi tra saggio e narrazione.
Si alternano archi narrativi complessi ma restituiti in maniera semplice e lineare, come nel caso di Bojan Krkić, calciatore attanagliato dall’ansia negli anni da professionista al Barcellona, raccontato con equilibrio e affetto quasi fraterno da Emilano Battazzi; o quello del Pantani epico di Matteo Nucci – in cui a volte, però, la mano dell’autore compare con qualche forzatura di paragone ai classicismi greci o con espedienti narrativi di mestiere fin troppo esposti.
In altre occasioni ci si interroga per tutto il tempo sulla psicologia del fallimento – vedi l’affascinante Bargnani contro il basket, più alieno che “mago” nella visione di Marco D’Ottavi –, in altre ancora è l’analisi al microscopio dei gol e delle giocate, dei gesti singoli, a prendere il sopravvento, come a voler convincere il lettore dell’immenso spreco cui è davanti.
Per quanto riguarda i calciatori (sei: più della metà degli sportivi di cui si parla nel libro) lo schema, nel suo mostrare i gol, cercare di ricostruire il contesto storico e culturale e ripiegarsi su un presente malinconico, è consolidato; e converge sul grande rimpianto per il campione totale che non c’è. Nei personaggi come i già citati Safin, Bargnani e Meilutytė i confini tra mente e sport, percezione dell’atleta e suo simulacro, diventano positivamente più sfocati, pur avendo davanti una scrittura esperta e controllata: si avverte cioè uno smarginamento più speculativo e astratto, che lascia in deposito al lettore senz’altro più matariale di riflessione.
Tutto quello che avrebbe potuto essere Domenico Morfeo di Federico Aquè è sicuramente una lettura per affezionati di UU, coi suoi molti riferimenti alla Serie A anni ’00, le giocate e gli aneddoti; ma è, per esempio, nella descrizione dell’inspiegabile torpore di Bargnani, un lost in NBA più che in translation, che bisogna ricalibrare piacevolmente la bussola e esplorare territori meno dichiarati. Il mistero del talento sciupato è più bello quando rimane tale.
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