Pubblichiamo una recensione di Giorgio Vasta, uscita su «la Repubblica», su «Rosa candida» di Audur Ava Ólafsdóttir (Einaudi). (Foto di Ragnar Axelsson.)

Lobbi è un ragazzo. Poco più di vent’anni, i capelli rossi, la madre morta da poco, il padre elettricista che eccede in attenzioni, un gemello autistico che quando torna a casa dall’istituto vuole ballare con lui, una passione per la vita vegetale più simile a un’ossessione mite e rivelatrice («Almeno, se parlo di piante, sono me stesso»). Tutt’intorno, anche quando la narrazione si sposta altrove, l’Islanda, la sua calma feroce, i campi di lava ricoperti di muschio (in uno di questi è stato deposto il corpo della madre dopo l’incidente stradale in cui ha perso la vita), la vegetazione che riesce ostinatamente ad attecchire laddove tutto sembra sterile, come l’epilobio rosa che cresce isolato nei banchi di sabbia nera.

In Rosa candida (Einaudi, traduzione di Stefano Rosatti) – finalista al Prix Fémina e vincitore di numerosi altri premi – Auður Ava Ólafsdóttir fa del suo protagonista un correlativo mobile di quella stessa sostanza islandese da cui proviene. In viaggio fuori dall’isola da qualche parte nel Nord Europa, sempre immerso in uno stupore assorto, Lobbi porta con sé talee di rosa avvolte nelle pagine dei necrologi opportunamente bagnate. Interrompe il viaggio per un’appendicectomia, lo riprende dando un passaggio a una giovane attrice, raggiunge finalmente la sua meta – un monastero che sorge in cima a un colle roccioso – e lì, d’accordo con i monaci, comincia a prendersi cura del giardino, un luogo «citato in ogni manuale di botanica e famoso fin dal Medioevo soprattutto per il suo roseto». Il compito al quale attende – che evidentemente trascende l’ars topiaria – è quello di trasformare qualcosa che è diventato un intrico indistinto in uno spazio armonicamente razionale. Ogni giorno impegnato in questa mansione, Lobbi pensa alla morte e pensa ai corpi. Soprattutto pensa a Flóra Sól, la bambina di sette mesi concepita con Anna, studentessa di genetica, durante una notte trascorsa in una serra. Lobbi, il padre biologico, di fatto non sa niente di Anna, non sa niente di Flóra Sól. Nel momento in cui entrambe lo raggiungeranno al monastero, la sua vita cambierà.

A quel punto il romanzo si accosta a una di quelle narrazioni in cui – da In nome di Dio di John Ford (passando per il suo remake giapponese, Tokyo Godfathers di Satoshi Kon) a Tre uomini e una culla – il maschile viene messo a confronto con la paternità. Anche nel romanzo di Ólafsdóttir il protagonista si muove da una sistematica inadeguatezza a una sempre maggiore messa a fuoco del suo ruolo. Attraverso la scoperta della necessità di una spesa ponderata, di che cosa voglia dire cucinare per un’altra persona, degli impervi bagnetti nel lavandino, in generale di tutto ciò che è accudimento, Lobbi individua i punti di contatto tra il coltivare e l’allevare collaudando la sua paternità. E scopre che essere padre è una tecnica che contiene al suo interno un’etica, una competenza che riguarda la consapevolezza adulta delle cose. Un figlio, nascendo, mette al mondo i suoi genitori: increspandola, sommuovendola nei suoi recessi più oscuri, Flóra Sól fonda ed esplora la vita di suo padre.

Tramite una scrittura incardinata su un bisogno interno di ordine e di metodo, un desiderio compositivo che si manifesta nella pulizia di ogni singola scena, Auður Ava Ólafsdóttir racconta la storia di un passaggio di stato: da una paternità soltanto biologica a un’esperienza che sia invece anche e soprattutto logica e morale. Ciò che Lobbi apprende è che non c’è nulla di più difficile del meritarsi ciò che naturalmente, biologicamente, si ha (e si è) già.

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2 commenti

  1. Bella recensione di un bel libro. Un ragazzo che diventa un uomo, senza sensi di colpa. Lobby diventa un uomo imparando che la virilità è prendersi cura della propria figlia e della madre che l’ah messa al mondo. Con lo stesso puntiglio e la stessa attenzione che dedica al giardino. Un romanzo importante, sospeso , per fortuna, dalla realtà, da non confondere mai con letture sdolcinate.

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Autore

giorgio@zerounoscritture.it

Giorgio Vasta (Palermo, 1970) ha pubblicato il romanzo Il tempo materiale (minimum fax 2008, Premio Città di Viagrande 2010, Prix Ulysse du Premier Roman 2011, pubblicato in Francia, Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Spagna, Ungheria, Repubblica Ceca, Stati Uniti, Inghilterra e Grecia, selezionato al Premio Strega 2009, finalista al Premio Dessì, al Premio Berto e al Premio Dedalus), Spaesamento (Laterza 2010, finalista Premio Bergamo, pubblicato in Francia), Presente (Einaudi 2012, con Andrea Bajani, Michela Murgia, Paolo Nori). Con Emma Dante, e con la collaborazione di Licia Eminenti, ha scritto la sceneggiatura del film Via Castellana Bandiera (2013), in concorso alla 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Collabora con la Repubblica, Il Venerdì, il Sole 24 ore e il manifesto, e scrive sul blog letterario minima&moralia. Nel 2010 ha vinto il premio Lo Straniero e il premio Dal testo allo schermo del Salina Doc Festival, nel 2014 è stato Italian Affiliated Fellow in Letteratura presso l’American Academy in Rome. Il suo ultimo libro è Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (Humboldt/Quodlibet 2016).

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