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Esistono alcuni amori che è bene non rivelare a nessuno, nemmeno alla persona amata. Sono passioni che si sviluppano nei luoghi più ombrosi dell’anima, e vivono pericolosamente sbilanciate dalla parte del sogno. Privati della naturale possibilità del confronto, sono forse gli amori più romantici, destinati a perdere progressivamente ogni tipo di rapporto con la realtà. Terribilmente insicuri, possono essere al tempo stesso particolarmente spavaldi; non comprendono il valore del compromesso, e perciò si assestano spesso su posizioni estreme; non sono in grado di confrontarsi con la natura mutevole della vita, ma preferiscono indulgere in pensieri funebri; non hanno una grande dimestichezza con il tempo, e dunque si impongono la misura dell’eterno.

Sono irrequieti, nostalgici, infantili, teatrali, irragionevoli. Non si prefiggono traguardi concreti, ma perseguono obiettivi dissennatamente irrealizzabili. Idealizzano il sesso, ma in realtà lo temono più di ogni altra cosa. Giudicando il pensiero più appagante della corporeità, all’atto preferiscono la potenza, alla consumazione il desiderio. All’incertezza del futuro, antepongono le coordinate rassicuranti del passato; al rischio dell’esperienza, il conforto della rappresentazione.

Le Cento poesie d’amore a Ladyhawke di Michele Mari raccontano un amore come questo. Chiariamo subito un punto: a dispetto della natura eminentemente platonica della relazione narrata nel libro, Ladyhawke – ovvero la donna amata dal poeta – è una persona reale, nel senso che esiste davvero una donna capace di ispirare nell’autore una dedizione così totale e irragionevole. La storia è iniziata sui banchi di scuola, in un tempo remotissimo, collocato in un’infanzia edenica, inaccessibile persino nel ricordo, e anch’essa dunque di natura astratta, cerebrale: «Tu non ricordi / ma in un tempo / così lontano che non sembra stato / ci siamo dondolati su un’altalena sola».

Durante la giovinezza, tuttavia, il poeta non si è mai dichiarato. Forse, semplicemente, non ne ha avuto il coraggio; o forse, in fondo, non gli interessava. Ciò che lui desiderava non era stabilire una relazione, e dunque irrompere nella storia, ma proprio il contrario, ovvero negare la natura temporale di quell’esperienza, proiettandola in una dimensione eterna, incommensurabile rispetto alla vita terrena: «Che non finisse mai quel dondolio / fu l’unica preghiera in senso stretto / che in tutta la mia vita / io abbia levato al cielo».

L’aspetto carnale, vissuto in una prospettiva sorprendentemente cerebrale, si costituisce come il polo sbagliato dell’antitesi, va ad abitare negli spazi bianchi della scrittura e la disorganizza dall’interno, ne decostruisce ogni referente materiale, distillandola in pura potenzialità: «Ti ho amata sempre nel silenzio / contando sull’ingombro / di quell’amore / e di quel silenzio / ed anche quando poi ci siamo scritti / la profilassi guidava la mia mano / perché ogni senso / fosse soltanto negli spazi bianchi / e nondimeno mi sentivo osceno / come se la più ermetica allusione / grondasse la bava del questuante».

Il sesso viene relegato alla fantasia onanistica. Solo nell’immaginazione, infatti, il suo potenziale può mantenersi intatto senza sciuparsi, senza precipitare nel baratro impervio dell’esperienza: «Per più di trent’anni / ti ho abusata / fingendoti secondo dittava il mio capriccio». Il trucco sarebbe indugiare eternamente sul magico punto di equilibrio che divide la potenzialità dalla realtà, la permanenza dalla caducità: «Arrivati a questo punto / dicesti / o si va oltre / o non ci si vede mai più // Non capivi che il bello era proprio quel punto / era rimanere / nel limbo delle cose sospese».

E in effetti, il bello di questa storia d’amore sembra consistere proprio nella sua lateralità, nel suo essere di natura liminale. «Tertium dabatur / e sarebbe stato il nostro capolavoro», «Tertium dabatur / e sarebbe stato vivere /sfiorandoci». Non occorreva forzare il legame affettivo per farlo divenire qualcosa di più profondo e al tempo stesso più esposto al rischio del fallimento; né era necessario smettere di vedersi, rinunciando a quella felice precarietà. La formula magica della felicità consisteva esattamente in quel compromesso, nel rimanere nel limbo delle cose sospese, contro ogni logica, oltre qualsiasi tipo di ragionevolezza.

Mari esordisce nella scrittura poetica in maniera autorevole, dimostrandosi particolarmente smaliziato nelle scelte stilistiche. Rinuncia completamente a qualsiasi segno di punteggiatura, con l’esclusione del punto interrogativo, come per una sorta di allergia alla compiutezza, che non sia di tipo dubitativo. Le pause sintattiche vengono evidenziate solamente dagli a capo tra due versi o due strofe, o tramite particolari accorgimenti grafici, come le tabulazioni che spostano in avanti l’inizio di alcuni versi.

L’autore attinge con naturalezza idee e materiali da alcune delle sue passioni private, come il poker o il cinema. Certe poesie sono caratterizzate da un gusto macabro particolarmente spiccato, una sorta di compiacimento mortuario che ha come matrice il cinema horror: «Il nostro fidanzamento è morto // Adesso lo imbalsamo / poi mi iscrivo a un corso da ventriloquo / e come Norman Bates / apro un motel». L’ibridazione con l’horror è particolarmente cara a Michele Mari, che costella di riferimenti di genere la propria narrazione poetica, delineando uno spazio esposto al pericolo ma al tempo stesso redento dalla finzione, e che appare il perimetro ideale in cui ambientare la propria singolare storia d’amore: «Non aprite quella porta / non entrate nella stanza 237 dell’Overlook Hotel»; o ancora: «Come un serial killer / faccio pagare alle altre donne / la colpa / di non essere te».

Il registro varia con naturalezza dai toni aulici ad accenti più dimessi, da un’erudizione ostentata a un’autoironia di ispirazione minimalista, che regala momenti altamente godibili non solo dagli addetti ai lavori – come purtroppo accade sempre più di frequente nell’ambito della poesia italiana contemporanea –, ma anche a chi si cimenta da neofita con i versi di questa pregevole raccolta: «Ti cercherò sempre / sperando di non trovarti mai / mi hai detto all’ultimo congedo // Non ti cercherò mai / sperando sempre di trovarti / ti ho risposto // Al momento l’arguzia speculare / fu sublime / ma ogni giorno che passa / si rinsalda in me / un unico commento / ed il commento dice / due imbecilli».

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5 commenti

  1. Ecco una “recensione” che fa venire voglia di leggere il libro. Lo leggerò. Chi, se non è ipocrita anche con sé stesso, negherà che ciascuno di noi ha vissuto, vive, un’esperienza simile? E’ del poetà la virtù di raccontarla. Laura, Silvia stanno lì, a guardarci con uno sguardo che, più che interrogarci, ci denuda..

  2. Ho avuto l’onore di avere Michele Mari come professore di Letteratura italiana all’Università..affascinata lessi subito tutti i suoi romanzi, ma questo libro di poesie è il più straordinario…è uno dei più bei regali d’amore che un poeta può fare alla sua amata. Tra le righe si insinua un sentimento intimo, irragionevole e magico…

  3. Nel Cyrano, cito a memoria, Rostand fa dire al suo personaggio, rivolto a Rossana: “…è grazie a te che nella mia vita è passato il fruscio di una veste…”.
    Accade a molti e il poeta Mari, ce lo ricorda e ci consegna, lo capiamo dalla recensione, la sua bella versione.

  4. “si ama solo ciò che non si possiede completamente”-Marcel Proust
    E resta così vero sempre il turbamento che ci lascia un amore mai vissuto,fuggito,eluso per contraddire
    la legge infausta del tempo che tutto macina e conduce alla rovina.
    100 le poesia di Mari,scritte in questo piccolo meraviglioso librino da chevet,ma forse 1000,10000,100000 quelle solo pensate,omesse,nascoste e taciute da Mari.
    Spero di leggere anche quelle….

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Autore

lucaalvino@minimaetmoralia.it

Luca Alvino è nato nel 1970 a Roma, dove si è laureato in Letteratura Italiana. Nel 2025 ha pubblicato per Il Convivio la raccolta poetica Sono il poeta. Nel 2023 ha tradotto e curato per Interno Poesia un’ampia antologia delle poesie di John Keats, intitolata Mio cuore. Nel 2021 ha pubblicato, ancora per Interno Poesia, la raccolta poetica Cento sonetti indie. Nel 2018 è uscita per Castelvecchi la sua raccolta di saggi Il dettaglio e l’infinito. Roth, Yehoshua e Salter. Nel 1998 ha pubblicato con Bulzoni una monografia sull’Alcyone di Gabriele d’Annunzio, intitolata Il poema della leggerezza.

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