Dio è nei dettagli.
Il dettaglio è sapido, croccante, sfida l’idea astratta che l’immagine sia un blocco compatto e univoco: apre fessure, link, rivelazioni che sfuggono alla composizione dell’insieme. Perciò il dettaglio è idealmente contrario alla saturazione: se ce ne sono troppi rimbalziamo tra uno e l’altro come la pallina del flipper in una specie di nevrotico andirivieni che ci impedisce di fermarci e gustare il piacere di ogni singolo particolare. Questo rimpallo, tuttavia, non è soltanto frustrante: rimanda al piacere della dissipazione, al gusto di fondersi nell’immagine, con l’immagine. È il segreto di pulcinella del barocco: l’oggetto nascosto di un quadro di Bosch (o di una tavola di Jacovitti) è il nostro inconfessato desiderio di perderci e sparire. Anderson appartiene in qualche modo a questa famiglia. Le sue visioni frontali formicolanti di dettagli, le sezioni degli edifici e l’azione contemporanea su diverse porzioni dello schermo, tutte quelle combinazioni simultanee ci trasmettono il piacere bulimico del troppo pieno.
Però Anderson ha declinato tutto ciò in un modo nuovo e inedito: ha virato il barocco al vintage, ha dato alla pienezza dei dettagli il volto gradevole e pertinente della merce. Loghi, marchi, simboli commerciali, tutto risponde nelle sue immagini a una preoccupazione di design che riconduce l’onirico e lo smarrimento a una dimensione industriale e consumistica. La patina antiquaria dei suoi mille oggetti ci avvolge come un morbido manto di nostalgia che allontana in un passato innocente il nostro colpevole feticismo. Il barocco di Anderson è un barocco mercantile, dove la merce ha un volto umano, la dimensione infantile e rassicurante delle case di bambola. Ed è gradevole naufragare in questo mare astorico di modernariato immaginario, prodotti confezionati e paccottiglia permeata di un’inconsolabile bellezza d’antan.
Il lusso è un diritto.
Nell’immaginario visivo di Anderson si manifesta la fantasia di un benessere autarchico e garantito, a disposizione di tutti e a compensazione di ogni male. Un mondo dove la sicurezza materiale è materiata dell’eleganza compositiva delle scenografie, della certezza autoevidente della qualità degli oggetti, della loro immacolata perfezione estetica: quei broccati o tappeti persiani di casa Tenenbaum, gli abiti di fattura impeccabile indossati da quasi tutti i personaggi dei suoi film, il packaging raffinato delle scatole di dolcetti Mendl’s (Grand Budapest Hotel), gli interni da salone nautico del 1950 del Belafonte (la nave delle Avventure acquatiche), eccetera. Nel mondo di Anderson ognuno ha diritto al proprio microcosmo di certezze materiali. Certezze che si manifestano in una sorta di costante, calorosa, gratificazione sensoriale. Ciò dato, a ognuno è concesso di (o forse ognuno è condannato a) comportarsi in maniera bizzarra. Il comportamento stravagante è un lusso ambiguo, direttamente proporzionale al tasso di sicurezza materiale garantito dal proprio background socio-economico. Un po’ come certi nobili decadenti di Ioselliani, ma la decadenza in Anderson non è qualitativamente diversa dallo splendore. Da un punto di vista visivo il fallimento, la rovina, la povertà, “il negativo”, non esistono nei film di questo regista.
Se le biografie dei personaggi raccontano con mesta leggerezza storie di perdita o mancanze affettive (come ha rilevato Matteo Gagliardi qui o Michael Chabon qui), il trionfo estetico è ribadito in ogni occasione: il tempo scivola sugli oggetti cambiandone lo stile ma senza logorarli, l’opulenza visiva è un dato che sembra garantire stabilità a qualsiasi contesto, ambiente o circostanza. Persino l’occupazione “nazista” del Grand Budapest si trasforma in una festa per l’occhio. In questa imprescindibile e oppressiva bellezza decorativa il mood falotico dei personaggi rappresenta l’unico, o il principale, coefficiente di libertà. Nel benessere bislacco e disfunzionale si spalancano le porte dell’esotico, del rocambolesco, del sentimentale. Possiamo guardare in faccia la morte se le valige di Louis Vuitton, protette come un buffo feticcio, ci accompagnano nella scoperta dell’India profonda (Il treno per Darjeeling). L’amore romantico sboccia nell’ansa di una fantasia delicatamente puerile (Moonrise Kingdom), mentre i vestiti e gli ammennicoli testimoniano con la loro intatta compostezza la certezza eterna dell’armonia borghese, la stessa nella quale ognuno di noi vorrebbe essere cresciuto. Chi metterebbe in discussione la perfezione di un mondo così beatamente, così garbatamente sognato? Il candore di Anderson sta proprio nel realizzare senza falsi pudori una fantasia intrisa di potere d’acquisto e nel regalarla a noi tutti che volentieri desideriamo cose belle e preziose.
Piace alla gente che piace.
Una delle peculiarità delle immagini di Anderson è quella di riuscire a conferire ai suoi attori un’aura d’iconicità immediatamente percepita dallo spettatore, con un effetto simile (anche se ottenuto con strumenti diversi) da quello prodotto sui propri soggetti dalle fotografie di David LaChapelle. L’inquadratura è una beatificazione pop. Immerso in uno sfondo denso e luminoso come quello di un santo bizantino, l’attore di turno “appare” ed è come se un’ovazione accompagnasse la sua comparsa. Perciò, per quanto riguarda la performance attoriale, la dimensione ideale dei suoi film è precisamente quella del cammeo: oggetto vintage, nobile, portatore di una non dichiarata potenzialità magica. Probabilmente, se Anderson è diventato un regista alla moda, è anche grazie alla forza santificante delle sue immagini. Chi infatti, tra i divi cinematografici, non desidererebbe l’incremento d’immortalità offerto dall’occhio di questo eccentrico e adulante ritrattista?
Dietro alla sollecitudine con cui i più titolati attori dell’Olimpo hollywoodiano (e non solo) corrono a recitare, o meglio apparire, nei suoi film c’è forse il desiderio di entrare in un’esclusiva collezione di cammei. Eloquente è in questo senso la locandina dell’ultimo lungometraggio composta dalle foto anticate degli attori che vi recitano, disposte una accanto all’altra come una raccolta di figurine. I film di Anderson si sono progressivamente trasformati in una sequenza di comparsate eclatanti, una serie di autorevoli partecipazioni attraverso cui i vari Hackman, Swinton, Keitel ecc. restituiscono al regista il prestigio che ricevono dal suo sguardo, in una specie di celebrazione reciproca alla quale noi tutti contribuiamo assumendo implicitamente che se questi grandi entrano nei film di Anderson dev’essere perché Anderson è un grande. C’è un clima di sommessa grandezza, una famiglia di divi simpatica e serena, e noi pure vogliamo indirettamente approfittare del contagio benefico di questo magico consorzio. Vivere di luce riflessa.
Il mondo in scatola.
I mondi di Anderson sono chiusi, piccoli, interni: possono entrare in valigia, spalancarsi da dentro un libro come i pop-up, smontarsi e sistemarsi nei loro scompartimenti come un gioco da tavolo. Gli assemblaggi di Joseph Cornell sono stati chiamati in causa per descrivere l’opera del regista ma sono molti gli artisti visivi, anche europei, che condividono elementi simili: dalle boîtes di Duchamp ai più recenti lavori di Sophie Calle, dagli interni (ed esterni) squadrati di Ghirri ai vari fotografi contemporaei, soprattutto di scuola tedesca, cultori della miniatura e dell’inquadratura frontale. In questi, come in Anderson, il tema visivo della scatola, della cornice, del quadro si accompagna a una tendenza alla riduzione bidimensionale dell’immagine e alla trasformazione della scena in una superficie piatta e ortogonale. Bidimensionalità, contenimento e chiusura geometrica fanno corpo, nei film del regista americano, con il gusto per il funzionamento meccanico delle scenografie e delle sequenze d’azione: le parti che s’incastrano, gli ingranaggi che scorrono ben oliati, i modellini, il senso costante dell’artificio, della messa in scena ingegnosa: il film-giocattolo. È come se questa dimensione ludica e artificiosa contenesse la vita dei personaggi proteggendola da ogni trauma, da ogni violenta irruzione di un imprecisato ma temibile “fuori”. Domina, sul piano visivo, un ossessivo principio d’ordine e controllo già incarnato dalla smania organizzativa di Max Fischer in Rushmore o dall’imperturbabile ed efficientissima custodia esercitata da Gustav H sul Grand Budapest Hotel.
Se la presenza di contenitori, interni, sottosuoli si può facilmente ricondurre a un gusto infantile per gli spazi chiusi e protetti, la dimensione tecnico-artigianale degli oggetti e dei meccanismi andersoniani fa appello a un inconscio di tipo sociale. Abbiamo tutti nostalgia di una tecnologia friendly, analogica, facilmente comprensibile, che funzioni bene e semplicemente. La meccanica dei dispositivi scenici di Anderson è il corrispettivo cinematografico delle fantasie regressive e pre-industriali che alimentano la nostra coscienza infelice. Le sue immagini mostrano la ricerca di una vita moderna senza colpe, genuina, di un mondo pieno di tecnica ma caldo, domestico, naturale, senza le distorsioni che normalmente l’accompagnano. L’unico film che sembra riflettere esplicitamente sui compromessi della civiltà borghese e sul bisogno di conservare in noi almeno una parte d’istinto anarchico e incontrollato, è quello visivamente più bello e artificioso di tutti: Fantastic Mr. Fox. Il saluto a pugno chiuso che la volpe rivolge al lupo, epifania della natura libera e selvaggia che si materializza verso la fine del film, sembra tuttavia un congedo più che un appello alla resistenza (una lacrima inumidisce l’occhio di Mr. Fox).
Dopo avere combattuto contro il mondo grottesco degli allevatori umani, cattivi e distruttori della natura, la famiglia Fox si ritrova a festeggiare la sopravvivenza in un supermercato (assente nel racconto originale di Roald Dahl). Riempito il carrello di prodotti alimentari, il padre pronuncia un discorso pervaso di malinconico ottimismo: “Dicono che tutte le volpi siano allergiche al linoleum, ma al tatto risulta fresco! Dicono che la mia coda dev’essere lavata a secco due volte al mese, ma ora è totalmente rimovibile! Dicono che il nostro albero potrebbe non ricrescere mai, ma un giorno qualcosa ricrescerà! Sì, questi ciccioli sono di oca sintetica, e queste rigaglie secche vengono da colombacci artificiali e queste mele sembrano finte, ma almeno hanno le stelline!”. Quella che nasce come una favola ribelle ed ecologica finisce come parabola dell’addomesticamento (in)felice. Le stelline come premio di consolazione per la fine dell’illusione libertaria.
Carlo Mazza Galanti è nato a Genova nel 1977. Ha lavorato in Francia come ricercatore universitario prima di tornare in Italia, a Roma, dove vive e lavora. Scrive su diversi giornali e riviste, in particolare Alias, il manifesto, D di Repubblica, lo Straniero, Nuovi Argomenti, Orwell. Traduce romanzi dal francese.

A noi piace talmente tanto che gli abbiamo dedicato un gruppo: https://www.facebook.com/pages/Io-odio-Wes-Anderson/593931837359557?ref=ts&fref=ts
M’iscriverò a Facebook apposta per far parte del vostro gruppo! Adooro Wes Anderson. Ehi ma parlate pure di Song’e Napule dei mitici Manetti Brothers. A me è piaciuto un sacco!
dal mio profilo fb
detesto Wes Anderson. il suo cinema a fumetti è tanto gradevole alla vista, quanto misero (e patetico) sotto il profilo dell’intento comunicativo. l’umorismo surreale di Anderson è elementare e anestetico. il suo modo di rappresentare stati d’animo quali lo smarrimento e il senso d’inadeguatezza è insopportabilmente lezioso e autoreferenziale. scenografie ricchissime di dettagli al servizio di personaggi forzatamente anti-convenzionali, che rischiano di neutralizzare, invece che sottolineare, il tema dell’odierna precarietà dei rapporti familiari.
cinema anaffettivo, per nerd rimbecilliti col culto del miniaturismo.
caro daniele, preso atto del tuo detestare Anderson, il tuo intevento mi pare indichi un tuo qualche problema (familiare, forse?) letta la tua furia iconoclasta: certi argomenti possono essere raccontati anche con leggerezza.
E mi pare il minimo consentilo, aldilà dei giudizi di merito.
Mi piace il concetto di film pop-up. Ottima recensione.
Ah, quindi esiste un Anderson che non sia P.T.?
Sischerza, forse.
Il Cinema è l’ultima e l’unica arte con potere eversivo che ci resta; Wes Anderson sta annientando questo potere.
Noi diciamo basta
a questo mondo rosa confetto
a questa vuota estetica Vintage
alle stronzate adolescenziali elevate a poetica dell’uomo contemporaneo
a film che sono grossi spot pubblicitari senza il nome del marchio
al feticismo della merce e all’idiosincrasia privata
al manierismo zuccheroso e smarmellato che riduce la malinconia ad “un fenomeno glamour universale”
Noi diciamo basta a Wes Anderson prima che al cinema venga il diabete!
https://www.facebook.com/pages/Io-odio-Wes-Anderson/593931837359557
Daniele…troppo sopra le righe. Un accanimento decisamente sospetto: Proiezioni?
Commento eccellente!