(Le fotografie di Luca Serianni e Patrizia Cavalli sono di Dino Ignani)

di Emiliano Ceresi

Il titolo di questa lunga intervista è estratto da un componimento di Biancamaria Frabotta, accolto da Luca Serianni nel suo Il verso giusto. 100 poesie italiane (Editori Laterza, 2020). A chi scrive è parso che questa espressione riassuma alcuni dei pregi dell’antologia: il nitore critico, la limpidezza argomentativa e la precisione del dettato – insieme a un certo gusto nel sorprendere l’orizzonte d’attesa del lettore per la proposta delle voci.

La selezione copre nove secoli di poesia italiana e si fa fatica a pensare di allestire un’antologia tanto varia senza avere l’aiuto delle biblioteche a pieno regime. Di contro, immagino abbia avuto più tempo del solito.

In effetti si tratta di un vecchio progetto che probabilmente non avrei completato in un altro momento e a cui ho avuto modo di dedicarmi  solo ora, avendo avuto molto più tempo a disposizione da occupare con la lettura. Per molti testi, precisamente per quelli dalle origini al primo Novecento, avevo buona parte degli strumenti a casa e non ho avuto grandi difficoltà. Qualche complicazione in più me l’ha procurata il secondo Novecento, che è la parte che conosco meno e che avrei voluto approfondire in biblioteca, così ho deciso di affidarmi in parte alle mie conoscenze preesistenti, in parte al mio gusto. Nell’introduzione metto decisamente le mani avanti: sono come un San Sebastiano disposto ad accogliere tutte le frecciate che mi verranno indirizzate. È chiaro che la mancanza di un canone induce a una serie di scelte che definirei idiosincratiche.

Anche Pier Vincenzo Mengaldo nella sua antologia preferisce la definizione di catalogo a quella di canone, forse anche per mettersi al riparo da eventuali critiche. Nell’introduzione c’è una citazione di Papa Francesco: «quando la poesia manca l’anima zoppica»: occuparsi di poesia in questo momento storico ha avuto una ricaduta simbolica?          

Sì, direi di sì. Anzi, mi sembra una domanda molto interessante. Mi sarebbe stato difficile occuparmi ora di un tema di studio senza la parte di naturale coinvolgimento personale, poi la massima parte dei testi erano versi che mi interessavano o che ho riscoperto per l’occasione quindi la risposta è senz’altro convintamente sì: ed è stato certamente d’aiuto.

La sua tesi di laurea era uno spoglio linguistico di testi antico-toscani, un lavoro distante da sollecitazioni letterarie. Quando è iniziato il suo interesse per la poesia, anche in chiave scientifica?

L’interesse primitivo nasce al liceo dove l’italiano è soprattutto inteso come letteratura. Questa, del resto, era la materia che mi interessava di più e in cui riuscivo meglio. La curiosità è stata però rinnovata in maniera molto più consapevole da adulto, quando ho iniziato a organizzare corsi universitari. Come già sai, i miei corsi avevano sempre una parte di grammatica storica fissa come parte tipica, ma anche una seconda fase costituita da una sezione monografica di approfondimento. Questa seconda parte l’ho impartita a volte su temi non letterari, come il linguaggio della medicina o della Chiesa, ma la maggior parte delle volte su temi letterari trascegliendo – per esempio – il romanzo del Seicento, Foscolo, il teatro, Pascoli o il passaggio dall’Ottocento al Novecento per segnalare il momenti in cui va in crisi la poesia tradizionale. Ho selezionato sempre temi che conoscevo ma non del tutto, approfittando dell’occasione per approfondirli come si fa sempre quando si insegna: la docenza deve essere ricerca e apprendimento. Alcune di  queste osservazioni svolte durante il corso poi le ho proposte in questa antologia senza averne mai scritto altrove. Per fare un esempio: nella Pioggia nel pineto d’Annunzio parla de «la figlia dell’aria» per indicare la cicala, uno stilema già presente nell’Ossian del Cesarotti. Cesarotti, che aveva a sua volta un modello nell’inglese di Macpherson, scrive spesso: «figlie dell’arco» per cacciatrici o «figlio del freno» in luogo di cavallo, un tratto caratteristico legato a un essere umano o animale che lo rendeva dunque “figlio di” – ecco,  chissà se d’Annunzio, che era uomo di sterminate letture, non  avesse in mente questo modello. Al di là delle fonti, mi è sembrato interessante far riflettere il lettore su questi aspetti.

Questo aspetto della lezione come laboratorio di ricerca è del resto una caratteristica di tutti i suoi corsi. Ricordo di aver letto in una prefazione1 a uno studio sul romanzo del Seicento che con il contributo di due studenti riuscì a venire a capo di un’ardita metafora barocca. Sempre Mengaldo scriveva di dovere molto alla «benedetta BUR»2. C’è una collana che l’ha guidata? e, soprattutto, leggeva anche poesie di contemporanei?

A differenza del mio amico e illustre collega Mengaldo, non ho un’esperienza di lettura rituale di poeti contemporanei. Come dicono molti insegnanti a scuola: «mi fermo prima nel programma». Il poeta del secondo Novecento che conoscevo maggiormente e inevitabilmente amavo di più era Giorgio Caproni. Poi una poetessa che avevo apprezzato da subito, anche se generalmente deprezzata dalla critica, è la Elsa Morante de Il mondo salvato dei ragazzini.  Nel paragrafo del libro a lei dedicato cito una testimonianza della stessa autrice – pur con la prudenza che si deve alle autodichiarazioni d’intenti degli scrittori – che definiva quella raccolta il suo “miglior libro”. Ecco, vi ho trovato molti elementi – nella percezione dell’infanzia come età della debolezza – che ricorrono nella sua prosa, in particolare ne La Storia, un romanzo che ebbe grandissimo successo di pubblico, ma di nuovo molta diffidenza da parte della critica che lo bollò in quanto nazionalpopolare. Io non credo sia un difetto per una scrittrice arrivare a un largo numero di lettori. Sul piano del tessuto poetico, poi, mi è sembrata una prova interessante per come la vicenda amorosa viene stravolta. Morante si rivolge a Bill Morrow, pittore con cui ebbe una relazione, e ne parla come di un figlio: è una rivisitazione del tutto personale del loro rapporto. In conclusione, però, non sento di definirmi un abituale lettore di poesia contemporanea.

Elsa Morante

La sua selezione sembra guidata dal desiderio di sorprendere l’orizzonte d’attesa del lettore. Penso ad Alfieri, il tragico per eccellenza, di cui è fornito un vivace componimento ironico.

Verissimo. Non avrei comunque inserito il teatro per come è intesa la poesia all’interno del libro. Questo non senza dispiacere: alcune delle tragedie le trovo molto belle, penso alla Mirra, ma includerle avrebbe contraddetto il criterio e la linea dell’antologia. Restava l’Alfieri lirico e appassionato d’amore, ma secondo me non è il suo repertorio migliore. Alfieri ha dato il meglio di sé senz’altro nelle tragedie, ma anche ne La vita, che mi è tornato il desiderio di leggere in questi mesi, senza che fosse utile ai fini del mio libro. Non ho inserito i Sonetti d’amore perché il filone del sentimento non corrisposto l’ho voluto un po’ deprimere, sinceramente: mi sono limitato allo stretto necessario. Mettendomi nei panni di un lettore adulto, che ha ricordi di questi testi legati al liceo, ho pensato che ne derivasse una lettura riduttiva della poesia. Gli amori non sono tutti infelici, alcuni si realizzano con successo, altri vivono l’intensità della corrispondenza e, soprattutto, l’amore è solo uno dei temi della lirica e non ne esaurisce la totalità della gamma espressiva. A tal proposito, in calce alla poesia di Vincenzo Monti (N.d.R. Pel giorno onomastico della mia donna Teresa Pilker), un’ode che il letterato compone da anziano (per i tempi di allora) quasi come un testamento spirituale, menziono un famoso giudizio di Giacomo Leopardi che lo definisce «poeta veramente dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo»: nel  suo caso, la cosa può essere anche abbastanza vera; tuttavia, non è che non possa esistere grande poesia anche al di fuori del cuore. Pensiamo all’Ariosto del Furioso che certamente non infonde sé stesso nel poema, a differenza di quello che fa Tasso con omologia nel genere, e nonostante ciò è indubbio il suo statuto di poeta: esistono altri aspetti che possono essere proposti e valorizzati al lettore d’oggi. Quindi, per tornare alla tua osservazione è senz’altro vero che ho badato a sorprendere l’orizzonte d’attesa; dall’altro lato, una serie di poesie che il lettore si aspetta da un testo simile è presente: il 5 maggio, per esempio, non poteva non esserci, o alcuni dei più noti componimenti di Leopardi, il più grande lirico moderno della letteratura italiana e forse non solo moderno: nel paratesto introduco un dubbio sul primato del Petrarca anche se è sempre arduo esprimere giudizi comparativi.

 

Rimanendo sulle proposte di temi inusuali, il periodo che ne esce in maniera più sorprendente è forse il Medioevo, per il quale seleziona due testi abitualmente meno citati e che forse possono aiutare i lettori meno avvezzi a superare lo stereotipo che viene perpetuato di questo periodo. Li definisce i più divertenti dell’antologia, tra l’altro.

Rientrava nelle intenzioni. Il detto del gatto lupesco è un testo divertente anche se il gioco si evidenzia nello scarto tra noi e il tempo in cui viene prodotto. Lo è indubbiamente la rappresentazione giullaresca di questo personaggio travestito per metà da gatto e metà da lupo che incontra dei viandanti che gli chiedono legittimamente chi sia e lui risponde infastidito (ma forse siamo noi moderni ad attribuirglielo) «Quello k’io sono, ben mi si pare», cioè a dire: ‘che domande, sono il gatto lupesco’. Questo brano mi interessava anche per testimoniare quanto la tradizione giullaresca abbia pesato nel mondo medievale sia italiano che romanzo. Quanto al Contrasto, confermo: si tratta obiettivamente di un testo divertente oltre che di un amore che non ha nulla dell’idealizzazione spirituale di tanta poesia di questa fase. Il testo termina in modo buffo perché dopo le repulse della donna corteggiata da questo rozzo personaggio si conclude dicendo: «A lo letto ne gimo a la bon’ora». Anche durante il dialogo così vivace tra i due poi c’è da sorridere.

Un altro dei criteri che mi sembra animi l’antologia è quello di indirizzare l’attenzione su poeti e poetesse meno note, come Zena e De Angelis.

È vero. Partiamo dalla seconda. Francesca Romana De Angelis è in assoluto la meno nota, ha scritto una serie di testi in prosa, molto spesso partendo da dati storici rielaborati, talvolta da interviste. Questo è il suo unico libro di poesie: ho scelto Terza liceo perché mi piaceva il tema della nostalgia scolastica, ma anche perché conosco l’autrice: con alcuni contemporanei c’è la fortuna di avere un rapporto diretto.  Quanto a Zena, è forse più noto ma poco studiato: si tratta di una poesia tratta dalla raccolta La barca, interessante nelle soluzioni espressive. In primo luogo perché si compiace nell’utilizzo di termini esotici accumulandoli, secondo un percorso che avvierà negli stessi anni in maniera maggiormente brillante il tanto più grande Pascoli. Tuttavia, se si guarda a La barca con occhio moderno, si può scorgere la mole di novità, per esempio: nell’abbinamento tra sostantivo e aggettivo nel sintagma «azzurranza scettica». “Azzurranza” è già di per sé una parola marcata rispetto ad azzurro, e scettico è notoriamente attributo che si riferisce a persona e difficilmente al mare: qui l’idea è che il funerale in questa afosa notte africana si svolga, come è tipico, nella totale indifferenza della natura. L’elemento che ci fa però sentire questa poesia molto moderna è il fatto che manchi un messaggio predefinito. Da lettori ingenui potremmo chiederci che cosa abbia voluto dirci il poeta, ecco: non ha voluto dirci nulla di specifico, non c’è un messaggio. Al contrario Zanella, l’autore che si trova immediatamente prima, almeno secondo l’interpretazione che ne fornisco, vuol dire qualcosa di più oltre a celebrare la vite rispetto all’alloro. Zanella vuole affermare che la gloria poetica non è qualitativamente superiore alla carità: un contenuto senza dubbio forte. In Zena questo manca del tutto, una delle caratteristiche della poesia di pieno Novecento è che non c’è un messaggio immediatamente definibile, bensì una serie di stimoli che il lettore può raccogliere e far fruttificare in varie direzioni e questo spiega anche perché sia così difficile commentare una poesia contemporanea, e come  questo sia non solo ostico ma probabilmente anche arbitrario. La possiamo glossare  fornendo dati storici e occasioni spinte, ma è difficile procedere oltre. Montale diceva che l’ultimo poeta che si prestava a essere commentato era D’Annunzio, ma in realtà si è prestato molto bene anche lui stesso, come testimonia l’edizione Contini-Bettarini3. Tuttavia, per alcuni poeti più recenti, il commento rischia di essere una sovrapposizione indebita. Mentre nel caso di Dante, per fare un esempio limite, senza neanche una nota persino il lettore abituale potrebbe avere difficoltà forse non tanto di carattere linguistico, quanto enciclopedico in riferimenti  che non pertengono più al nostro orizzonte.

A proposito di lettori non letterati, nell’introduzione menziona due poeti, Sergio Doraldi e Franco Tutino, rispettivamente un economista e uno scienziato, proprio a documentare la vitalità della poesia.

Certo. Mi sembrava molto interessante sottolinearlo, perché in passato era esattamente così. Sono due quelli che ho voluto antologizzare: Francesco Redi, scienziato notevole anche per l’entità delle scoperte compiute, per esempio il concetto che ogni essere vivente si sviluppa da un altro elemento vivente e non per alterazione della materia, e il meno noto Eustachio Manfredi, scienziato, fisico nonché fondatore della Colonia Renia dell’Arcadia. Di Redi ho scelto un giocoso ditirambo in cui rappresenta con estrema vivacità l’ubriachezza di Bacco che non riesce a completare le frasi ed è animato dalla caratteristica sensazione degli ebbri che tutto giri intorno a sé. Il Manfredi in quanto arcade che compone una poesia d’amore sfruttando un meccanismo innovativo anche rispetto ai suoi dichiarati modelli, fra cui il Petrarca. Sceglie infatti il tema dell’amore che si risveglia dopo l’incontro fortuito con una donna amata anni prima. La fiamma amorosa un tempo sopita si riattizza al punto che non riesce più a dormire e ‘tormenta le sponde del letto’, un dettaglio che mi è parso avere una certa efficacia espressiva. Io credo che se la poesia si riducesse ai soli letterati di professione perderebbe una parte consistente del suo significato e della sua ricchezza: per definizione le arti si rivolgono a tutti e non solo agli addetti al mestiere. In passato ho guardato anche con simpatia, ma non con apprezzamento estetico, i cosiddetti “poeti della domenica” cioè i poeti amatoriali che pubblicano a loro spese libretti che non sono destinati a circolare di là della loro stretta cerchia e che dimostrano un’attenzione alla parola poetica che suscita la mia curiosità, seppure civica e non da studioso.

Visto che ha  citato l’Arcadia, introdurrei un altro criterio che l’ha guidata (su questo non credo ci siano dubbi) mi riferisco alla rappresentazione delle poetesse come Faustina Maratti Zappi.

Giusto. La poesia scritta da donne per ragioni storico-culturali non esiste prima del ʼ500, quindi non sono potuto retrocedere oltre. Di questo periodo ne ho scelte due: la prima, celebre, Gaspara Stampa e l’altra, Isabella Morra, che trovo interessante per due motivi. In primis perché documenta la presenza della poesia anche in una regione appartata (visse in un castello della Basilicata, l’attuale Valsinni); e poi per ragioni scientifiche: nel lamento per  la mancanza del padre, che è il tema ella poesia, l’autrice  vagheggia il desiderio di morire annegando nel rivo a fondovalle ricorrendo, in questo, a immagini peculiari che anticipano in parte la metaforicità barocca.

L’Arcadia rappresenta il momento in cui le donne entrano in misura più significativa nei cenacoli letterari. In proposito, di  Faustina Maratti Zappi ho scelto due poesie perché mi avevano colpito per il tema trattato, la gelosia. Qui mi sembrava interessante rimarcare una differenza di genere: gli uomini quando scrivono poesie d’amore solitamente scrivono di donne come oggetti inarrivabili, difficilmente di altri uomini. Alla gelosia non ci arrivano perché rappresentano quasi sempre donne irraggiungibili e sdegnose tralasciando ipotetici rivali da cui si sentirebbero sminuiti. Nelle poetesse, invece, questa componente umana c’è ed è interessante comprendere il risvolto sociale dietro queste rappresentazioni diversificate.

Parimenti interessante è il tema del sentimento materno che Maratti Zappi scioglie in un pianto per un infante morto in tenera età. Questo è un elemento affettivo notevole e naturalmente presente anche nei poeti maschi ma molto meno, e con chiavi interpretative distanti: ne è un esempio il Carducci de Il pianto antico, lirica che ho scelto di non inserire mettendo in sua vece una poesia parallela. Siccome il limite delle cento poesie non poteva essere valicato, ho risparmiato anche Pier Iacopo Martello, un autore settecentesco che immagina un ideale dialogo con il figlioletto morto prematuramente. Il secolo in cui le donne diventano largamente presenti anche nei romanzi è il Novecento, più decisamente il Duemila dove apportano molte novità tematiche con l’introduzione della loro voce. Si tratta di un frangente che si contraddistingue per il superamento degli argini della poesia tradizionale, che erano rimasti in vigore fino all’800 dove c’erano rigide paratie a dividere le poesie liriche da quelle giocose, generi e temi e così via. Nel ʼ900 le acque si confondono d’altronde anche per i poeti, con una dilatazione degli spunti molto maggiore: resta come elemento caratterizzante la concentrazione e l’investimento su parole chiave dal forte potere suggestivo.

Gaspara Stampa

 

Per tornare di nuovo alle linee che ispirano la sua antologia, si può osservare tangibilmente il portato innovativo del ʼ900, ma scorrendo anche i primi secoli si scopre che la poesia italiana in epoche precedenti ha cantato i “calcoli renali” e «i villi», due temi che possono risultare nuovi al lettore.

Sì, i calcoli renali sono l’oggetto di un componimento barocco e non potrebbe essere diversamente visto che si tratta di un momento in cui si dilatano in maniera manifesta la materie poetabili. E poi a parte il gioco che Ciro di Pers fa tra calcoli renali e sassi e calcoli aritmetici, il tema è drammatico, connotato da una sofferenza fisica difficilmente sopportabile, che nella conclusione fa pensare all’ineluttabilità e al desiderio di morte come termine delle pene. Una poesia che, di là da questo gioco verbale, è ad alto contenuto drammatico. Questo non vale per Scroffa, autore di questo curioso canzoniere: I cantici di Fidenzio, che deve il suo titolo a un umanista. Scroffa rivolge la sua poesia a un giovinetto di nome Camillo, con ogni probabilità realmente esistito e lo fa, intanto, con una fortissima inventiva di creazioni latineggianti. In un componimento si definisce trasparentemente «camillifico», ossia amante di Camillo. In altre allude alle bellezze di questo giovinetto applicando gli stessi criteri che i poeti di amore eterosessuale avevano precedentemente applicato alla donna amata. Per «i villi» da lui cantati possono esserci due interpretazioni: quella di Pietro Trifone che li intende come “peli”, esegesi che non si può escludere ed è tra l’altro quella più conforme all’uso del termine in latino. Tuttavia, possiamo avere due dubbi: Scroffa si mantiene su una generica allusività senza spingere il tono su sceneggiature troppo erotiche e la seconda, invece, è che tanti peli, Camillo, che era nella prima adolescenza, non poteva averli dunque non c’era, come dire, una folta materia cantabile. Nella mia lettura propongo l’ipotesi che villi sia un sinonimo di capelli visto che i giovinetti del tempo, anche maschi, portavano i capelli lunghi e quindi queste acconciature si potevano prestare a tutti quegli elogi alla morbidezza che sciorina Scroffa. Tra l’altro in un verso sono paragonati al morbido pelame dei felini: questa similitudine si conviene più a una capigliatura setosa che a peli di altre zone del corpo, secondo me. Il dubbio mi sembra permanga comunque, insidioso e intrigante.

A proposito di Ciro di Pers come esponente del barocco; nel libro non nasconde il suo scetticismo verso queste etichette che spesseggiano nella manualistica. Tuttavia fa un uso molto profondo  in sede di commento di riferimenti che, come si è soliti dire in accademia, “non si devono citare”.

Sì, io li ho trovati fatti molto bene e alcuni mi hanno addirittura colpito al punto che quando preparavo corsi universitari su singoli poeti andavo frequentemente a controllare come erano proposti alcuni brani, perché vi trovavo spesso spunti interessanti. Talvolta li ho sfruttati anche per i possibili collegamenti con le letterature straniere. Per esempio Claudio Giunta4 nel suo capitolo su d’Annunzio parla della grande ammirazione che i francesi coevi rivolgono allo scrittore affermando che la letteratura francese grazie a lui è tornata in auge. Al di là di questo, mi interessava sottolineare che i libri scolastici sono scritti molto bene: si può avanzare anzi un rimprovero inverso, ossia di essere fatti forse troppo bene per il pubblico a cui si rivolgono. Dobbiamo tuttavia ricordare che i manuali di letteratura sono rivolti ai docenti, che sono anche quelli che devono adottarli, da cui l’interesse editoriale dietro questa operazione. Bisogna senz’altro scommettere sugli insegnanti, che sono i mediatori di questa operazione: sta a loro prendere spunti dalla presentazione dell’antologia e poi esporre il testo in una chiave accessibile. Quelli che cito nell’antologia sono testi meritori e l’elemento paradossale che ricordo nella prefazione è che dopo un torno scolastico escono dal giro e diventa complicato persino reperirli o consultarli in biblioteca. Quello curato da Claudio Giunta, tra i tanti, è un manuale molto ben architettato. La parte novecentesca dà per esempio ampio spazio a La donna della domenica, che è stato un giallo italiano di Fruttero e Lucentini che ebbe molto successo a tempo e da cui è stata tratto anche una trasposizione cinematografica. Nel restituire la complessità di un quadro come quello novecentesco che non si può arrestare alla produzione scritta, Giunta è molto efficace in questo: confermo questa dichiarazione di stile.

A proposito di materiali sottovalutati, mi ha divertito molto scoprire come “marrano” col significato di “lestofante” sia forse dovuto a una lettura di Topolino da parte di Montale.

Perché era uno degli insulti e degli epiteti tipici che si scambiavano i personaggi di Topolino (ride). Approfitto per ricordare che la lingua di questo fumetto, quando la leggevo da bambino a fine anni ʼ50 era una lingua estremamente ricercata, forse perché c’era negli sceneggiatori italiani l’idea che si dovessero rivolgere a un pubblico giovane e dunque erano attenti non solo alla parolaccia, ma anche alla parola togata. Un altro sintagma che ricordo era, per esempio, “vecchio barbogio”: davvero ultraletterario. Su Montale c’è da dire che apprezzava questo genere di contaminazioni, che ammette soprattutto in Satura e dunque non mi sembrava da escludere anche questo possibile ammiccamento. Montale si divertiva a spiazzare l’interlocutore: ad esempio, ne La casa dei doganieri non è chiaro se il poeta si rivolga a una donna morta o a una presenza che vive nei ricordi. Interrogato sul tema, Montale risponde che è scomparsa anche se è facile credere che non fosse così. In conclusione: se gli si fosse fatto notare Topolino come possibile intertesto probabilmente avrebbe negato, ma questo non lo esclude.

Prima abbiamo parlato della fortuna di d’Annunzio all’estero.  Un altro aspetto che torna nell’antologia è la ricezione nel tempo con i conseguenti riposizionamenti nel canone. A proposito di d’Annunzio dice che oggi per noi «è più vivo come poeta»; riguardo al suo amato Carducci che «la sua fama è andata appannandosi»; su Quasimodo che oggi per noi «conta più come traduttore». Mi chiedevo se non sia un tentativo di rinnovare l’attenzione su questi aspetti.

Senz’altro vero, anche se il fatto che io abbia una dichiarata simpatia per Carducci, però, non mi fa velo nel senso che riconosco che non è della stessa stazza di Pascoli o di d’Annunzio. L’ho rappresentato con un numero di poesie relativamente alto: tre. Ricordo che Mengaldo si era chiesto prima di me chi dovesse inserire tra Carducci e Di Giacomo e alla fine aveva optato per il secondo. Di Carducci ho scelto testi con diversi temi e gradi di notorietà: penso a una poesia come San Petronio in cui c’è la fotografia di una Bologna nivale. Un’altra meno nota, ma a me molto cara è Ave, una piccola ode barbara in cui Carducci allude, per sua esplicita dichiarazione, alla morte del figlio della sua amante Carolina Cristofori che viene appellata nella poesia con l’epiteto oraziano di Lidia. È un bambino che probabilmente Carducci non aveva neanche conosciuto, però mi sono chiesto se in lui non rivivesse il dramma della scomparsa del piccolo Dante, cui aveva dedicato Pianto antico e dunque se il suo sentimento di padre non fosse stato rinnovato da questa vicenda. Detto questo: è una poesia di grande raffinatezza classica; Carducci ha una spiccata capacità di riprendere il senso, il ritmo – niente di più di questo poteva vista la differenza tra latino e italiano – dei metri classici: quindi ci tenevo a inserirla. Tre era il massimo consentito per lui, però (ride).

     

Un altro aspetto è quello della scelta peregrina all’interno di autori già non particolarmente noti. Ne è un esempio Toti Scialoja di cui lei ha privilegiato un testo della produzione drammatica rispetto alla dorsale nonsensica, quella forse leggermente più familiare ai lettori.

Lo spunto qui è nato da un saggio che avevo scritto qualche anno fa. In questo io avevo studiato soprattutto lo Scialoja nonsensico, quello di: «gli ho offerto un torso/ mi ha dato un morso./ un orso è un orso, /non c’è soccorso/non ha rimorso»5, per intenderci. Per rappresentare in un’antologia questo versante avrei dovuto mettere più d’una di queste poesie perché una sola non basta a darne un’idea complessiva e così ho voluto spiazzare con una scelta che appartiene a un filone drammatico, come dici, rappresentato a mio avviso con una certa efficacia. Qui l’autore prende comunque spunto da una frase fatta, quella relativa alla minestra, che torna spesso come base idiomatica per i suoi giochi linguistici. Da questa matrice Scialoja va oltre e racconta la depressione generata dalla fine di una relazione. Questa scelta rientra dunque nell’idea di non riprodurre, anche qui, una linea che avevo già approfondito; dall’altro, mi piaceva toccare aspetti diversi degli autori. Anche questo con delle eccezioni: certamente I Sepolcri per Foscolo non potevano non esserci.

 

 

Toti Scialoja

 

 

Un aspetto che mi ha colpito è il registro che talvolta adotta nel corso del libro. Matteo Motolese nel suo Scritti a mano6 definisce il passaggio dalla scrittura scientifica a quella divulgativa come simile a quello dalla musica classica al jazz. Lei usa qui una serie di formule che non ci aspetteremmo in un suo saggio dal taglio accademico e così: Pascoli nel Gelsomino si comporta da voyeur; il d’Annunzio di Primo Vere è un giovane «scaltrito con le strategie di marketing»; mentre il XXXIV del Furioso mette in scena una sequenza da «film splatter».

(ride) Allora, la terza citazione è un’idea mia perché mi sembrava proprio che quell’episodio con teste mozzate che cadono e gli sventramenti anticipasse il genere. Sulle altre due ho ripreso formule critiche che mi parevano funzionare. Il Pascoli del Gelsomino che si acquatta e spia l’intimità dei coniugi fa pensare allo sguardo del voyeur, l’immagine mi sembrava rendesse efficacemente l’idea. Così come la seconda, con d’Annunzio che da giovanissimo sfrutta la sua capacità di far parlare di sé con strategismi che non stento a definire di marketing. L’azione si rivelò molto efficace: prima si annunciò la morte e poi la notizia falsa con la pubblicazione della raccolta, così da generare interesse attorno al suo esordio. Cadde in questo trucco persino il Chiarini, uno dei più noti critici dell’epoca che di questo rimase molto male. Tutta la vita di d’Annunzio era del resto mirata a far parlare di sé: lui era tra l’altro vincolato alla necessità di guadagnare molto visto che conduceva una vita lussuosa e all’insegna dei debiti. Mi sembrava più stimolante presentare gli autori in una veste meno tradizionalmente storico-letteraria, ma non sono stato il primo.

Nel suo citato studio su Scialoja definisce le antologie «un tipico indicatore della fortuna di uno scrittore»7 e in questa c’è una ricca selezione di autori secenteschi poco studiati, quelli che Maria Corti avrebbe definito «fantasmi» (8). C’è anche l’idea di dare voce a poeti abitualmente trascurati, come aveva fatto precedentemente con i postunitari?

Certo. Per i barocchi c’è da dire che, escluso Marino, è giusto che a scuola non vengano approfonditi; penso ad autori come Bartolomeo Dotti, non c’è spazio sufficiente. Semmai restano più vivide alcune immagini, che qui non ho messo per non eccedere come “la bella pidocchiosa” o “la bella balbuziente”. Nel caso del ʼ600 era quasi inevitabile allargando il quadro a Marino, scegliere questi nomi. O lo stesso Chiabrera, di cui Giovanni Getto aveva già notato i molti elementi in comune con il barocco, come il culto per la meraviglia. Ecco, anche lui non è nome noto: volendo rappresentare certe correnti non si può non finire su qualche fantasma. Lo stesso non accade per il Trecento che è occupato quasi per intero da Dante e Petrarca, come è giusto che sia e mi sembrava funzionale mantenere un certo equilibrio tra i diversi periodi. Alle due corone spetta – a ragione – tutta la posta in gioco di quel secolo.

Secondo lei ci sono dei percorsi interni nell’antologia? Molti testi dialogano tra loro: penso alla pioggia di Marino Moretti così diversa da quella che bagna il pineto di d’Annunzio o al fiume di Isabella Morra, che invece ricorda i fiumi ungarettiani. Si è posto l’obiettivo di cercare rispondenze?

Sì, e vero. Forse non me lo sono posto preliminarmente, ma una volta scelte le poesie ho voluto sottolineare questi rapporti. Il fiume del resto ricorre nella poesia italiana già dalla nota canzone CXXVI di Petrarca, almeno, dove i fiumi sono rappresentati in primo piano per connotare un territorio bagnato: è sicuramente un collegamento che miravo a fare in sede di commento.

In un’antologia approntata da linguista qualcuno potrebbe rimproverarle l’assenza del capriccio dialettale o del plurilinguismo, anche questa è stata una decisione presa ab origine?

Sì, in effetti in quella del collega Mengaldo il dialetto è ben rappresentato. Questa mia impostazione non nasce certo dalla sottovalutazione della poesia dialettale, non solo perché ho studiato a fondo poeti come Giuseppe Gioacchino Belli, seppure in anni lontani, ma anche perché riconosco che alcune delle voci più interessanti del ʼ900 siano dialettali: Baldini, Guerra, alcune cose di Zanzotto. A colpirmi è anche la vitalità letteraria del dialetto di Sant’Arcangelo in Romagna, un centro relativamente piccolo. C’erano tuttavia due contraddizioni: una rappresentanza adeguata della poesia dialettale non avrebbe potuto comprendere meno di 15 poesie e questo avrebbe alterato un po’ la misura dell’insieme. L’altra è dovuta all’apparato di note, se non di vera e propria traduzione richiesto per i poeti romagnoli che avrebbe un po’ appesantito la presentazione delle singole poesie che ci tenevo fosse sempre leggera, con un cappello non particolarmente ampio e una notazione ridotta all’essenziale. C’era quindi più di un motivo per escludere la poesia dialettale che avrebbe richiesto una ricalibratura a sé. La mia infine non voleva essere antologia della poesia scritta in Italia, laddove quella in dialetto avrebbe potuto certamente figurare, bensì di quella scritta in italiano.

La stessa ragione per cui ha inserito Giovanni Orelli, un poeta d’Oltralpe…     

Esatto, seppure con una voce sola ci tenevo a rappresentare la Svizzera italiana. Forse una scelta meno ovvia rispetto al suo più noto cugino Giorgio Orelli o ad autori ticinesi come Fabio Pusterla, che godono di maggiore notorietà. Però si tratta di una raccolta che avevo apprezzato, inviatami dall’autore e sfruttata per un lavoretto che ho fatto qualche tempo fa per una miscellanea dedicata a un collega. Inoltre, mi serviva un testo che dimostrasse come l’apparente quotidianità e il livello basso del tono, testimoniato anche dall’uso di un dialettalismo come «tolla» per lattina, non escludesse  un’ascendenza dotta, come è qui il caso con la filigrana di una poesia latina di Pascoli. Sarei abbastanza sicuro di questa matrice anche perché la poesia in questione si trova anche in antologie pascoliane che un tempo, magari proprio quando Orelli insegnava italiano in un liceo di Lugano, il poeta poteva agilmente consultare.

Visto che ha parlato di ascendenze dotte, un altro elemento di coesione del testo è costituito da Dante. Per riprendere il titolo di una recente pubblicazione di Marco Grimaldi9, qual è l’aspetto che rende Dante un «nostro contemporaneo»?

La mia risposta sarà forse banale: Dante nella Commedia rappresenta una serie di situazioni e di tipi umani che ci colpiscono ancora oggi per la loro universalità. Questo nonostante il poeta sia radicato come pochi nella realtà fiorentina del tempo e sia un uomo di parte animato dai suoi odi personali. Pensiamo a Filippo Argenti o a Bocca degli Abati che Dante afferra per i capelli con violenza nel XXXII dell’Inferno, mosso dal sospetto che possa essere il traditore di Montaperti. Un altro aspetto che mi sorprende ancora del Sommo è la sua capacità di rappresentare le situazioni più diverse.

 

 

Questa seconda caratteristica mi sembra la abbia orientata  anche nella scelta dei canti.

Corretto. Per l’Inferno ho scelto il XXX, un canto che abitualmente non si fa a scuola. È chiaro che l’insegnante tra Francesca da Rimini, il Conte Ugolino e il Mastro Adamo dovrà compiere una scelta. Il trentesimo canto mette in scena con grande efficacia il diverbio tra due dannati: il personaggio di Dante agens indugia a osservare questa scena e Virgilio lo rimprovera aspramente dicendo «per poco che teco non mi risso»; ‘per colpa tua ho sfiorato la rissa’, parafraseremmo noi. Dante, per rappresentare la sua mortificazione, ricorre a un innalzamento di stile che evoca immagini oniriche, la cui icasticità torna anche nel XXXIII del Paradiso quando rappresenta nientemeno che la visione di Dio, rimasta come un’ombra quando ci si risveglia dal sogno. Lo fa tuttavia anche qui con un innalzamento estremamente netto e molto raffinato che associa al topico imbarazzo del non riuscire a trovare le parole.

Per il Paradiso ho inserito il canto di Piccarda Donati, un brano il cui tasso di similitudini aumenta cospicuamente rispetto alle altre cantiche. Inoltre, colpisce questo sforzo del poeta di rappresentare qualcosa di indescrivibile come la gioia dei beati e il loro illuminarsi sempre di più quando possono esprimere la carità nei confronti di Dante, svelandogli la verità di alcuni dubbi teologici.

Per il Purgatorio, con l’incipit del canto VIII, uno dei più noti del poema, ho voluto evidenziare quanto sia presente a quest’altezza dell’opera il richiamo terreno. Questo aspetto non è del tutto ovvio perché ci sono spiriti che si trovano nell’Antipurgatorio e che dovrebbero accelerare il loro percorso di espiazione e sono invece intimamente legati alla terra, alla stregua dei dannati dell’Inferno. Mi ha sempre colpito il giudice Nino Visconti che non esita a dimostrare una possessiva gelosia per sua moglie che, rimasta vedova, si è nel frattempo risposata. Non ci deve sorprendere il contratto di un secondo matrimonio, sappiamo anzi che la condizione della vedovanza era particolarmente precaria, bensì che il giudice non faccia alcuno sforzo per dissimulare questo sentimento postumo. Alcuni critici negano si tratti di gelosia ma Dante, proprio per la quantità di attenzioni a cui è esposto, va incontro a un numero di interpretazioni che vanno francamente oltre la lettera, che qui pare già molto chiara. Il sommo parla di «dritto zelo» e zelo e geloso sono, tra l’altro, termini che hanno la medesima radice etimologica.

Dante mi dà modo anche di farle una domanda sulla scelta degli esempi a commento in cui spesso si preoccupa di far emergere gli elementi di continuità con l’italiano colloquiale odierno, come nel caso del ci ha dantesco. Lo stesso vale per l’esempio di metafora  tratto dal resoconto del funerale di Ennio Morricone dove ho letto in filigrana il motto miglioriniano nulla die sine schedula, l’idea cioè che lo spoglio quotidiano possa sempre tornare utile.

Certo, l’idea del viaggio come metafora della morte in quel caso. A onore di Bruno Migliorini va detto che lui ricavava queste testimonianze dalla scrupolosa schedatura di riviste; io invece mi sono limitato a rintracciare ne La Repubblica un esempio utile tramite l’interrogazione degli archivi digitali avendo chiaro in mente che non sarebbe stato difficile trovare il termine viaggio in questa accezione.

Anche lei per la sua Grammatica10 ha fatto ricorso ad ampi spogli manuali, in epoca predigitale.
     

Vero, all’epoca non c’erano questi strumenti e quell’anno, persino in treno, mi ritrovavo a far fruttare i ritagli di tempo spogliando il Corriere della Sera alla ricerca di esempi di proposizioni relative (ride).

In conclusione al suo volume su La lingua poetica11 scrive che quel codice secolare è diventato ormai datato al punto che forse varrebbe la pena «metterne in conto una sistemazione museografica». Concretizzando la metafora: a che punto è il Museo della Lingua Italiana12?
     

Dunque il museo sta affrontando i passi preliminari alla definizione dei contenuti perché occorre capire a quanto ammonta il budget per la messa a norma dell’edificio  del comune di Firenze che lo ospiterà. L’inaugurazione programmata a marzo da Franceschini è chiaramente rimandata; al momento siamo in una fase di studio perché sarebbe paradossale se buona parte della cifra stanziata andasse a finire nella sistemazione del contenitore mentre bisogna pensare anche ai contenuti. L’idea embrionale è di partire con una stanza virtuale che illustri la ramificazione della lingua iniziando da Dante, che ne è il rappresentante più illustre. La prima stanza è dedicata ai dialetti, volendo dare spazio al tema del plurilinguismo, visto che già Dante nel De Vulgari fornisce la prima vera rappresentazione dell’Italia dialettale. La seconda stanza, dedicata all’italiano all’estero, muove da Dante  in quanto poeta italiano più noto all’estero e forse anche il più tradotto dopo Shakespeare. Infine, una stanza dedicata alle dimensioni di variazione. Proprio prima osservavo come nell’arco delle tre cantiche il poeta presenti livelli di lingua estremamente differenziati: la varietà  è un elemento intrinseco di ogni lingua e a questo vogliamo dare adeguata rappresentazione nel  futuro museo.

Veniamo ora al ʼ900, mi sembra che a definire la sua proposta si attagli bene l’etichetta di un noto linguista che è anche antologizzato. Lei ha preferito lo «stile semplice».

Sì, è vero, è proprio così. Ci tenevo a chiudere con Enrico Testa che apprezzo molto come poeta e come collega linguista. Lui sapeva già che l’avrei antologizzato perché ho approfittato del nostro rapporto per chiedergli il significato di un verso a cui non sarei arrivato. Testa usa questa definizione di «stile semplice» per la prosa13, in effetti, ma io la estenderei anche alla poesia.

Patrizia Cavalli

 

C’è Patrizia Cavalli che lei definisce la massima esponente di questo stile; Biancamaria Frabotta che parla di «cose chiare»; Giovanni Raboni il cui stile mira alla «discrezione» e infine Fernando Bandini di cui sottolinea «la lingua nitida». Mi sembra che gli attributi insistano tutti su questo campo semantico. Molti di loro sono stati o sono tuttora docenti e mi chiedevo se esista secondo lei uno stile caratteristico del poeta che è anche professore, per riprendere Enrico Thovez 14.

Mi sembra che la caratteristica che li accomuna sia quella di essere letterati che cercano, per converso, uno stile privo di eccessivi echi letterari; ma si tratta di un nascondimento, non di una vera rinuncia ai riferimenti. Di contro non ho inserito Edoardo Sanguineti, che era studioso di primissimo livello e anche più facilmente identificabile come professore visto l’ampio formulario critico a cui ricorreva nella sua poesia.

Ha dovuto fare i conti con qualche esclusione? Conoscendo la sua produzione, mi sarei aspettato qualche librettista come Arrigo Boito.

L’avrei messo volentieri, in effetti.  Apprezzo il librettista come il poeta, ma per l’Ottocento ho privilegiato i pezzi grossi che da soli occupavano largo spazio. Due poeti che avrei inserito con piacere e che sarebbero rientrati tra le sorprese sono Marino Ceccoli e Cecco Nuccoli, due autori perugini del Trecento, esponenti della poesia omoerotica che avevo contemplato per un discorso di rappresentatività. Tra l’altro, uno dei due ricorre a peculiari immagini agricole portandoci, sul piano figurativo, in un altro mondo rispetto a quello molto noto della poesia stilnovistica. In un primo momento avevo previsto di introdurli, ma li ho dovuti sacrificare per motivi di spazio. Pazienza, di questo davvero nessuno se ne accorgerà.

Nel libro Valerio Magrelli viene accostato a Italo Calvino per la «lingua netta e precisa». Nel suo Il sentimento della lingua 15 menziona  Dino Buzzati per la scrittura «nitida e sorvegliata». Direi che ci sono tutti gli auspici per una futura antologia della prosa.

Non ci avevo pensato; se mi verrà in mente di mettermi a scriverlo terrò senz’altro presente la musa ispiratrice (ride).

 

Note:

1 V. D’Angelo, Aspetti linguistici del romanzo italiano del Seicento, Aracne, Roma,2015, p.9.

2 Vd. Intervista a Pier Vincenzo Mengaldo di Stefano Brugnolo consultabile su: http://www.mimesis.education/interviste/intervista-a-pier-vincenzo-mengaldo-di-stefano-brugnolo/.

3 E. Montale, L’opera in versi, edizione critica a. c. di Rossana Bettarini e Gianfranco Contini, Einaudi, Torino, 1981.

4 C. Giunta, Cuori intelligenti, dal secondo Ottocento a oggi, Garzanti scuola, Milano, 2016.

5 Si tratta di una poesia contenuta in T. Scialoja, Versi del senso perso, Einaudi, Torino,  2017, p.10.

6 M. Motolese, Scritti a mano. Otto storie di capolavori italiani da Boccaccio a Eco, Garzanti, Milano, 2017, p.16.

7 L. Serianni, Il gioco linguistico nella poesia di Toti Scialoja, in «Nominativi fritti e mappamondi», il nonsense nella letteratura italiana, Atti del Convegno di Cassino 9-10 ottobre 2007, a.c. di G. Antonelli e C. Chiummo, Salerno Ed., Roma, 2009, pp. 307-324. Poi confluito in L. Serianni, Per l’italiano di ieri e di oggi, Il Mulino, Bologna, 2018, pp. 227-244.

8 M. Corti, Metodi e fantasmi, Feltrinelli, Milano, 1977.

9 M. Grimaldi, Dante, nostro contemporaneo, Castelvecchi, Roma, 2017.

10 L. Serianni, Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria. Suoni, forme, costrutti, con la collaborazione di Alberto Castelvecchi, UTET,  Torino, 1988.

11 L. Serianni, La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Carocci, Roma, 2018, p.456.

12 Per approfondire vd. G. Antonelli, Il museo della lingua italiana, Mondadori, Milano, 2020. Insieme a: https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/who-is-who/2020/09/nuovo-museo-lingua-italiana-firenze-intervista-luca-serianni/.

13 Enrico Testa, Lo stile semplice: discorso e romanzo, Einaudi, Torino, 1997.

14 Cfr. E. Thovez, Il Pastore, il Gregge e la Zampogna. Dall’inno a Satana alla Laus vitae, Riccardo Ricciardi editore, Napoli, 1920.

15 L. Serianni, Il sentimento della lingua, Il Mulino, Bologna, 2019, pp.128-129.

 

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3 commenti

  1. Cari amici di M&M, le immagini di Luca Serianni e Patrizia Cavalli nell’articolo del 27 gennaio, sono mie fotografie. Per favore inserite il credito fotografico, grazie.
    Dino Ignani

  2. Dopo che vi ho scritto ben tre volte chiedendovi di inserire il credito fotografico alle immagini di Luca Serianni e di Patrizia Cavalli, posso ora scrivere che siete dei cialtroni

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Autore

emilianoceresi@minimaetmoralia.it

Emiliano Ceresi è dottorando in Studi umanistici presso l’Università degli Studi di Palermo dove conduce un progetto di ricerca sulla lingua e le fonti letterarie di Giorgio Manganelli. Si è laureato in Filologia moderna discutendo una tesi in Storia della lingua italiana, intitolata “Esempi di antichizzazione nel romanzo contemporaneo: Bufalino, Eco, Mari” (relatore: Matteo Motolese; correlatore: Luca Serianni). I suoi interessi spaziano dalla stilistica alla lessicografia con particolare attenzione agli aspetti linguistici e filologici degli autori contemporanei. È stato relatore in convegni presso Università italiane ed estere e ha tenuto lezioni all’interno del corso di Linguistica testuale del proprio ateneo. Collabora con "Portale della lingua italiana" dell'enciclopedia Treccani. Per il sito Fenomeno.eu conduce un podcast di interviste sulla contemporaneità che si chiama "Canone".  

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